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L'asino di zu Nicola era ammalato da diversi
giorni: una bruttissima piaga era comparsa sulla schiena del povero animale lì,
a pochi centimetri dalla striscia prodotta dallo strofinio della cinghia del
basto dove il pelame stentava a crescere. Era chiaro che la piaga non era stata
prodotta dai finimenti, né l'asinello si era ferito. Evidentemente si trattava
di una malattia sconosciuta, perlomeno a zu Nicola.
Il pover'uomo era disperato: il malanno di
Frisichello lo preoccupava seriamente, non tanto per l'aiuto che la povera
bestia poteva ancora dargli, tanto, oramai, neanche lui se la sentiva più di
andare a lavorare, quanto perché, dopo la morte di za Concetta era rimasto solo
con l'animale col quale divideva il grazioso appartamentino scavato a colpi di
piccone nell'arenaria della collinetta. Chiese perciò aiuto agli amici e questi
lo indirizzarono a tre celebri luminari del paese, da anni impegnati nella
nobile arte della medicina asinina.
L'esperienza consolidata di zu Giuseppe, zu Ntone e
zu Domenico, acquisita con l'esercizio onorato della professione, rappresentava
una vera garanzia e zu Nicola si recò fiducioso all'appuntamento conducendo per
la cavezza il mite Frisichello. L'ambulatorio dei tre specialisti si trovava
all'aperto, in un angolo della piazza del paese ai piedi della gradinata della
chiesa di S. Francesco.
Iniziò subito la visita. Zu Nicola stringeva la
cavezza dell'asino volgendo le spalle alla gradinata, mentre i dottori
esaminavano il paziente. Cominciò zu Domenico che strizzò tre o quattro volte
la piaga. Frisichello, evidentemente, provò una fitta alla schiena perché
diede uno strattone rinculando e mandando a
terra bocconi zu Nicola. Seguì puntuale l'immancabile bestemmia del vecchio che
si rialzò stringendo a due mani la cavezza e puntando i piedi. "Garrese,
sentenziò zu Domenico , brutto affare!". "Macchè, esclamò zu Nicola
che aveva ripreso a torturare Frisichello, é una pitinia" e strizzò più
forte.
Frisichello si impennò e strattonò.
Uhhh, botta
‘e sangu! gridò zu Nicola cercando di calmare l'animale, mentre il terzo
primario si avvicinava al somaro. Nuova strizzata e nuova diagnosi, mentre il
povero animale manifestava a suo modo il dissenso per quelle diagnosi così
superficiali. A questo punto si accese una disputa animata tra i tre ricercatori
che tentavano di dimostrare, a colpi di strizzate, l'esattezza della propria
diagnosi, mentre il povero Frisichello scalciava e strattonava ripetutamente e
zu Nicola tirava a più non posso la cavezza per tenere fermo il malcapitato
somaro.
All'improvviso successe l'irreparabile: la fune,
evidentemente logorata, si spezzò ed il povero zu Nicola ruzzolò per terra
andando a saggiare col cranio pelato la consistenza di uno dei gradini, mentre
Frisichello se la dava a gambe incredulo per quella insperata fortuna che lo
sottraeva al supplizio della scienza medica. Il sangue sgorgò copioso dal capo
di zu Nicola e gli specialisti accorsero verso il vecchio per un nuovo, più
interessante consulto. Zu Nicola, terrorizzato, lesse negli occhi le intenzioni
di quegli aspiranti al Nobel e, con uno scatto impensabile per l'età si alzò e
se la diede a gambe inseguito dal suo amato Frisichello barricandosi con lui
nell'accogliente dimora.
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all'inizio
Un
mattino del mese di maggio di tanti, tanti anni fa, all’alba, due
celebri ladroni si incontrarono per caso alla fontana di Laruso dove
si erano fermati entrambi per dissetarsi dopo la consueta scorribanda
notturna. Erano molto stanchi e sui loro volti si leggeva la
stanchezza per una notte insonne nel corso della quale avevano cercato
di mettere a segno qualche buon colpo, ma anche la delusione per un
bottino non proprio ricco.
“Buon
giorno, carissimo Pasquale, esordì il primo rivolgendosi all’amico,
qual buon vento?” “Un
vento di miseria, rispose Pasquale dopo aver ricambiato il saluto,
viviamo tempi grami, mio caro Nicola! Lavori, ti sacrifichi, rischi
tutte le notti di imbatterti in un dannato sbirro che ti può mandare
a marcire in galera e che porti a casa? Quasi niente! Ma forse
stanotte a te è andata meglio, vedo che il tuo sacco è zeppo”,
continuò sbirciando furtivamente e avidamente la bisaccia del
compare. Poca roba anche per me, rispose Nicola guardando a sua volta
il sacco dell’amico, solo un po’ di suole per scarpe che sono
riuscito a procurarmi nel corso di una visitina alla bottega di uno
scarpaio. Che vuoi che me ne faccia? Quanto ne potrò ricavare?”
Guarda la combinazione, cercavo proprio delle suole di scarpa da
rivendere a mastro Luigi; proprio ieri me le ha cercate. Se vuoi
possiamo far cambio con questi scampoli di seta che un sarto di
Spinello mi ha regalato controvoglia.” “E’ il cielo che ti
manda, allora, riprese Pasquale, sono diversi giorni che mia moglie mi
tormenta e mi chiede di procurarle degli scampoli di seta per il
corredo di Rosinella. E’ stata certamente la Provvidenza che ci ha
fatto incontrare stamattina! Chissà come sarà contenta Maria! Va
bene, allora facciamo cambio e non pensiamoci più!”
Ciò
detto i due sacchi passarono di mano e i due bricconi, dopo essersi
salutati, con una fretta davvero insolita, a grandi falcate, si
allontanarono prendendo direzioni opposte. Ognuno cercava di mettere
quanta più strada possibile tra sé e l’amico e così, in pochi
attimi scomparvero nella fitta boscaglia e, qualche minuto dopo, erano
oramai a oltre due miglia l’uno dall’altro.
Quando
oramai erano sufficientemente distanti, si sedettero quasi
contemporaneamente per riprendere fiato e dare una sbirciatina alla
mercanzia contenuta nel sacco.
“Maledizione,
urlò Nicola cacciando fuori manate di foglie di cavolo che l’astuto
compare vi aveva stivato. Pasquale me l’ha fatta! Vatti a fidare di
certi amici!”. “Per
tutti i diavoli dell’inferno, bestemmiò Pasquale estraendo dal
sacco manate di alghe secche con le quali l’astuto Nicola aveva
riempito il suo sacco, Nicola mi ha fregato! Vatti a
fidare di certi amici!”
