Le mie novelle 2^ parte

 

 

   Indice
 (Clicca sul nome)

 Hannu mu squagghianu li   
campani

      Tre luminari a consulto

      Pampine 'e cavuli e lippu...

Una banda di banditi

Canzone disperata

Una serenata particolare

Aldilà

Il milunaro

Pietà filiale

La causa

L'emigrante

Inquinamento

Tema 
Eventualmente...?
Altre novelle

 

 

                             Tre luminari a consulto

      L'asino di zu Nicola era ammalato da diversi giorni: una bruttissima piaga era comparsa sulla schiena del povero animale lì, a pochi centimetri dalla striscia prodotta dallo strofinio della cinghia del basto dove il pelame stentava a crescere. Era chiaro che la piaga non era stata prodotta dai finimenti, né l'asinello si era ferito. Evidentemente si trattava di una malattia sconosciuta, perlomeno a zu Nicola.

Il pover'uomo era disperato: il malanno di Frisichello lo preoccupava seriamente, non tanto per l'aiuto che la povera bestia poteva ancora dargli, tanto, oramai, neanche lui se la sentiva più di andare a lavorare, quanto perché, dopo la morte di za Concetta era rimasto solo con l'animale col quale divideva il grazioso appartamentino scavato a colpi di piccone nell'arenaria della collinetta. Chiese perciò aiuto agli amici e questi lo indirizzarono a tre celebri luminari del paese, da anni impegnati nella nobile arte della medicina asinina.

L'esperienza consolidata di zu Giuseppe, zu Ntone e zu Domenico, acquisita con l'esercizio onorato della professione, rappresentava una vera garanzia e zu Nicola si recò fiducioso all'appuntamento conducendo per la cavezza il mite Frisichello. L'ambulatorio dei tre specialisti si trovava all'aperto, in un angolo della piazza del paese ai piedi della gradinata della chiesa di S. Francesco.

Iniziò subito la visita. Zu Nicola stringeva la cavezza dell'asino volgendo le spalle alla gradinata, mentre i dottori esaminavano il paziente. Cominciò zu Domenico che strizzò tre o quattro volte la piaga. Frisichello, evidentemente, provò una fitta alla schiena perché diede uno strattone rinculando e mandando  a terra bocconi zu Nicola. Seguì puntuale l'immancabile bestemmia del vecchio che si rialzò stringendo a due mani la cavezza e puntando i piedi. "Garrese, sentenziò zu Domenico , brutto affare!". "Macchè, esclamò zu Nicola che aveva ripreso a torturare Frisichello, é una pitinia" e strizzò più forte.

Frisichello si impennò e strattonò. Uhhh, botta ‘e sangu! gridò zu Nicola cercando di calmare l'animale, mentre il terzo primario si avvicinava al somaro. Nuova strizzata e nuova diagnosi, mentre il povero animale manifestava a suo modo il dissenso per quelle diagnosi così superficiali. A questo punto si accese una disputa animata tra i tre ricercatori che tentavano di dimostrare, a colpi di strizzate, l'esattezza della propria diagnosi, mentre il povero Frisichello scalciava e strattonava ripetutamente e zu Nicola tirava a più non posso la cavezza per tenere fermo il malcapitato somaro.  

All'improvviso successe l'irreparabile: la fune, evidentemente logorata, si spezzò ed il povero zu Nicola ruzzolò per terra andando a saggiare col cranio pelato la consistenza di uno dei gradini, mentre Frisichello se la dava a gambe incredulo per quella insperata fortuna che lo sottraeva al supplizio della scienza medica. Il sangue sgorgò copioso dal capo di zu Nicola e gli specialisti accorsero verso il vecchio per un nuovo, più interessante consulto. Zu Nicola, terrorizzato, lesse negli occhi le intenzioni di quegli aspiranti al Nobel e, con uno scatto impensabile per l'età si alzò e se la diede a gambe inseguito dal suo amato Frisichello barricandosi con lui nell'accogliente dimora.  

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Pampine 'e cavului e lippu 'e jimara

      Un mattino del mese di maggio di tanti, tanti anni fa, all’alba, due celebri ladroni si incontrarono per caso alla fontana di Laruso dove si erano fermati entrambi per dissetarsi dopo la consueta scorribanda notturna.  Erano molto stanchi e sui loro volti si leggeva la stanchezza per una notte insonne nel corso della quale avevano cercato di mettere a segno qualche buon colpo, ma anche la delusione per un bottino non proprio ricco. 

 “Buon giorno, carissimo Pasquale, esordì il primo rivolgendosi all’amico, qual buon vento?”   “Un vento di miseria, rispose Pasquale dopo aver ricambiato il saluto, viviamo tempi grami, mio caro Nicola! Lavori, ti sacrifichi, rischi tutte le notti di imbatterti in un dannato sbirro che ti può mandare a marcire in galera e che porti a casa? Quasi niente! Ma forse stanotte a te è andata meglio, vedo che il tuo sacco è zeppo”, continuò sbirciando furtivamente e avidamente la bisaccia del compare. Poca roba anche per me, rispose Nicola guardando a sua volta il sacco dell’amico, solo un po’ di suole per scarpe che sono riuscito a procurarmi nel corso di una visitina alla bottega di uno scarpaio. Che vuoi che me ne faccia? Quanto ne potrò ricavare?” Guarda la combinazione, cercavo proprio delle suole di scarpa da rivendere a mastro Luigi; proprio ieri me le ha cercate. Se vuoi possiamo far cambio con questi scampoli di seta che un sarto di Spinello mi ha regalato controvoglia.” “E’ il cielo che ti manda, allora, riprese Pasquale, sono diversi giorni che mia moglie mi tormenta e mi chiede di procurarle degli scampoli di seta per il corredo di Rosinella. E’ stata certamente la Provvidenza che ci ha fatto incontrare stamattina! Chissà come sarà contenta Maria! Va bene, allora facciamo cambio e non pensiamoci più!”

Ciò detto i due sacchi passarono di mano e i due bricconi, dopo essersi salutati, con una fretta davvero insolita, a grandi falcate, si allontanarono prendendo direzioni opposte. Ognuno cercava di mettere quanta più strada possibile tra sé e l’amico e così, in pochi attimi scomparvero nella fitta boscaglia e, qualche minuto dopo, erano oramai a oltre due miglia l’uno dall’altro.

Quando oramai erano sufficientemente distanti, si sedettero quasi contemporaneamente per riprendere fiato e dare una sbirciatina alla mercanzia contenuta nel sacco.