Non
si è mai capito come in paese la gente sia venuta a sapere della
incredibile, reciproca beffa, ma da quel giorno Pasquale e Nicola
furono per tutti “Pampine ‘e Cavulu” e “Lippu ‘e Jimara.”
Rielaborazione
di un racconto popolare
tramandato dalla tradizione orale.
Studenti,
soldati e musicanti, é risaputo: mettili insieme e sono peggio delle
cavallette. E’ pericoloso un branco di lupi affamati, va temuto un
branco di leoni della savana, perfino uno di cani randagi, ma tutti
questi assembramenti di rispettabili bestie sono congregazioni di miti
agnellini al confronto di un plotone di soldati in libera uscita, di
una scolaresca in gita di istruzione, o, peggio ancora, di una banda
di musicanti in tourneé. Magari presi singolarmente gli
individui che li compongono son tutte brave persone, ma, mettili
insieme e sono in grado di far tremare perfino gangster del calibro di
Al Capone.
Se queste considerazioni valgono in generale, figuriamoci per la banda
musicale di Quattrotane, un’accozzaglia di eterni scavezzacoli,
trentacinque bricconi adusi ad ogni sorta di scherzo o di scellerata
ribalderia, incuranti delle conseguenze che tali bravate producevano
sui malcapitati che avevano il solo torto di incrociare la loro strada
con quella dei terribili “pupilli di Euterpe”.
A quei tempi, quando la banda si recava negli altri paesi per esibirsi
l’impresario noleggiava un vecchio camion, un Ford Taunus di quelli
dal muso lunghissimo e dal cassone ridotto, che arrancava
penosamente sulle ripide e polverose strade di Calabria. Lo
sgangherato automezzo, carico di strumenti e musicanti, percorreva a
stento, sbuffando come un vecchio asmatico, i tratti meno ripidi, ma,
quando la strada si inerpicava per i fianchi delle colline, era
davvero un dramma. Allora Pasquale, il vecchio “sciafferro”
fermava il mezzo e pregava una parte di quell’accozzaglia di
scendere e di percorrere a piedi il pezzo più ripido ché li avrebbe
aspettati alla fine della salita per riprenderli a bordo. Allora un
gruppetto di quella “schiuma di cancarena” scendeva
dall’automezzo non prima di aver inscenato una furibonda protesta,
ma, appena Pasquale rientrava in cabina, furtivamente, ma lestamente,
i furfanti risalivano sul camion il cui autista, sicuro di averli
appiedati, non riusciva a rendersi conto delle difficoltà che il
vecchio Taunus incontrava per superare quel maledetto tratto di
strada. Quando sentivano che il mezzo rallentava per fermarsi,
piombavano giù nascondendosi dietro i massi e gli arbusti per poi
fingere, dopo un po’, di arrivare stanchi e furibondi nel luogo dove
il Povero Pasquale li attendeva mentre, disperato, osservava il vapore
uscire dal radiatore come da una vecchia vaporiera.
Quando la tourneé prevedeva un pernottamento nel paese in festa, era
usanza della popolazione ospitare nelle povere case, anche a costo di
enormi sacrifici, un paio di quelle canaglie. Ebbene, i
malcapitati paesani non sapevano quasi mai di dover mettere in conto
la rottura di piatti, il furto di qualche stoviglia e, quasi sempre,
il cambio del materasso infracidito che quei mascalzoni, per puro
divertimento, “innaffiavano” abbondantemente quasi fossero stati
bimbi incontinenti.
Ma la mascalzonata più odiosa la misero a segno ai danni di un
povero mulattiere che, ancora oggi, soffre le conseguenze dell’esacrando
gesto. Un giorno, mentre gli scellerati tornavano da un paese
vicino che erano stati costretti a raggiungere a piedi perché
sprovvisto di strada d’accesso per le autovetture, incontrarono il
povero vaticale che, con un mulo carico di ricotte, stava recandosi
alla fiera di Mulerà per venderle e ricavarne un po’ di soldi. Le
ricotte fresche, avvolte nell’”erbuzza”, erano contenute in
quattro “fiscini” legati in groppa al mulo. I “banditi” si
informarono del contenuto e della natura del carico e il mulattiere,
affascinato evidentemente dagli emuli di Mozart, offrì loro,
spontaneamente e col sorriso sulle labbra, tre ricotte perché
le mangiassero per strada. Ma i bricconi, evidentemente non contenti
del bottino, cominciarono a premere sul malcapitato affinché
aumentasse a dismisura la consistenza della donazione. Il poveraccio
aggiunse ancora un paio di ricotte, ma le pretese, invece di scemare,
aumentavano. Allora tentò di sottrarsi a quell’orda famelica
e, preso per la cavezza il mulo, lo strattonò per avviarsi e sfuggire
ai briganti. I musicanti gli si pararono innanzi tagliandogli ogni via
di fuga ed egli cercava disperatamente di spezzare l’assedio.
A questo punto il trombettiere concepì, in un baleno, il suo piano
scellerato: si avvicinò furtivamente al mulo, si portò la tromba
alle labbra ed emise, proprio nelle orecchie della povera bestia, lo
squillo più acuto che si potesse produrre con quel maledetto
strumento. Il mulo fu come punto contemporaneamente da un milione di
tafani: terrorizzato si impennò, ricadde, tornò ad impennarsi sempre
più in alto mentre quel farabutto continuava a suonare la sua
diabolica tromba. Decine e decine di ricotte uscirono dai
“fiscini” e si spiaccicarono sul terreno mentre il malcapitato
mulattiere cercava disperatamente, bestemmiando come un turco, di
calmare la bestia. Fu a questo punto che, approfittando delle
difficoltà del poveraccio quei criminali se la diedero a gambe
dileguandosi rapidamente nella boscaglia. Il pover’uomo,allora,
calmato l’animale, si sedette affranto con la cavezza tra le mani
contemplando piangente l’immane disastro che lo aveva ridotto sul
lastrico.
Francesco e Ninetta si amavano
timidamente, pudicamente, sempre sotto l’occhio vigile della madre
di lei, dei fratelli, delle sorelle, così come ci si poteva amare in
quel lontano 1866 in un paesino come Caccuri, appollaiato sulla sua
rupe, fra cornici di ginestra e siepi di rovi e di lentischio, ma si
amavano profondamente.