“Maledizione, urlò Nicola cacciando fuori manate di foglie di cavolo che l’astuto compare vi aveva stivato. Pasquale me l’ha fatta! Vatti a fidare di certi amici!”.  “Per tutti i diavoli dell’inferno, bestemmiò Pasquale estraendo dal sacco manate di alghe secche con le quali l’astuto Nicola aveva riempito il suo sacco, Nicola mi ha fregato! Vatti a  fidare di certi amici!”

Non si è mai capito come in paese la gente sia venuta a sapere della incredibile, reciproca beffa, ma da quel giorno Pasquale e Nicola furono per tutti “Pampine ‘e Cavulu” e “Lippu ‘e Jimara.”

 

Rielaborazione di  un racconto popolare tramandato dalla tradizione orale.

 

                                                            

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Una banda di banditi

    Studenti, soldati e musicanti, é risaputo: mettili insieme e sono peggio delle cavallette. E’ pericoloso un branco di lupi affamati, va temuto un branco di leoni della savana, perfino uno di cani randagi, ma tutti questi assembramenti di rispettabili bestie sono congregazioni di miti agnellini al confronto di un plotone di soldati in libera uscita, di una scolaresca in gita di istruzione, o, peggio ancora, di una banda di musicanti in tourneé.  Magari presi singolarmente gli individui che li compongono son tutte brave persone, ma, mettili insieme e sono in grado di far tremare perfino gangster del calibro di Al Capone.

   Se queste considerazioni valgono in generale, figuriamoci per la banda musicale di Quattrotane, un’accozzaglia di eterni scavezzacoli, trentacinque bricconi adusi ad ogni sorta di scherzo o di scellerata ribalderia, incuranti delle conseguenze che tali bravate producevano sui malcapitati che avevano il solo torto di incrociare la loro strada con quella dei  terribili “pupilli di Euterpe”.

   A quei tempi, quando la banda si recava negli altri paesi per esibirsi l’impresario noleggiava un vecchio camion, un Ford Taunus di quelli dal muso lunghissimo e dal cassone ridotto, che arrancava  penosamente sulle ripide e polverose strade di Calabria. Lo sgangherato automezzo, carico di strumenti e musicanti, percorreva a stento, sbuffando come un vecchio asmatico, i tratti meno ripidi, ma, quando la strada si inerpicava per i fianchi delle colline, era davvero un dramma. Allora Pasquale, il vecchio “sciafferro” fermava il mezzo e pregava una parte di quell’accozzaglia di scendere e di percorrere a piedi il pezzo più ripido ché li avrebbe aspettati alla fine della salita per riprenderli a bordo. Allora un gruppetto di quella “schiuma di cancarena” scendeva dall’automezzo non prima di aver inscenato una furibonda protesta, ma, appena Pasquale rientrava in cabina, furtivamente, ma lestamente, i furfanti risalivano sul camion il cui autista, sicuro di averli appiedati, non riusciva a rendersi conto delle difficoltà che il vecchio Taunus incontrava per superare quel maledetto tratto di strada. Quando sentivano che il mezzo rallentava per fermarsi, piombavano giù nascondendosi dietro i massi e gli arbusti per poi fingere, dopo un po’, di arrivare stanchi e furibondi nel luogo dove il Povero Pasquale li attendeva mentre, disperato, osservava il vapore uscire dal radiatore come da una vecchia vaporiera.

   Quando la tourneé prevedeva un pernottamento nel paese in festa, era usanza della popolazione ospitare nelle povere case, anche a costo di enormi sacrifici, un paio di quelle canaglie.  Ebbene, i malcapitati paesani non sapevano quasi mai di dover mettere in conto la rottura di piatti, il furto di qualche stoviglia e, quasi sempre, il cambio del materasso infracidito che quei mascalzoni, per puro divertimento, “innaffiavano” abbondantemente quasi fossero stati bimbi incontinenti. 

   Ma la mascalzonata  più odiosa la misero a segno ai danni di un povero mulattiere che, ancora oggi, soffre le conseguenze dell’esacrando gesto.  Un giorno, mentre gli scellerati tornavano da un paese vicino che erano stati costretti a raggiungere a piedi perché sprovvisto di strada d’accesso per le autovetture, incontrarono il povero vaticale che, con un mulo carico di ricotte, stava recandosi alla fiera di Mulerà per venderle e ricavarne un po’ di soldi. Le ricotte fresche, avvolte nell’”erbuzza”, erano contenute in quattro “fiscini” legati in groppa al mulo. I “banditi” si informarono del contenuto e della natura del carico e il mulattiere, affascinato evidentemente dagli emuli di Mozart, offrì loro, spontaneamente e col sorriso sulle labbra,  tre ricotte perché le mangiassero per strada. Ma i bricconi, evidentemente non contenti del bottino, cominciarono a premere sul malcapitato affinché aumentasse a dismisura la consistenza della donazione. Il poveraccio aggiunse ancora un paio di ricotte, ma le pretese, invece di scemare, aumentavano.  Allora tentò di sottrarsi a quell’orda famelica e, preso per la cavezza il mulo, lo strattonò per avviarsi e sfuggire ai briganti. I musicanti gli si pararono innanzi tagliandogli ogni via di fuga ed egli cercava disperatamente di spezzare l’assedio.  A questo punto il trombettiere concepì, in un baleno, il suo piano scellerato: si avvicinò furtivamente al mulo, si portò la tromba alle labbra ed emise, proprio nelle orecchie della povera bestia, lo squillo più acuto che si potesse produrre con quel maledetto strumento. Il mulo fu come punto contemporaneamente da un milione di tafani: terrorizzato si impennò, ricadde, tornò ad impennarsi sempre più in alto mentre quel farabutto continuava a suonare  la sua diabolica tromba. Decine e decine di ricotte uscirono dai “fiscini” e si spiaccicarono sul terreno mentre il malcapitato mulattiere cercava disperatamente, bestemmiando come un turco, di calmare la bestia. Fu a questo punto che, approfittando delle difficoltà del poveraccio quei criminali se la diedero a gambe dileguandosi rapidamente nella boscaglia. Il pover’uomo,allora, calmato l’animale, si sedette affranto con la cavezza tra le mani contemplando piangente l’immane disastro che lo aveva ridotto sul lastrico.