Il
giovane contadino cercava e sfruttava ogni occasione per incontrare
l’amata quando col barile in testa o la “rancella” in mano,
andava ad attingere l’acqua a San Liborio o a Canalaci o quando, nel
pomeriggio, “civava” i maiali a Filezzi. Francesco si
nascondeva dietro un albero, dentro una grotta, in un crepaccio e da lì
sorprendeva Ninetta baciandola furtivamente, a volte anche
spaventandola. La ritrosetta fingeva di arrabbiarsi mentre un pudico
rossore le incarnava le guance, ma in cuor suo gioiva di quella oramai
consueta, gradita sorpresa e il tutto il suo essere palpitava
d’amore. La sera Francesco si presentava a casa dell’innamorata e,
quando i maschi andavano a letto per potersi alzare presto al mattino,
Francesco si sedeva al lato del caminetto. Ninetta si accoccolava al
lato opposto e la madre, in mezzo, vegliava, a suo modo, sulla virtù
della figlia lottando disperatamente col sonno che, ogni tanto, la
faceva “cimare”. E quando za Rosina cedeva un poco al sonno
reclinando la testa in avanti, i due giovani si scambiavano sguardi
languidi e carichi d’amore, mentre le mani, dietro la schiena di za
Rosina, si sfioravano carezzevoli scatenando turbini di passioni
represse. Poi, quando la testa dell’anziana madre cadeva più
violentemente del solito e il mento colpiva con più forza la punta
del petto, la povera donna si ridestava di botto, prendeva il coraggio
a due mani e costringeva il giovane innamorato a sgombrare il campo.
Francesco scendeva rapidamente i cinque gradini del “vignano”,
girava sul retro della casa e si acquattava sotto la finestra
illuminata della stanzetta che Ninetta divideva con la sorella Maria.
Ninetta lo sapeva e si affacciava e il fidanzato, da sotto, le
mandava baci appassionati che la facevano arrossire di piacere. La
vita scorreva tranquilla e i due ragazzi pensavano con impazienza al
giorno in cui avrebbero finalmente potuto coronare il loro sogno
d’amore.
Un
giorno d’aprile, quando la natura era in festa e Francesco cercava
come non mai i baci di Ninetta, i carabinieri scesero alla Judeca e
bussarono alla porta di zu Rosario per dirgli che “il coscritto
Procopio Francesco doveva partire soldato e che fra tre giorni doveva
presentarsi alla caserma di Cotrone.”
La
notizia si diffuse in un baleno e gettò nella disperazione i due
innamorati. Quello era l’ultimo giorno che potevano vedersi; il
mattino dopo Francesco doveva partire per un viaggio di due giorni per
raggiungere Cotrone. Avrebbe dovuto guadare il Matasse alle Monache,
il Lepre, il Neto, camminare per impervi sentieri sotto un sole
impietoso e dormire all’adiaccio. E, dopo Cotrone, chissà
cosa lo attendeva.
Il
giovane e tutti i paesani maledivano il nuovo re, questo re piemontese
che aveva cacciato il povero Francischiello e che aveva messo la tassa
sul pane e ora si prendeva anche i giovani per quattro anni a fare il
soldato. Le ore trascorsero tristi e la sera, quando il ragazzo si
congedò dalla promessa sposa e dai parenti, si sentì strappare il
cuore dal petto. Calde lacrime solcavano il volto pallido di Ninetta,
mentre Francesco cercava di nascondere il dolore affrettando i tempi
del distacco. Più tardi le cantò la più struggente delle serenate e
fu quello il loro addio.
…………………..
Un
giorno del mese di giugno in paese si diffuse una terribile notizia.
Don Nicola aveva letto sul giornale che gli arrivava da Cotrone una
volta la settimana, che lontano, verso Verona, c’era stata una
grande battaglia tra i piemontesi e i tedeschi. I piemontesi erano
stati sconfitti e c’erano stati tanti morti e tra loro anche tanti
soldati meridionali che combattevano con i piemontesi.
Quando
Ninetta seppe la notizia si sentì morire. Un triste presentimento le
sconvolse l’esistenza e la fanciulla si convinse che anche il suo
Francesco, che da mesi non aveva più dato notizie di sé, era
sicuramente tra i morti. Passarono molti giorni e del ragzzo non si
seppe più nulla. Allora Ninetta cominciò a deperire a vista
d’occhio. Non faceva altro che piangere; non toccava più quasi
cibo, le gote diventavano sempre più pallide, il fisico sempre più
gracile e debole, mentre la giovane si lasciava lentamente morire. A
nulla valsero le cure di don Vincenzo, il medico del paese che tentava
disperatamente di strapparla alla morte. E un triste giorno di ottobre
Ninetta chiuse per sempre i suoi bellissimi occhi azzurri.
Qualche
giorno dopo, verso le dieci di sera, lungo il sentiero che da Gallea
saliva per Pavia fino alla Destra, un militare avanzava a passi
veloci. Nella destra stringeva un fagotto, mentre la mano sinistra
impugnava una chitarra. Il soldato si portò sotto quella che era
stata la finestra della povera Ninetta e si mise a cantare una festosa
serenata. Aspettava, come sempre, che un tenue chiarore dietro i vetri
venisse ad annunciargli il prossimo affacciarsi dell’amata, ma la
finestra rimase a lungo chiusa e buia. Verso la fine della serenata
sentì un pianto disperato, poi la finestra si spalancò, apparve
Maria che, tra le lacrime, raccontò al povero giovane la triste fine
dell’amata. Francesco si sentì morire, poi, pazzo di dolore e di
rabbia, corse via e scomparve nel buio.
Il
mattino dopo tutto il paese seppe del ritorno del soldato, ma nessuno,
nemmeno i genitori, riuscirono a vederlo. Lo cercarono a lungo nei
dintorni del paese, ma non lo trovarono. La notte si udì una voce
straziante che intonava una commovente canzone che diceva:
“Frinesta
ca lucia e mo nun luci
criu
ca la mia bella sta malata.
S’affaccia
la sorella e mi lu dicia
Dicia
“Ca la tua bella è morta e sutterrata
E
si la vo virire n’atra vota,
è
alla cappella re la Nuzziata.
Le
rose re la faccia su spremute
E
c’è rimastu ‘u giallu , ohi chi peccatu!”
Ohi
surici re la sepoltura,
ve
pregu, a Ninetta mia nun la toccati
ch’all’
ottu jorni vegnu e de la vita
de
la vita mia patruni siti.”
Qualche
notte dopo si udì un colpo secco di moschetto provenire dalla collina
dell’Annunziata, il luogo dove veniva seppellita la povera gente. Il
mattino dopo trovarono il corpo di Francesco che giaceva supino, in
una pozza di sangue, sulla tomba di Ninetta.