   

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                              Canzone disperata

   Francesco e Ninetta si amavano timidamente, pudicamente, sempre sotto l’occhio vigile della madre di lei, dei fratelli, delle sorelle, così come ci si poteva amare in quel lontano 1866 in un paesino come Caccuri, appollaiato sulla sua rupe, fra cornici di ginestra e siepi di rovi e di lentischio, ma si amavano profondamente.

Il giovane contadino cercava e sfruttava ogni occasione per incontrare l’amata quando col barile in testa o la “rancella” in mano, andava ad attingere l’acqua a San Liborio o a Canalaci o quando, nel pomeriggio, “civava” i maiali a Filezzi.  Francesco si nascondeva dietro un albero, dentro una grotta, in un crepaccio e da lì sorprendeva Ninetta baciandola furtivamente, a volte anche spaventandola. La ritrosetta fingeva di arrabbiarsi mentre un pudico rossore le incarnava le guance, ma in cuor suo gioiva di quella oramai consueta, gradita sorpresa e il tutto il suo essere palpitava d’amore. La sera Francesco si presentava a casa dell’innamorata e, quando i maschi andavano a letto per potersi alzare presto al mattino, Francesco si sedeva al lato del caminetto. Ninetta si accoccolava al lato opposto e la madre, in mezzo, vegliava, a suo modo, sulla virtù della figlia lottando disperatamente col sonno che, ogni tanto, la faceva “cimare”. E quando za Rosina cedeva un poco al sonno reclinando la testa in avanti, i due giovani si scambiavano sguardi languidi e carichi d’amore, mentre le mani, dietro la schiena di za Rosina, si sfioravano carezzevoli scatenando turbini di passioni represse. Poi, quando la testa dell’anziana madre cadeva più violentemente del solito e il mento colpiva con più forza la punta del petto, la povera donna si ridestava di botto, prendeva il coraggio a due mani e costringeva il giovane innamorato a sgombrare il campo. Francesco scendeva rapidamente i cinque gradini del “vignano”, girava sul retro della casa e si acquattava sotto la finestra illuminata della stanzetta che Ninetta divideva con la sorella  Maria.  Ninetta lo sapeva e si affacciava e il fidanzato, da sotto, le mandava baci appassionati che la facevano arrossire di piacere. La vita scorreva tranquilla e i due ragazzi pensavano con impazienza al giorno in cui avrebbero finalmente potuto coronare il loro sogno d’amore.

Un giorno d’aprile, quando la natura era in festa e Francesco cercava come non mai i baci di Ninetta, i carabinieri scesero alla Judeca e bussarono alla porta di zu Rosario per dirgli che “il coscritto Procopio Francesco doveva partire soldato e che fra tre giorni doveva presentarsi alla caserma di Cotrone.”

La notizia si diffuse in un baleno e gettò nella disperazione i due innamorati. Quello era l’ultimo giorno che potevano vedersi; il mattino dopo Francesco doveva partire per un viaggio di due giorni per raggiungere Cotrone. Avrebbe dovuto guadare il Matasse alle Monache,  il Lepre, il Neto, camminare per impervi sentieri sotto un sole impietoso e dormire all’adiaccio. E, dopo Cotrone,  chissà cosa lo attendeva.

Il giovane e tutti i paesani maledivano il nuovo re, questo re piemontese che aveva cacciato il povero Francischiello e che aveva messo la tassa sul pane e ora si prendeva anche i giovani per quattro anni a fare il soldato. Le ore trascorsero tristi e la sera, quando il ragazzo si congedò dalla promessa sposa e dai parenti, si sentì strappare il cuore dal petto. Calde lacrime solcavano il volto pallido di Ninetta, mentre Francesco cercava di nascondere il dolore affrettando i tempi del distacco. Più tardi le cantò la più struggente delle serenate e fu quello il loro addio.

…………………..

Un giorno del mese di giugno in paese si diffuse una terribile notizia. Don Nicola aveva letto sul giornale che gli arrivava da Cotrone una volta la settimana, che lontano, verso Verona, c’era stata una grande battaglia tra i piemontesi e i tedeschi. I piemontesi erano stati sconfitti e c’erano stati tanti morti e tra loro anche tanti soldati meridionali che combattevano con i piemontesi.

Quando Ninetta seppe la notizia si sentì morire. Un triste presentimento le sconvolse l’esistenza e la fanciulla si convinse che anche il suo Francesco, che da mesi non aveva più dato notizie di sé, era sicuramente tra i morti. Passarono molti giorni e del ragzzo non si seppe più nulla. Allora Ninetta cominciò a deperire a vista d’occhio. Non faceva altro che piangere; non toccava più quasi cibo, le gote diventavano sempre più pallide, il fisico sempre più gracile e debole, mentre la giovane si lasciava lentamente morire. A nulla valsero le cure di don Vincenzo, il medico del paese che tentava disperatamente di strapparla alla morte. E un triste giorno di ottobre Ninetta chiuse per sempre i suoi bellissimi occhi azzurri.

Qualche giorno dopo, verso le dieci di sera, lungo il sentiero che da Gallea saliva per Pavia fino alla Destra, un militare avanzava a passi veloci. Nella destra stringeva un fagotto, mentre la mano sinistra impugnava una chitarra. Il soldato si portò sotto quella che era stata la finestra della povera Ninetta e si mise a cantare una festosa serenata. Aspettava, come sempre, che un tenue chiarore dietro i vetri venisse ad annunciargli il prossimo affacciarsi dell’amata, ma la finestra rimase a lungo chiusa e buia. Verso la fine della serenata sentì un pianto disperato, poi la finestra si spalancò, apparve Maria che, tra le lacrime, raccontò al povero giovane la triste fine dell’amata. Francesco si sentì morire, poi, pazzo di dolore e di rabbia, corse via e scomparve nel buio.

Il mattino dopo tutto il paese seppe del ritorno del soldato, ma nessuno, nemmeno i genitori, riuscirono a vederlo. Lo cercarono a lungo nei dintorni del paese, ma non lo trovarono. La notte si udì una voce straziante che intonava una commovente canzone che diceva:  

Frinesta ca lucia e mo nun luci

criu ca la mia bella sta malata.

S’affaccia la sorella e mi lu dicia

Dicia “Ca la tua bella è morta e sutterrata

 

E si la vo virire n’atra vota,

è alla cappella re la Nuzziata.

Le rose re la faccia su spremute

E c’è rimastu ‘u giallu , ohi chi peccatu!”

 

Ohi surici re la sepoltura,

ve pregu, a Ninetta mia nun la toccati

ch’all’ ottu jorni vegnu e de la vita

de la vita mia patruni siti.”

 

Qualche notte dopo si udì un colpo secco di moschetto provenire dalla collina dell’Annunziata, il luogo dove veniva seppellita la povera gente. Il mattino dopo trovarono il corpo di Francesco che giaceva supino, in una pozza di sangue, sulla tomba di Ninetta.

 

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                            Una serenata particolare 
 

Un fuoco scoppiettante ardeva nel caminetto di zu Domenico. I bagliori rossastri contribuivano a rischiarare il povero basso nel quale la fioca luce di un lume a petrolio veniva quasi completamente assorbita dalle pareti annerite dal fumo. Un calore confortevole si spandeva nell’angusto tugurio. Sulla tavola, sovrastata dalla “cannizza” del pane, rimanevano gli avanzi della  “tiella” di capretto che Zu Domenico, Zu Pasquale e Zu Giovanni avevano consumato scolandosi la consueta damigiana impagliata da dieci litri che il padrone di casa metteva a disposizione in queste occasioni.

Ora i tre, seduti davanti al  focolare, accordavano gli strumenti per una improbabile serenata che avevano deciso di portare a compare Salvatore e comare Maria che abitavano  alla Judeca. Zu Domenico, pizzicando la prima corda del violino, mentre armeggiava con la chiavetta della seconda, con gli occhi velati e la cadenza tipica di chi ha tracannato parecchi bicchieri, si rivolse a zu Pasquale che aveva, a suo dire, accordato la chitarra. “Pasquà, dammi un mi.”  Zu Pasquale, che bicchieri ne aveva tracannati forse anche di più, pizzicò una corda e ne uscì un “fa”.

“Ma che diavolo fai, lo apostrofò zu Domenico, ti chiedo un mi e mi dai un re?” “Quale re, quale re, si infervorò zu Pasquale continuando a pizzicare tranquillamente la stessa corda, non senti che è un mi, ma che hai, sei davvero ubriaco stasera?”  “Io ubriaco? Sei tu intontito, non ti accorgi che stai suonando un re? Hai un anno meno di me e sei già così rimbambito, quando arriverai alla mia età come ti ridurrai?”. “Io intontito? Sei tu che sei ubriaco fradicio, è mezzora che ti sto dando un mi e tu mi dici che è un re!”.

“Siete tutti e due rimbambiti, sentenziò zu Giovanni dopo tre o quattro singhiozzi consecutivi, rigirando il mandolino tra le mani,. Ich, non sentite, ich, che è un sol? Ich, ma che razza di suonatori siete? Ich, è un sol, un sol, ich!”

« Un sol ? Ma che stai dicendo, pezzo di cretino, esplose zu Domenico sempre più “allemperàtu”, un sol?, ma quale sol! A me, a me dici che razza di suonatori, a me che vi ho insegnato a suonare quando ancora non sapevate qual era il manico della chitarra e quali le corde?”

“Siete due ignoranti, riprese serafico zu Pasquale, scambiare un mi per un re o per un sol, cose da pazzi! Ma come fate a suonare? Dovreste solo vergognarvi”

“Io vergognarmi, si infuriò zu Domenico, ti faccio vedere io!”, disse avventandosi su zu Pasquale che lo prevenne assestandogli una chitarrata in piena fronte che fece rimbombare il basso. Zu Giovanni accorse per dirimere la contesa, ma un colpo di archetto lo colpì sul collo come una frustata. Allora non ci vide più e “fece suonare” un paio di volte il mandolino sul groppone di zu Pasquale.

“Per tutti i diavoli dell’inferno,  urlò zu Domenico toccandosi la fronte dolorante, vi faccio vedere io chi sono”, usando il violino come una clava sulla zucca pelata di zu Giovanni.

Il parapiglia era al suo culmine e il basso rimbombava per le chitarrate, le violinate, le mandolinate che si abbattevano su quelle zucche vuote, quando risuonarono nell’aria le note di “Speranze perdute”, la beffarda serenata che alcuni giovani buontemponi erano solito portare ai tre irascibili vecchi, quando li sapevano impegnati nelle consuete gozzoviglie con conseguente sbronza, alludendo alla sopraggiunta impossibilità di sbrigare certe piacevoli faccende che, nel lontano tempo della loro gioventù, riuscivano, viceversa, a sbrigare egregiamente.

Allora si ripeté la consueta scena: i tre vecchi, firmato un immediato armistizio, si armarono di “asche” di legna e si precipitarono a spalancare l’uscio per dare una lezione a quei giovinastri.Tirarono la porta a più non posso, ma, ahimè, non riuscirono ad aprirla. Allora raddoppiarono gli sforzi nel vano tentativo di spalancare l’uscio e consumare la loro vendetta, mentre fisarmoniche e chitarre continuavano a sbeffeggiarli.

A un certo punto quei figli di buona donna sfilarono il paletto che avevano infilato nell’anello del battente. La porta si aprì di colpo e i tre litigiosi  vegliardi si ritrovarono gambe all’aria sui mattoni del basso, bestemmiando come turchi, mentre i giovani suonatori, spanciandosi dalle risate, si allontanavano prudentemente dalla zona.

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                                       Aldilà

Un fuoco scoppiettante ardeva nel caminetto di zu Domenico. I bagliori rossastri contribuivano a rischiarare il povero basso nel quale la fioca luce di un lume a petrolio veniva quasi completamente assorbita dalle pareti annerite dal fumo. Un calore confortevole si spandeva nell’angusto tugurio. Sulla tavola, sovrastata dalla “cannizza” del pane, rimanevano gli avanzi della  “tiella” di capretto che Zu Domenico, Zu Pasquale e Zu Giovanni avevano consumato scolandosi la consueta damigiana impagliata da dieci litri che il padrone di casa metteva a disposizione in queste occasioni.

Ora i tre, seduti davanti al  focolare, accordavano gli strumenti per una improbabile serenata che avevano deciso di portare a compare Salvatore e comare Maria che abitavano  alla Judeca. Zu Domenico, pizzicando la prima corda del violino, mentre armeggiava con la chiavetta della seconda, con gli occhi velati e la cadenza tipica di chi ha tracannato parecchi bicchieri, si rivolse a zu Pasquale che aveva, a suo dire, accordato la chitarra. “Pasquà, dammi un mi.”  Zu Pasquale, che bicchieri ne aveva tracannati forse anche di più, pizzicò una corda e ne uscì un “fa”.