Torna
all'inizio
Un
fuoco scoppiettante ardeva nel caminetto di zu Domenico. I bagliori
rossastri contribuivano a rischiarare il povero basso nel quale la
fioca luce di un lume a petrolio veniva quasi completamente assorbita
dalle pareti annerite dal fumo. Un calore confortevole si spandeva
nell’angusto tugurio. Sulla tavola, sovrastata dalla “cannizza”
del pane, rimanevano gli avanzi della “tiella”
di capretto che Zu Domenico, Zu Pasquale e Zu Giovanni avevano
consumato scolandosi la consueta damigiana impagliata da dieci litri
che il padrone di casa metteva a disposizione in queste occasioni.
Ora
i tre, seduti davanti al focolare,
accordavano gli strumenti per una improbabile serenata che avevano
deciso di portare a compare Salvatore e comare Maria che abitavano
alla Judeca. Zu Domenico, pizzicando la prima corda del
violino, mentre armeggiava con la chiavetta della seconda, con gli
occhi velati e la cadenza tipica di chi ha tracannato parecchi
bicchieri, si rivolse a zu Pasquale che aveva, a suo dire, accordato
la chitarra. “Pasquà, dammi un mi.” Zu
Pasquale, che bicchieri ne aveva tracannati forse anche di più,
pizzicò una corda e ne uscì un “fa”.
“Ma
che diavolo fai, lo apostrofò zu Domenico, ti chiedo un mi e mi dai
un re?” “Quale re, quale re, si infervorò zu Pasquale continuando
a pizzicare tranquillamente la stessa corda, non senti che è un mi,
ma che hai, sei davvero ubriaco stasera?” “Io
ubriaco? Sei tu intontito, non ti accorgi che stai suonando un re? Hai
un anno meno di me e sei già così rimbambito, quando arriverai alla
mia età come ti ridurrai?”. “Io intontito? Sei tu che sei ubriaco
fradicio, è mezzora che ti sto dando un mi e tu mi dici che è un
re!”.
“Siete
tutti e due rimbambiti, sentenziò zu Giovanni dopo tre o quattro
singhiozzi consecutivi, rigirando il mandolino tra le mani,. Ich, non
sentite, ich, che è un sol? Ich, ma che razza di suonatori siete? Ich,
è un sol, un sol, ich!”
« Un
sol ? Ma che stai dicendo, pezzo di cretino, esplose zu Domenico
sempre più “allemperàtu”, un sol?, ma quale sol! A me, a me dici
che razza di suonatori, a me che vi ho insegnato a suonare quando
ancora non sapevate qual era il manico della chitarra e quali le
corde?”
“Siete
due ignoranti, riprese serafico zu Pasquale, scambiare un mi per un re
o per un sol, cose da pazzi! Ma come fate a suonare? Dovreste solo
vergognarvi”
“Io
vergognarmi, si infuriò zu Domenico, ti faccio vedere io!”, disse
avventandosi su zu Pasquale che lo prevenne assestandogli una
chitarrata in piena fronte che fece rimbombare il basso. Zu Giovanni
accorse per dirimere la contesa, ma un colpo di archetto lo colpì sul
collo come una frustata. Allora non ci vide più e “fece suonare”
un paio di volte il mandolino sul groppone di zu Pasquale.
“Per
tutti i diavoli dell’inferno, urlò
zu Domenico toccandosi la fronte dolorante, vi faccio vedere io chi
sono”, usando il violino come una clava sulla zucca pelata di zu
Giovanni.
Il
parapiglia era al suo culmine e il basso rimbombava per le chitarrate,
le violinate, le mandolinate che si abbattevano su quelle zucche
vuote, quando risuonarono nell’aria le note di “Speranze
perdute”, la beffarda serenata che alcuni giovani buontemponi erano
solito portare ai tre irascibili vecchi, quando li sapevano impegnati
nelle consuete gozzoviglie con conseguente sbronza, alludendo alla
sopraggiunta impossibilità di sbrigare certe piacevoli faccende che,
nel lontano tempo della loro gioventù, riuscivano, viceversa, a
sbrigare egregiamente.
Allora
si ripeté la consueta scena: i tre vecchi, firmato un immediato
armistizio, si armarono di “asche” di legna e si precipitarono a
spalancare l’uscio per dare una lezione a quei giovinastri.Tirarono
la porta a più non posso, ma, ahimè, non riuscirono ad aprirla.
Allora raddoppiarono gli sforzi nel vano tentativo di spalancare
l’uscio e consumare la loro vendetta, mentre fisarmoniche e chitarre
continuavano a sbeffeggiarli.
A
un certo punto quei figli di buona donna sfilarono il paletto che
avevano infilato nell’anello del battente. La porta si aprì di
colpo e i tre litigiosi vegliardi
si ritrovarono gambe all’aria sui mattoni del basso, bestemmiando
come turchi, mentre i giovani suonatori, spanciandosi dalle risate, si
allontanavano prudentemente dalla zona.
Un
fuoco scoppiettante ardeva nel caminetto di zu Domenico. I bagliori
rossastri contribuivano a rischiarare il povero basso nel quale la
fioca luce di un lume a petrolio veniva quasi completamente assorbita
dalle pareti annerite dal fumo. Un calore confortevole si spandeva
nell’angusto tugurio. Sulla tavola, sovrastata dalla “cannizza”
del pane, rimanevano gli avanzi della “tiella”
di capretto che Zu Domenico, Zu Pasquale e Zu Giovanni avevano
consumato scolandosi la consueta damigiana impagliata da dieci litri
che il padrone di casa metteva a disposizione in queste occasioni.
Ora
i tre, seduti davanti al focolare,
accordavano gli strumenti per una improbabile serenata che avevano
deciso di portare a compare Salvatore e comare Maria che abitavano
alla Judeca. Zu Domenico, pizzicando la prima corda del
violino, mentre armeggiava con la chiavetta della seconda, con gli
occhi velati e la cadenza tipica di chi ha tracannato parecchi
bicchieri, si rivolse a zu Pasquale che aveva, a suo dire, accordato
la chitarra. “Pasquà, dammi un mi.” Zu
Pasquale, che bicchieri ne aveva tracannati forse anche di più,
pizzicò una corda e ne uscì un “fa”.
“Ma
che diavolo fai, lo apostrofò zu Domenico, ti chiedo un mi e mi dai
un re?” “Quale re, quale re, si infervorò zu Pasquale continuando
a pizzicare tranquillamente la stessa corda, non senti che è un mi,
ma che hai, sei davvero ubriaco stasera?” “Io
ubriaco? Sei tu intontito, non ti accorgi che stai suonando un re? Hai
un anno meno di me e sei già così rimbambito, quando arriverai alla
mia età come ti ridurrai?”. “Io intontito? Sei tu che sei ubriaco
fradicio, è mezzora che ti sto dando un mi e tu mi dici che è un
re!”.
“Siete
tutti e due rimbambiti, sentenziò zu Giovanni dopo tre o quattro
singhiozzi consecutivi, rigirando il mandolino tra le mani,. Ich, non
sentite, ich, che è un sol? Ich, ma che razza di suonatori siete? Ich,
è un sol, un sol, ich!”
« Un
sol ? Ma che stai dicendo, pezzo di cretino, esplose zu Domenico
sempre più “allemperàtu”, un sol?, ma quale sol! A me, a me dici
che razza di suonatori, a me che vi ho insegnato a suonare quando
ancora non sapevate qual era il manico della chitarra e quali le
corde?”
“Siete
due ignoranti, riprese serafico zu Pasquale, scambiare un mi per un re
o per un sol, cose da pazzi! Ma come fate a suonare? Dovreste solo
vergognarvi”
“Io
vergognarmi, si infuriò zu Domenico, ti faccio vedere io!”, disse
avventandosi su zu Pasquale che lo prevenne assestandogli una
chitarrata in piena fronte che fece rimbombare il basso. Zu Giovanni
accorse per dirimere la contesa, ma un colpo di archetto lo colpì sul
collo come una frustata. Allora non ci vide più e “fece suonare”
un paio di volte il mandolino sul groppone di zu Pasquale.
“Per
tutti i diavoli dell’inferno, urlò
zu Domenico toccandosi la fronte dolorante, vi faccio vedere io chi
sono”, usando il violino come una clava sulla zucca pelata di zu
Giovanni.
Il
parapiglia era al suo culmine e il basso rimbombava per le chitarrate,
le violinate, le mandolinate che si abbattevano su quelle zucche
vuote, quando risuonarono nell’aria le note di “Speranze
perdute”, la beffarda serenata che alcuni giovani buontemponi erano
solito portare ai tre irascibili vecchi, quando li sapevano impegnati
nelle consuete gozzoviglie con conseguente sbronza, alludendo alla
sopraggiunta impossibilità di sbrigare certe piacevoli faccende che,
nel lontano tempo della loro gioventù, riuscivano, viceversa, a
sbrigare egregiamente.
Allora
si ripeté la consueta scena: i tre vecchi, firmato un immediato
armistizio, si armarono di “asche” di legna e si precipitarono a
spalancare l’uscio per dare una lezione a quei giovinastri.Tirarono
la porta a più non posso, ma, ahimè, non riuscirono ad aprirla.
Allora raddoppiarono gli sforzi nel vano tentativo di spalancare
l’uscio e consumare la loro vendetta, mentre fisarmoniche e chitarre
continuavano a sbeffeggiarli.
A
un certo punto quei figli di buona donna sfilarono il paletto che
avevano infilato nell’anello del battente. La porta si aprì di
colpo e i tre litigiosi vegliardi
si ritrovarono gambe all’aria sui mattoni del basso, bestemmiando
come turchi, mentre i giovani suonatori, spanciandosi dalle risate, si
allontanavano prudentemente dalla zona.
I
meloni erano lì, accatastati in terra all'ombra, nell'unico angolino
fresco dell'assolata piazza. Il milunaro, seduto in terra, aspettava gli
acquirenti che di tanto in tanto si facevano vivi e, ogni volta, si
alzava, imboniva i clienti e, con mano sicura, impugnava il coltello e
"tassellava" il melone. Allora, come d'incanto, appariva nella
sua mano un vermiglio, succoso, dolcissimo triangolino di polpa che
l'acquirente gustava con esasperante lentezza, assaporandone la delizia
per sincerarsi della bontà del prodotto. Poi pagava, prendeva il suo
melone e andava via, mentre il milunaro tornava a sedere contando le
monete in attesa del prossimo cliente.
I
monelli, poco distante, osservavano ogni volta quel rito con occhi
attenti, inghiottendo a fatica la saliva ogni volta che nella mano
dell'uomo appariva quel pezzetto di polpa zuccherosa. Da alcuni minuti
clienti non se ne vedevano ed il milunaro, seduto per terra con le braccia
incrociate sul petto ed il cappello a borsalino leggermente calato sugli
occhi, si era quasi assopito nella calura agostana. D'un tratto, nella
piazza deserta, uno dei monelli si staccò dal gruppo e prese ad
avvicinarsi con circospezione all'uomo assopito. Ora gli era dappresso.
All'improvviso una tremenda frustata colpì tra capo e collo il poveruomo.
Il milunaro urlò per il dolore e si alzò di scatto portandosi le mani al
collo. Il cappello gli cadde all'indietro. Vide il suo assalitore, un
monello sui tredici anni che se la dava a gambe. Il bruciore al collo lo
faceva impazzire. Allora si lanciò all'inseguimento di quel briccone che,
per rincarare la dose, gli faceva le boccacce. Pochi minuti e si ritrovò
in un dedalo di viuzze. Sentiva il discolaccio sghignazzare ora da una
parte, ora dall'altra, ma non gli riusciva assolutamente di individuarlo.
Gli diede ancora la caccia per qualche minuto, poi, mentre il bruciore al
collo cominciò ad attenuarsi, si ricordò dei suo commercio, desistette
dai propositi di una impossibile vendetta e, districandosi a fatica in
quel labirinto di strade e stradette, si ritrovò in piazza. La catasta
dei meloni era pressoché sparita. Pochi esemplari, rimasti in terra,
vennero caricati sul carretto dallo sconsolato milunaro che si avviò
mestamente verso l'uscita del paese. Poco lontano, in un boschetto,
lontano da sguardi indiscreti una schiera di monelli divorava avidamente alcuni
meIoni.
. Il più grosso, naturalmente, era toccato a lui, al capobanda che,
coraggiosamente, aveva affrontato il milunaro con argomenti che,
evidentemente, erano risultati molto convincenti
1)
La novella trae spunto da un fatto realmente accaduto.
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Pietà
filiale
Nicolino
era appena tornato dall'America: lo si capiva a prima vista dalla
sgargiante giacca gialla, dalla cravatta blu sulla camicia marrone,
dal cappello di lino bianco e dalle scarpe esageratamente a punta;
l'immancabile sigaro in bocca completava il look dell'ennesimo italo
americano.