“Ma che diavolo fai, lo apostrofò zu Domenico, ti chiedo un mi e mi dai un re?” “Quale re, quale re, si infervorò zu Pasquale continuando a pizzicare tranquillamente la stessa corda, non senti che è un mi, ma che hai, sei davvero ubriaco stasera?”  “Io ubriaco? Sei tu intontito, non ti accorgi che stai suonando un re? Hai un anno meno di me e sei già così rimbambito, quando arriverai alla mia età come ti ridurrai?”. “Io intontito? Sei tu che sei ubriaco fradicio, è mezzora che ti sto dando un mi e tu mi dici che è un re!”.

“Siete tutti e due rimbambiti, sentenziò zu Giovanni dopo tre o quattro singhiozzi consecutivi, rigirando il mandolino tra le mani,. Ich, non sentite, ich, che è un sol? Ich, ma che razza di suonatori siete? Ich, è un sol, un sol, ich!”

« Un sol ? Ma che stai dicendo, pezzo di cretino, esplose zu Domenico sempre più “allemperàtu”, un sol?, ma quale sol! A me, a me dici che razza di suonatori, a me che vi ho insegnato a suonare quando ancora non sapevate qual era il manico della chitarra e quali le corde?”

“Siete due ignoranti, riprese serafico zu Pasquale, scambiare un mi per un re o per un sol, cose da pazzi! Ma come fate a suonare? Dovreste solo vergognarvi”

“Io vergognarmi, si infuriò zu Domenico, ti faccio vedere io!”, disse avventandosi su zu Pasquale che lo prevenne assestandogli una chitarrata in piena fronte che fece rimbombare il basso. Zu Giovanni accorse per dirimere la contesa, ma un colpo di archetto lo colpì sul collo come una frustata. Allora non ci vide più e “fece suonare” un paio di volte il mandolino sul groppone di zu Pasquale.

“Per tutti i diavoli dell’inferno,  urlò zu Domenico toccandosi la fronte dolorante, vi faccio vedere io chi sono”, usando il violino come una clava sulla zucca pelata di zu Giovanni.

Il parapiglia era al suo culmine e il basso rimbombava per le chitarrate, le violinate, le mandolinate che si abbattevano su quelle zucche vuote, quando risuonarono nell’aria le note di “Speranze perdute”, la beffarda serenata che alcuni giovani buontemponi erano solito portare ai tre irascibili vecchi, quando li sapevano impegnati nelle consuete gozzoviglie con conseguente sbronza, alludendo alla sopraggiunta impossibilità di sbrigare certe piacevoli faccende che, nel lontano tempo della loro gioventù, riuscivano, viceversa, a sbrigare egregiamente.

Allora si ripeté la consueta scena: i tre vecchi, firmato un immediato armistizio, si armarono di “asche” di legna e si precipitarono a spalancare l’uscio per dare una lezione a quei giovinastri.Tirarono la porta a più non posso, ma, ahimè, non riuscirono ad aprirla. Allora raddoppiarono gli sforzi nel vano tentativo di spalancare l’uscio e consumare la loro vendetta, mentre fisarmoniche e chitarre continuavano a sbeffeggiarli.

A un certo punto quei figli di buona donna sfilarono il paletto che avevano infilato nell’anello del battente. La porta si aprì di colpo e i tre litigiosi  vegliardi si ritrovarono gambe all’aria sui mattoni del basso, bestemmiando come turchi, mentre i giovani suonatori, spanciandosi dalle risate, si allontanavano prudentemente dalla zona.

 

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Il Milunaro (1)

     I meloni erano lì, accatastati in terra all'ombra, nell'unico angolino fresco dell'assolata piazza. Il milunaro, seduto in terra, aspettava gli acquirenti che di tanto in tanto si facevano vivi e, ogni volta, si alzava, imboniva i clienti e, con mano sicura, impugnava il coltello e "tassellava" il melone. Allora, come d'incanto, appariva nella sua mano un vermiglio, succoso, dolcissimo triangolino di polpa che l'acquirente gustava con esasperante lentezza, assaporandone la delizia per sincerarsi della bontà del prodotto. Poi pagava, prendeva il suo melone e andava via, mentre il milunaro tornava a sedere contando le monete in attesa del prossimo cliente.
      I monelli, poco distante, osservavano ogni volta quel rito con occhi attenti, inghiottendo a fatica la saliva ogni volta che nella mano dell'uomo appariva quel pezzetto di polpa zuccherosa. Da alcuni minuti clienti non se ne vedevano ed il milunaro, seduto per terra con le braccia incrociate sul petto ed il cappello a borsalino leggermente calato sugli occhi, si era quasi assopito nella calura agostana. D'un tratto, nella piazza deserta, uno dei monelli si staccò dal gruppo e prese ad avvicinarsi con circospezione all'uomo assopito. Ora gli era dappresso. All'improvviso una tremenda frustata colpì tra capo e collo il poveruomo. Il milunaro urlò per il dolore e si alzò di scatto portandosi le mani al collo. Il cappello gli cadde all'indietro. Vide il suo assalitore, un monello sui tredici anni che se la dava a gambe. Il bruciore al collo lo faceva impazzire. Allora si lanciò all'inseguimento di quel briccone che, per rincarare la dose, gli faceva le boccacce. Pochi minuti e si ritrovò in un dedalo di viuzze. Sentiva il discolaccio sghignazzare ora da una parte, ora dall'altra, ma non gli riusciva assolutamente di individuarlo. Gli diede ancora la caccia per qualche minuto, poi, mentre il bruciore al collo cominciò ad attenuarsi, si ricordò dei suo commercio, desistette dai propositi di una impossibile vendetta e, districandosi a fatica in quel labirinto di strade e stradette, si ritrovò in piazza. La catasta dei meloni era pressoché sparita. Pochi esemplari, rimasti in terra, vennero caricati sul carretto dallo sconsolato milunaro che si avviò mestamente verso l'uscita del paese. Poco lontano, in un boschetto, lontano da sguardi indiscreti una schiera di monelli divorava avidamente alcuni meIoni. . Il più grosso, naturalmente, era toccato a lui, al capobanda che, coraggiosamente, aveva affrontato il milunaro con argomenti che, evidentemente, erano risultati molto convincenti

 

1) La novella trae spunto da un fatto realmente accaduto.


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                            Pietà filiale  
   
   
Nicolino era appena tornato dall'America: lo si capiva a prima vista dalla sgargiante giacca gialla, dalla cravatta blu sulla camicia marrone, dal cappello di lino bianco e dalle scarpe esageratamente a punta; l'immancabile sigaro in bocca completava il look dell'ennesimo italo americano.

Vent'anni prima, carico di miseria e di speranza con sulle spalle una elegante "valigia di cartone" era salito su uno dei tanti bastimenti che solcavano l'oceano diretti nel paradiso di Roosvelt. E la fortuna era arrivata quasi subito sotto le sembianze di un compaesano che gli aveva trovato un posto di garzone in una pizzeria di "Brokkolino".

Nicolino ci aveva dato dentro e già tre anni dopo, raggranellato qualche dollaro, si era messo in proprio. Gli affari andavano discretamente e il giovane non aveva dimenticato il vecchio padre rimasto in Italia e al quale mandava puntualmente qualche soldo. Tutto andava a gonfie vele quando un brutto giorno il povero vecchio venne chiamato repentinamente in cielo e dovette abbandonare questa valle di lacrime. Nicolino ne soffrì terribilmente e da allora non pensò ad altro che a tornare per un breve periodo al suo paese per far visita alla tomba del padre.

Venti anni dopo finalmente sbarcò in Italia e, dopo qualche giorno, giunse al paese. Il momento era arrivato  e, in occasione della festa dei morti, si recò al cimitero. Giunto nel posto ove presumeva si trovasse la tomba del povero zio Gaetano si mise a chiamare a gran voce don Pasquale, il vecchio custode del cimitero perché gliela indicasse. "Don Pasquale, prese a dire nel suo nuovo idioma, you impara me dove essere tomba my padre?" Il custode, che a stento aveva decifrato quella tiritera, gli mostrò il povero tumulo sotto il quale riposava il povero zu Gaetano e sul quale si reggeva a stento un povera croce di ferro, poi tornò alle sue faccende.

Nicolino guardò a lungo la misera sepoltura, ma non riusciva ad accettare l'idea che li sotto potessero esserci le spoglie del padre. Passò ancora qualche attimo e richiamò il custode. "Don Pasquale, Don Pasquale, sorry, my padre non essere qui".

Don Pasquale pazientemente ritornò sul posto e gli indicò per la seconda volta il tumulo. Nicolino sembrò finalmente convinto e, mentre una lacrima gli solcava il viso, sistemò un mazzo di fiori sulla croce. Poi rimase lì a meditare, ma più passavano i minuti, più gli sembrava impossibile che il padre potesse stare li sotto. "Don Pasquale, si mise ad urlare per la terza volta Nicolino, my padre non essere qua!"  "Sarà andato un'altra volte al bar a giocare a carte; non lo perde mai questo viziaccio!" urlò don Pasquale bestemmiando come un turco mentre i parenti degli altri defunti scoppiarono in una fragorosa risata.

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                                                  La causa

     Zu Giovanni non si era mai  imbattuto in una causa così strana, eppure gliene erano capitati di episodi curiosi nella sua carriera di giudice conciliatore! Si era sempre trattato di controversie tra povera gente, a volte incattivita dalla miseria e dagli stenti, diatribe fastidiose, ma che, comunque, zu Giovanni, novello Salomone, riusciva a comporre egregiamente contribuendo, tutto sommato, a mantenere la pace sociale tra gli abitanti dell’ameno paesino. Stavolta, però era perplesso; stavolta non sapeva che pesci pigliare e si grattava in continuazione il capo imbiancato, mentre roteava gli occhi iniettati di sangue a causa di una congiuntivite cronica, ma anche dei troppi bicchieri tracannati. I fatti erano questi: zu Saverio aveva affittato a zu Pasquale la baracca che aveva costruito, qualche tempo prima, nell’orto del Cucco. Zu Pasquale vi rinchiudeva Russulillu, l’asinello che teneva oramai, più per compagnia che per andarci a lavorare dato che, per l’età, adesso non aveva più neanche la forza di annodare “i carricaturi.” (1)  Zu Pasquale si era impegnato a corrispondergli un canone mensile di cinque soldi, ma, oramai da più di sei mesi, si rifiutava di pagare la somma pattuita per cui zu Saverio gli aveva mandato “il biglietto” (2) per mezzo di zu Luigi, il messo comunale, dopo che zu Giovanni aveva fissato l’udienza.  
 
     In apertura l’anziano conciliatore aveva sentito le parti ed escusso un paio di testimoni. “Signor giudice, aveva esordito zu Saverio, rivolgendosi rispettosamente al calzolaio che due ore prima gli aveva messo le “tacce e i trincilli” (3) a quei vecchi scarponi che usava per zappare la vigna, la causa è chiara: Pasquale  si è affittato la baracca, ci ha chiuso per sei mesi Russulillo e ora mi deve pagare.”   “Niente affatto, signor giudice, rispose zu Pasquale rivolto al compagno di bevute con il quale il giorno prima aveva fatto visita al “ciollaru” (4) di zu Nicola che aveva “messo cannella” (5) prendendoci una “pella” (6), prima di tutto non ho i soldi perché la pensione che mi passa il re non basta neanche per mangiare e poi Russulillu nella baracca ce lo chiudo solo la notte. Saverio, se vuole,  di giorno può usarla e quindi non è giusto che io paghi cinque soldi al mese per il fitto.”  “Ma che dice, rispose zu Saverio rivolgendosi al magistrato assieme al quale il giorno prima aveva “sagnàtu” (7) la “capra turchjia” (8) di zu Francesco, ci siamo accordati per cinque soldi e cinque soldi mi deve dare. E se Russulillu decide di “arriparsi” (9) di giorno, che gli dico, che non si può dormire perché il suo padrone gli paga l’alloggio solo per la notte? Sono scuse ridicole, che paghi!”
   “Signor Pasquale, esclamò il giudice rivolto al collega “sanaporcelli” con il quale il giorno dopo sarebbe andato al Savuco per castrare i maiali di zu Roccuzzu, avete qualcosa da ribattere alle argomentazioni del signor Saverio?” “Si, signor giudice, rispose zu Pasquale rivolto all’amico che il giorno prima “ci aveva pagato il franco” (10) e lo aveva “lasciato all’ombra” (11) nell’osteria di za Luisa, non è giusto che io paghi cinque soldi , una cifra così esosa, per chiudere nella baracca di compare Saverio Russulillu, un asinello piccolo, piccolo! “

“Signor giudice, quando ci siamo accordati con compare Pasquale sul prezzo del fitto non abbiamo tenuto conto dei metri cubi di Russulillu, perciò, o piccolo o grande, sempre cinque soldi mi deve, ribatté prontamente zu Saverio ponendo fine alla diatriba.”