Vent'anni
prima, carico di miseria e di speranza con sulle spalle una elegante
"valigia di cartone" era salito su uno dei tanti bastimenti
che solcavano l'oceano diretti nel paradiso di Roosvelt. E la fortuna
era arrivata quasi subito sotto le sembianze di un compaesano che gli
aveva trovato un posto di garzone in una pizzeria di "Brokkolino".
Nicolino
ci aveva dato dentro e già tre anni dopo, raggranellato qualche
dollaro, si era messo in proprio. Gli affari andavano discretamente e
il giovane non aveva dimenticato il vecchio padre rimasto in Italia e
al quale mandava puntualmente qualche soldo. Tutto andava a gonfie
vele quando un brutto giorno il povero vecchio venne chiamato
repentinamente in cielo e dovette abbandonare questa valle di lacrime.
Nicolino ne soffrì terribilmente e da allora non pensò ad altro che
a tornare per un breve periodo al suo paese per far visita alla tomba
del padre.
Venti
anni dopo finalmente sbarcò in Italia e, dopo qualche giorno, giunse
al paese. Il momento era arrivato
e, in occasione della festa dei morti, si recò al cimitero.
Giunto nel posto ove presumeva si trovasse la tomba del povero zio
Gaetano si mise a chiamare a gran voce don Pasquale, il vecchio
custode del cimitero perché gliela indicasse. "Don Pasquale,
prese a dire nel suo nuovo idioma, you impara me dove essere tomba my
padre?" Il custode, che a stento aveva decifrato quella tiritera,
gli mostrò il povero tumulo sotto il quale riposava il povero zu
Gaetano e sul quale si reggeva a stento un povera croce di ferro, poi
tornò alle sue faccende.
Nicolino
guardò a lungo la misera sepoltura, ma non riusciva ad accettare
l'idea che li sotto potessero esserci le spoglie del padre. Passò
ancora qualche attimo e richiamò il custode. "Don Pasquale, Don
Pasquale, sorry, my padre non essere qui".
Don
Pasquale pazientemente ritornò sul posto e gli indicò per la seconda
volta il tumulo. Nicolino sembrò finalmente convinto e, mentre una
lacrima gli solcava il viso, sistemò un mazzo di fiori sulla croce.
Poi rimase lì a meditare, ma più passavano i minuti, più gli
sembrava impossibile che il padre potesse stare li sotto. "Don
Pasquale, si mise ad urlare per la terza volta Nicolino, my padre non
essere qua!" "Sarà
andato un'altra volte al
bar a giocare a carte; non
lo perde mai questo viziaccio!" urlò don Pasquale bestemmiando
come un turco mentre i parenti degli altri defunti scoppiarono in una
fragorosa risata.
La causa
Zu Giovanni non si era mai
imbattuto in una causa così strana, eppure gliene erano
capitati di episodi curiosi nella sua carriera di giudice
conciliatore! Si era sempre trattato di controversie tra povera gente,
a volte incattivita dalla miseria e dagli stenti, diatribe fastidiose,
ma che, comunque, zu Giovanni, novello Salomone, riusciva a comporre
egregiamente contribuendo, tutto sommato, a mantenere la pace sociale
tra gli abitanti dell’ameno paesino. Stavolta, però era perplesso;
stavolta non sapeva che pesci pigliare e si grattava in continuazione
il capo imbiancato, mentre roteava gli occhi iniettati di sangue a
causa di una congiuntivite cronica, ma anche dei troppi bicchieri
tracannati. I fatti erano questi: zu Saverio aveva affittato a zu
Pasquale la baracca che aveva costruito, qualche tempo prima,
nell’orto del Cucco. Zu Pasquale vi rinchiudeva Russulillu,
l’asinello che teneva oramai, più per compagnia che per andarci a
lavorare dato che, per l’età, adesso non aveva più neanche la
forza di annodare “i carricaturi.” (1)
Zu Pasquale si era
impegnato a corrispondergli un canone mensile di cinque soldi, ma,
oramai da più di sei mesi, si rifiutava di pagare la somma pattuita
per cui zu Saverio gli aveva mandato “il biglietto” (2)
per mezzo di zu Luigi, il messo
comunale, dopo che zu Giovanni aveva fissato l’udienza.
In
apertura l’anziano conciliatore aveva sentito le parti ed escusso un
paio di testimoni. “Signor giudice, aveva esordito zu Saverio,
rivolgendosi rispettosamente al calzolaio che due ore prima gli aveva
messo le “tacce e i trincilli” (3)
a quei vecchi scarponi che usava
per zappare la vigna, la causa è chiara: Pasquale
si è affittato la baracca, ci ha chiuso per sei mesi
Russulillo e ora mi deve pagare.”
“Niente affatto, signor giudice, rispose zu Pasquale rivolto
al compagno di bevute con il quale il giorno prima aveva fatto visita
al “ciollaru” (4)
di zu Nicola che aveva “messo
cannella” (5)
prendendoci una “pella” (6),
prima di tutto non ho i soldi perché la pensione che mi passa il re
non basta neanche per mangiare e poi Russulillu nella baracca ce lo
chiudo solo la notte. Saverio, se vuole,
di giorno può usarla e quindi non è giusto che io paghi
cinque soldi al mese per il fitto.”
“Ma che dice, rispose zu Saverio rivolgendosi al magistrato
assieme al quale il giorno prima aveva “sagnàtu” (7)
la “capra turchjia” (8)
di zu Francesco, ci siamo
accordati per cinque soldi e cinque soldi mi deve dare. E se
Russulillu decide di “arriparsi” (9)
di giorno, che gli dico, che non si può dormire perché il suo
padrone gli paga l’alloggio solo per la notte? Sono scuse ridicole,
che paghi!”
“Signor
Pasquale, esclamò il giudice rivolto al collega “sanaporcelli”
con il quale il giorno dopo sarebbe andato al Savuco per castrare i
maiali di zu Roccuzzu, avete qualcosa da ribattere alle argomentazioni
del signor Saverio?” “Si, signor giudice, rispose zu Pasquale
rivolto all’amico che il giorno prima “ci aveva pagato il
franco” (10)
e lo aveva “lasciato
all’ombra” (11) nell’osteria
di za Luisa, non è giusto che io paghi cinque soldi , una cifra così
esosa, per chiudere nella baracca di compare Saverio Russulillu, un
asinello piccolo, piccolo! “
“Signor
giudice, quando ci siamo accordati con compare Pasquale sul prezzo del
fitto non abbiamo tenuto conto dei metri cubi di Russulillu, perciò,
o piccolo o grande, sempre cinque soldi mi deve, ribatté prontamente
zu Saverio ponendo fine alla diatriba.”