Così zu  Giovanni,   battendo la mazza di legno sul bancone dell’ufficio di conciliazione condannò zu Pasquale al pagamento delle somme arretrate, prima di infilarsi nell’osteria di mastro Salvatore per scolarsi un più che sudato bicchiere di rosso della Pilusella.

 
1)       funi che servono per legare la soma al basto
2)       l’atto di citazione in giudizio davanti al giudice conciliatore
3)       chiodi per chiodare le scarpe
4)       sostegno per le botti nelle cantine
5)       iniziare una botte divino nuovo
6)       sbornia colossale
7)       salassato
8)       capra che soffre di pressione arteriosa alta
9)       coricarsi di pomeriggio, fare la siesta
10)     aggregarsi a giocare alla passatella in un secondo tempo, senza aver fatto la partita a           carte e pagando metà          rispetto agli altri giocatori
11)     escluso da giro delle bevute nel gioco della passatella  

                              
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L'emigrante  

Pasquale non ce la faceva più. Aveva cercato disperatamente di tirare avanti lasciandosi sfruttare come una bestia nei campi di don Nicola, ma ora sentiva la forza e la volontà venirgli meno. A sera, dopo una lunghissima giornata di fatica, tornava a casa stremato, consumava un misero pasto e crollava sul suo povero giaciglio senza avere nemmeno la forza di dare uno sguardo ai quattro figlioli, due maschi e due femmine che crescevano tra stenti e privazioni. Al mattino riprendeva la solita vita. Più volte era stato costretto, tra le lacrime, a negare ai figliolettí qualcosa: un ninnolo, qualche leccornia, piccole cose che i bambini desideravano e che la sua povertà non gli consentiva di comprare. Anche Marietta, la sua bella e dolce sposa si sentiva il cuore stringere, ma non faceva pesare sull'amato consorte la sua angoscia.

Pasquale oramai ci pensava da parecchio tempo: partire, emigrare, salire su un bastimento in partenza per l'America in cerca di fortuna e sfuggire a quell'esistenza miserabile. Molti compaesani si erano decisi a questo passo ed alcuni avevano fatto fortuna. Perché non tentare? Da giorni rimuginava questo pensiero, ma gli mancava il coraggio di chiedere un prestito a don Nicola per pagarsi il viaggio. Finalmente ci riuscì.

Un giorno in cui era più amareggiato del solito, approfittò della solita visita del padrone al podere e trovò la forza di chiedergli duecento lire per il viaggio. Don Nicola finse dapprima sorpresa e rammarico per la decisione del povero bracciante, parlò delle insidie che avrebbe incontrato sul suo cammino, delle situazione nuove e sconosciute alle quali sarebbe andato incontro, della sua difficoltà a mettere insieme una somma così considerevole poi, a poco, a poco, si mostrò possibilista. Qualche giorno dopo, infine, comunicò a Pasquale che poteva prestargli la somma richiesta. Naturalmente si lamentò dei tempi grami, della cattiva annata, delle difficoltà economiche in cui versava e, infine, proprio per venirgli incontro, si limitò a chiedergli solo il trenta per cento di interesse. Pasquale  che non vedeva l'ora di raggiungere il "paradiso" americano, accettò senza pensarci su si avviò verso casa per la prima volta , dopo molti anni, felice.

Marietta non fu molto entusiasta della decisione del marito e per giorni e giorni pianse in silenzio senza farsi vedere da Pasquale, ma anche lei si rendeva conto che quella vita miserabile non era più sostenibile.

E venne la vigilia della partenza. Sarebbe partito l'indomani alle quattro del mattino con la vecchia corriera che passava dal bivio della strada nazionale. La sera i parenti e gli amici raggiunsero la sua casa per la veglia. Le case vicine erano tutte aperte e l'intero rione partecipava con angoscia a quell'evento. La luce della lampade ad olio rischiarava a malapena quei poveri tuguri ed i riflessi rossastri sui visi degli uomini accentuavano la drammaticità di quei volti scavati dalla sofferenza. Ogni tanto qualcuno portava qualcosa di caldo per ristorare i presenti, mentre Pasquale e i suoi familiari e i parenti piangevano sommessamente. Erano appena passate le due della notte e già l'emigrante cominciava a riordinare i suoi poveri stracci quando, in lontananza, risuonarono prima confuse, poi via via più chiare, le note de il "Navigante", la bellissima e commovente serenata che gli amici erano soliti portare a chi si accingeva a solcare l'oceano.. All' improvviso, come se volesse partecipare a quella mesta cerimonia, anche l'asino emise un raglio di dolore. A questo punto uomini e donne, grandi e piccini scoppiarono in un pianto a dirotto, mentre il povero Pasquale, caricatosi in spalla i bagagli, stringeva al petto i suoi marmocchi e l'adorata moglie mischiando le sue lacrime a quelle dei familiari dai quali fu staccato a fatica dagli amici. Qualche ora dopo era già in viaggio alla volta di Napoli da dove si sarebbe imbarcato per l'America.           
     Pasquale ora se la passava bene: invece di spezzarsi la schiena dodici ore al giorno all' aperto sotto il sole di Calabria, spalava carbone solo dieci ore al giorno al fresco, a cinquecento metri sotto terra, nel fondo di una miniera di Pittsburg. Ogni tanto mandava qualche dollaro a casa perché la famiglia potesse avere il necessario e per pagare il debito a don Nicola che, per via degli interessi, cresceva in continuazione. Qualche volta riceveva lettere da casa, ma erano sempre cariche di tristezza e nostalgia. Quasi mai le notizie erano buone e Pasquale ne provava dispiacere. Solo tre anni dopo finalmente una notizia lieta: la vecchia madre lo informava di essere diventato padre per la quinta volta. Marietta, infatti, gli aveva dato un altro figlio maschio molto bello che somigliava tanto al suo grande benefattore don Nicola.

Da quel giorno di Pasquale non si seppe più nulla: forse é ancora li, in quella miniera a spalare carbone.