Così
zu Giovanni,
battendo la mazza di legno sul bancone dell’ufficio di
conciliazione condannò zu Pasquale al pagamento delle somme
arretrate, prima di infilarsi nell’osteria di mastro Salvatore per
scolarsi un più che sudato bicchiere di rosso della Pilusella.
1)
funi che servono per legare la soma al basto
2)
l’atto di citazione in giudizio davanti al giudice
conciliatore
3)
chiodi per chiodare le scarpe
4)
sostegno per le botti nelle cantine
5)
iniziare una botte divino nuovo
6)
sbornia colossale
7)
salassato
8)
capra che soffre di pressione arteriosa alta
9)
coricarsi di pomeriggio, fare la siesta
10)
aggregarsi a giocare alla passatella in un secondo tempo, senza
aver fatto la partita a
carte e pagando metà
rispetto
agli altri giocatori
11)
escluso da giro delle bevute nel gioco della passatella
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all'inizio
Pasquale
non ce la faceva più. Aveva cercato disperatamente di tirare avanti
lasciandosi sfruttare come una bestia nei campi di don Nicola, ma
ora sentiva la forza e la volontà venirgli meno. A sera, dopo una
lunghissima giornata di fatica, tornava a casa stremato, consumava
un misero pasto e crollava sul suo povero giaciglio senza avere
nemmeno la forza di dare uno sguardo ai quattro figlioli, due maschi
e due femmine che crescevano tra stenti e privazioni. Al mattino
riprendeva la solita vita. Più volte era stato costretto, tra le
lacrime, a negare ai figliolettí qualcosa: un ninnolo, qualche
leccornia, piccole cose che i bambini desideravano e che la sua
povertà non gli consentiva di comprare. Anche Marietta, la sua
bella e dolce sposa si sentiva il cuore stringere, ma non faceva
pesare sull'amato consorte la sua angoscia.
Pasquale
oramai ci pensava da parecchio tempo: partire, emigrare, salire su
un bastimento in partenza per l'America in cerca di fortuna e
sfuggire a quell'esistenza miserabile. Molti compaesani si erano
decisi a questo passo ed alcuni avevano fatto fortuna. Perché non
tentare? Da giorni rimuginava questo pensiero, ma gli mancava il
coraggio di chiedere un prestito a don Nicola per pagarsi il
viaggio. Finalmente ci riuscì.
Un
giorno in cui era più amareggiato del solito, approfittò della
solita visita del padrone al podere e trovò la forza di chiedergli
duecento lire per il viaggio. Don Nicola finse dapprima sorpresa e
rammarico per la decisione del povero bracciante, parlò delle
insidie che avrebbe incontrato sul suo cammino, delle situazione
nuove e sconosciute alle quali sarebbe andato incontro, della sua
difficoltà a mettere insieme una somma così considerevole poi, a
poco, a poco, si mostrò possibilista. Qualche giorno dopo, infine,
comunicò a Pasquale che poteva prestargli la somma richiesta.
Naturalmente si lamentò dei tempi grami, della cattiva annata,
delle difficoltà economiche in cui versava e, infine, proprio per
venirgli incontro, si limitò a chiedergli solo il trenta per cento
di interesse. Pasquale che
non vedeva l'ora di raggiungere il "paradiso" americano,
accettò senza pensarci su si avviò verso casa per la prima volta ,
dopo molti anni, felice.
Marietta
non fu molto entusiasta della decisione del marito e per giorni e
giorni pianse in silenzio senza farsi vedere da Pasquale, ma anche
lei si rendeva conto che quella vita miserabile non era più
sostenibile.
E
venne la vigilia della partenza. Sarebbe partito l'indomani alle
quattro del mattino con la vecchia corriera
che passava dal bivio della strada nazionale. La sera i parenti e gli
amici raggiunsero la sua casa per la veglia. Le case vicine erano
tutte aperte e l'intero rione partecipava con angoscia a quell'evento.
La luce della lampade ad olio rischiarava a malapena quei poveri
tuguri ed i riflessi rossastri sui visi degli uomini accentuavano la
drammaticità di quei volti scavati dalla sofferenza. Ogni tanto
qualcuno portava qualcosa di caldo per ristorare i presenti, mentre
Pasquale e i suoi familiari e i parenti piangevano sommessamente.
Erano appena passate le due della notte e già l'emigrante cominciava
a riordinare i suoi poveri stracci quando, in lontananza, risuonarono
prima confuse, poi via via più chiare, le note de il
"Navigante", la bellissima e commovente serenata che gli
amici erano soliti portare a chi si accingeva a solcare l'oceano..
All' improvviso, come se volesse partecipare a quella mesta cerimonia,
anche l'asino emise un raglio di dolore. A questo punto uomini e
donne, grandi e piccini scoppiarono in un pianto a dirotto, mentre il
povero Pasquale, caricatosi in spalla i bagagli, stringeva al petto i
suoi marmocchi e l'adorata moglie mischiando le sue lacrime a quelle
dei familiari dai quali fu staccato a fatica dagli amici. Qualche ora
dopo era già in viaggio alla volta di Napoli da dove si sarebbe
imbarcato per l'America.
Pasquale ora se la passava
bene: invece di spezzarsi la schiena dodici ore al giorno all' aperto
sotto il sole di Calabria, spalava carbone solo dieci ore al giorno al
fresco, a cinquecento metri sotto terra, nel fondo di una miniera di
Pittsburg. Ogni tanto mandava qualche dollaro a casa perché la
famiglia potesse avere il necessario e per pagare il debito a don
Nicola che, per via degli interessi, cresceva in continuazione.
Qualche volta riceveva lettere da casa, ma erano sempre cariche di
tristezza e nostalgia. Quasi mai le notizie erano buone e Pasquale ne
provava dispiacere. Solo tre anni dopo finalmente una notizia lieta:
la vecchia madre lo informava di essere diventato padre per la quinta
volta. Marietta, infatti, gli aveva dato un altro figlio maschio molto
bello che somigliava tanto al suo grande benefattore don Nicola.
Da
quel giorno di Pasquale non si seppe più nulla: forse é ancora li,
in quella miniera a spalare carbone.