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                            Inquinamento

C’erano una volta gli uccellini, i cari, amabili uccellini che ci tenevano compagnia con il loro assordante cinguettio, con i loro regalini che ci facevano generosamente piovere dal cielo come la manna del deserto a sfamare gli Ebrei in viaggio, con la loro curiosa, simpatica abitudine di decorarci terrazzi e poggioli. C’erano i passeri che facevano la gioia dei contadini, specialmente di quelli che seminavano il grano, le cornacchie che poi abbandonarono Caccuri perché senza un party, quattro salti in  discoteca, una partita a bridge con le amiche si annoiavano terribilmente e andarono alla ricerca di un paese più vivo, le quaglie, le pernici, la cinciallegra, il fringuello, la tortorella (da non confondere con il mago Zurlì), il tordo, il colombo (da non confondere con il tenente della squadra omicidi americana), insomma, un sacco di simpatici volatili che rendevano felici e gaie le nostre giornate. Purtroppo, da qualche anno, di questi cari amici se ne è persa ogni traccia. Il cielo è sgombro di pennuti e la terra è avvolta in un silenzio irreale rotto solo dal gracchiare assordante dei venditori di broccoletti  che ti rompono amabilmente i timpani ( e, a volte anche altro) con i loro stramaledettissimi altoparlanti.

“Dove sono finiti gli uccelli?” è la domanda angosciosa che alcuni eminenti scenziati senza la “i” si sono posti in una memorabile puntata di “Chi l’ ha visto?” senza riuscire a risolvere l’arcano.

Profondamente addolorati per la scomparsa dei pennuti, i cacciatori, che come è noto sono i più grandi amici degli uccelli (spesso organizzano in loro onore perfino i fuochi d’artificio e i botti festaioli), si sono posti il problema andando alla ricerca, con encomiabile zelo, della causa che ha provocato questo triste fenomeno. Le conclusioni dei loro approfonditi studi, che saranno quanto prima pubblicati sulle più famose riviste scientifiche internazionali, non lasciano adito ad alcun dubbio e sono sintetizzati in una sola, terribile parola: inquinamento. Poiché gli stessi illustri studiosi hanno chiarito che per inquinamento della nostra zona deve intendersi un qualcosa di diverso dal fumo e dai venefici vapori che fuoriescono dalle ciminiere delle centinaia e centinaia di fabbriche che, come tutti sanno circondano il nostro paese ammorbandoci l’aria, non rimane che rivolgere la nostra attenzione ad un’altra probabile, terribile fonte di inquinamento: l’agricoltura. Si dà il caso, però, che, per una sfortunata circostanza, anche l’agricoltura, questa nostra carissima amica che in passato ci nutrì e ci sfamò e che fu anch’essa accusata di inquinare, sia estinta oramai da anni.

Esclusa anche l’agricoltura dalla rosa dei probabili sospettati, ci si è posti il problema di indagare ancora più a fondo. Altri studiosi hanno allora approfondito la ricerca per stabilire, con estrema precisione,  qual è la sostanza inquinante che nuoce così gravemente alla salute degli uccelli e, anche questa volta, la conclusione è racchiusa in una sola, terribile parola, una parola molto, molto pesante: piombo, un pericolosissimo agente inquinante che abbonda nell’aria. Pare che in alcune località la concentrazione di piombo nell’aria sia superiore a quella della Chicago degli anni ’20.

Essendo il piombo, come tutti sanno, un metallo molto pesante, spesso si deposita al suolo provocando molte vittime, oltre che fra gli uccelli, anche fra gli uomini. A volte ce n’è una moria che i medici legali non fanno nemmeno in tempo a schiacciare un pisolino.  Per limitare i danni dell’inquinamento da piombo, da anni, associazioni ambientaliste, magistrati, poliziotti,  agenti di custodia, carabinieri, criminologhi, perfino preti, si sono messi a studiare il problema nel difficilissimo tentativo di riuscire a ridurre le emissioni di questo pericoloso metallo nell’aria.

Le categorie più a rischio perché più esposte al rischio piombo come gli sparuti uccellini rimasti, i gioiellieri, i tabaccai, i benzinai, i cassieri di banca, i vecchi che ritirano la pensione alle poste, i commercianti in genere, si augurano che il problema possa essere risolto al più presto.  

 

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                                                 Tema

Il maestro, seduto alla cattedra, assegna il tema  ai fanciulli di terza elementare : “Tema: La mucca”

Luigino gli chiede timidamente: “Signor maestro, ma cos’è una mucca?” “Ma come, Luigino, esclama l’insegnante, non hai mai visto una mucca? La mucca è quella che ci dà il latte. “ “Ah, risponde Luigino, con il volto illuminato da un sorriso, ho capito, grazie” e comincia a scrivere.

 

                                                                                  La mucca

 La mucca è molto utile perché ci dà il latte. Ci sono tante specie di mucche, quelle di vetro da un litro, quelle di carta, quelle di cartone.

Le vacche di carta sono molto redditizie e non richiedono nemmeno eccessive cure: basta un po’ di casino ogni tanto, qualche corteo di trattori che blocca le strade o inondare di letame qualche poliziotto e il rendimento è assicurato. 

Le mucche più diffuse hanno la forma di un parallelepipedo di alluminio rivestito di cartone e si trovano accatastate in tutti i supermercati. Ci sono mucche di tanti colori: bianche con le scritte rosse, celesti con le scritte verdi, arancione con le scritte bianche, insomma di tanti colori e di tanti prezzi.  Ci sono mucche intere e mucche parzialmente scremate. Certe volte si possono trovare anche in offerta speciale.

Mungere una mucca è facilissimo: basta sollevare la mammella, quel triangolino in alto sull’angolo della mucca, tagliare con le forbici lungo la linea tratteggiata, capovolgere la mucca e mungerla nel bicchiere, però bisogna stare attenti perché se si stringe troppo il latte fuoriesce dal bicchiere e sporca tutto il tavolo della cucina .

Dopo averla munta la mucca va riposta nel frigorifero, sennò il latte si guasta e poi fa male al pancino. A me la mucca piace tanto e, quando andiamo alla fattoria, la mamma ne compra sempre una cassa.

La mucca vive nella fattoria assieme alle galline e ai maiali. La gallina è quella che ci dà le uova. Ieri ne ho visto una nelle grande fattoria vicino casa mia, quella che si trova tra la farmacia e la banca. La gallina è di cartone ed è quadrata. Ha tanti buchi nei quali si trovano le uova. Io, però, non conoscevo la fattoria, l’avevo sempre sentita chiamare con un nome strano: supermercato. Che buffo!  


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