C’erano
una volta gli uccellini, i cari, amabili uccellini che ci tenevano
compagnia con il loro assordante cinguettio, con i loro regalini che
ci facevano generosamente piovere dal cielo come la manna del deserto
a sfamare gli Ebrei in viaggio, con la loro curiosa, simpatica
abitudine di decorarci terrazzi e poggioli. C’erano i passeri che
facevano la gioia dei contadini, specialmente di quelli che seminavano
il grano, le cornacchie che poi abbandonarono Caccuri perché senza un
party, quattro salti in discoteca,
una partita a bridge con le amiche si annoiavano terribilmente e
andarono alla ricerca di un paese più vivo, le quaglie, le pernici,
la cinciallegra, il fringuello, la tortorella (da non confondere con
il mago Zurlì), il tordo, il colombo (da non confondere con il
tenente della squadra omicidi americana), insomma, un sacco di
simpatici volatili che rendevano felici e gaie le nostre giornate.
Purtroppo, da qualche anno, di questi cari amici se ne è persa ogni
traccia. Il cielo è sgombro di pennuti e la terra è avvolta in un
silenzio irreale rotto solo dal gracchiare assordante dei venditori di
broccoletti che ti
rompono amabilmente i timpani ( e, a volte anche altro) con i loro
stramaledettissimi altoparlanti.
“Dove
sono finiti gli uccelli?” è la domanda angosciosa che alcuni
eminenti scenziati senza la “i” si sono posti in una memorabile
puntata di “Chi l’ ha visto?” senza riuscire a risolvere
l’arcano.
Profondamente
addolorati per la scomparsa dei pennuti, i cacciatori, che come è
noto sono i più grandi amici degli uccelli (spesso organizzano in
loro onore perfino i fuochi d’artificio e i botti festaioli), si
sono posti il problema andando alla ricerca, con encomiabile zelo,
della causa che ha provocato questo triste fenomeno. Le conclusioni
dei loro approfonditi studi, che saranno quanto prima pubblicati sulle
più famose riviste scientifiche internazionali, non lasciano adito ad
alcun dubbio e sono sintetizzati in una sola, terribile parola:
inquinamento. Poiché gli stessi illustri studiosi hanno chiarito che
per inquinamento della nostra zona deve intendersi un qualcosa di
diverso dal fumo e dai venefici vapori che fuoriescono dalle ciminiere
delle centinaia e centinaia di fabbriche che, come tutti sanno
circondano il nostro paese ammorbandoci l’aria, non rimane che
rivolgere la nostra attenzione ad un’altra probabile, terribile
fonte di inquinamento: l’agricoltura. Si dà il caso, però, che,
per una sfortunata circostanza, anche l’agricoltura, questa nostra
carissima amica che in passato ci nutrì e ci sfamò e che fu
anch’essa accusata di inquinare, sia estinta oramai da anni.
Esclusa
anche l’agricoltura dalla rosa dei probabili sospettati, ci si è
posti il problema di indagare ancora più a fondo. Altri studiosi
hanno allora approfondito la ricerca per stabilire, con estrema
precisione, qual è la
sostanza inquinante che nuoce così gravemente alla salute degli
uccelli e, anche questa volta, la conclusione è racchiusa in una
sola, terribile parola, una parola molto, molto pesante: piombo, un
pericolosissimo agente inquinante che abbonda nell’aria. Pare che in
alcune località la concentrazione di piombo nell’aria sia superiore
a quella della Chicago degli anni ’20.
Essendo
il piombo, come tutti sanno, un metallo molto pesante, spesso si
deposita al suolo provocando molte vittime, oltre che fra gli uccelli,
anche fra gli uomini. A volte ce n’è una moria che i medici legali
non fanno nemmeno in tempo a schiacciare un pisolino.
Per limitare i danni dell’inquinamento da piombo, da anni,
associazioni ambientaliste, magistrati, poliziotti,
agenti di custodia, carabinieri, criminologhi, perfino preti,
si sono messi a studiare il problema nel difficilissimo tentativo di
riuscire a ridurre le emissioni di questo pericoloso metallo
nell’aria.
Le
categorie più a rischio perché più esposte al rischio piombo come
gli sparuti uccellini rimasti, i gioiellieri, i tabaccai, i benzinai,
i cassieri di banca, i vecchi che ritirano la pensione alle poste, i
commercianti in genere, si augurano che il problema possa essere
risolto al più presto.
Il
maestro, seduto alla cattedra, assegna il tema ai fanciulli di terza
elementare : “Tema: La mucca”
Luigino
gli chiede timidamente: “Signor maestro, ma cos’è una mucca?” “Ma come,
Luigino, esclama l’insegnante, non hai mai visto una mucca? La mucca è quella
che ci dà il latte. “ “Ah, risponde Luigino, con il volto illuminato da un
sorriso, ho capito, grazie” e comincia a scrivere.
La
mucca
La
mucca è molto utile perché ci dà il latte. Ci sono tante specie di mucche,
quelle di vetro da un litro, quelle di carta, quelle di cartone.
Le
vacche di carta sono molto redditizie e non richiedono nemmeno eccessive cure:
basta un po’ di casino ogni tanto, qualche corteo di trattori che blocca le
strade o inondare di letame qualche poliziotto e il rendimento è assicurato.
Le
mucche più diffuse hanno la forma di un parallelepipedo di alluminio rivestito
di cartone e si trovano accatastate in tutti i supermercati. Ci sono mucche di
tanti colori: bianche con le scritte rosse, celesti con le scritte verdi,
arancione con le scritte bianche, insomma di tanti colori e di tanti prezzi.
Ci sono mucche intere e mucche parzialmente scremate. Certe volte si
possono trovare anche in offerta speciale.
Mungere
una mucca è facilissimo: basta sollevare la mammella, quel triangolino in alto
sull’angolo della mucca, tagliare con le forbici lungo la linea tratteggiata,
capovolgere la mucca e mungerla nel bicchiere, però bisogna stare attenti perché
se si stringe troppo il latte fuoriesce dal bicchiere e sporca tutto il tavolo
della cucina .
Dopo
averla munta la mucca va riposta nel frigorifero, sennò il latte si guasta e
poi fa male al pancino. A me la mucca piace tanto e, quando andiamo alla
fattoria, la mamma ne compra sempre una cassa.
La
mucca vive nella fattoria assieme alle galline e ai maiali. La gallina è quella
che ci dà le uova. Ieri ne ho visto una nelle grande fattoria vicino casa mia,
quella che si trova tra la farmacia e la banca. La gallina è di cartone ed è
quadrata. Ha tanti buchi nei quali si trovano le uova. Io, però, non conoscevo
la fattoria, l’avevo sempre sentita chiamare con un nome strano: supermercato.
Che buffo!
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