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Mauro si svegliò con le membra indolenzite come se
avesse dormito su un mucchio di sassi e non sul solito materasso ortopedico
super accessoriato che rispetta l’anatomia del corpo per darti un sonno da
favola, acquistato nel corso della solita stramaledetta televendita.
Aveva dormito malissimo, svegliato continuamente da spaventosi terrificanti
incubi provocati, evidentemente, dall’orrenda serata televisiva. La prima
volta si era svegliato di soprassalto, madido di sudore, ai gridolini di
esultanza di un conduttore scemo alle risposte sceme di un concorrente scemo
alle domande sceme del solito quiz scemo. Era
riuscito, solo a fatica, a riassopirsi per qualche minuto per poi balzare in
piedi nel letto terrorizzato dalle urla terrificanti di sei politici che si
accapigliavano, incitati dal conduttore di turno, che urlava anch’egli come un
ossesso, nel solito programma di attualità. La sera prima, impressionato da
quel tremendo spettacolo, aveva cercato un film, ma era incappato nel solito
serial killer che, dopo averne squartati diciassette, si beccava una palla in
fronte dal solito bravo poliziotto americano, con conseguente fuoruscita di
materia cerebrale. Questo spaventoso telefilm gli aveva provocato il terzo,
agghiacciante incubo di quella maledetta nottata. Ma ora,
finalmente, era finita.
Alzatosi
dal letto, si stiracchiò le membra indolenzite, fece le abluzioni personali,
una frugale, veloce colazione e cominciò a prepararsi per andare a lavorare.
Controllò attentamente la maschera antigas per affrontare, con un minimo di
sicurezza, i pestilenziali miasmi del traffico, indossò con cura il giubbotto
antiproiettile che doveva ripararlo
dalle immancabili pallottole vaganti che avrebbe incontrato nel tragitto, si
accertò della presenza dell’immaginetta di Padre Pio nel portafogli, si
raccomandò l’anima a Dio e aprì la porta del garage per prendere il
motorino. Poi indossò anche il
casco e partì.
Passò
tre semafori che gli costarono quasi tre euro per pagare i soliti tre
extracomunitari che gli avevano lavato a forza la visiera del casco, passò
indenne attraverso tre rapine, due scippi e un paio di inseguimenti della
polizia a sirene spiegate. Arrivò al quarto semaforo dove, fortunatamente, non
trovò extracomunitari pronti a lavargli la visiera, anche perché era stata
lavata già tre volte e ora ci vedeva benissimo, tanto bene da distinguere
nitidamente la canna della pistola puntata contro gli occhi e il proprietario
della pistola che lo invitava garbatamente a scendere dal motorino con il quale
poi se ne andò tranquillamente dileguandosi nel caotico traffico cittadino
mentre lui, col casco in testa e appiedato, ci faceva la figura dell’idiota.
Per
fortuna era quasi arrivato in fabbrica per cui si fece a piedi l’ultimo
chilometro. Poi raccontò trenta volte quello che gli era capitato a trenta
colleghi che gli chiedevano se si poteva essere così scemi da presentarsi al
lavoro a piedi e con un casco in mano, quindi si mise al lavoro.
Faticò
come un mulo e, a mezzogiorno, staccò per la pausa pranzo. Sorbì di malavoglia
l’immonda brodaglia della mensa aziendale mentre gli stramaledetti
altoparlanti diffondevano ad alto volume il discorsetto mellifluo, auto
incensante e subdolo del padrone, proprio mentre un povero diavolo stava
ingoiando un boccone che finì per andargli di traverso.
Alle quattro del pomeriggio, finalmente, udì la sirena che gli spaccò i
timpani, ma annunciò la fine del supplizio. Uscì, attese invano l’autobus
bloccato dal solito sciopero degli autoferrotranviari, chiamò un taxi per
tornare a casa, si sorbì per mezzora la voce gracchiante della signorina del
radio taxi, pagò la modica sommetta di 50 euro e, finalmente, fu a casa.
Cominciò
a spogliarsi nelle scale, buttò una scarpa nell’ingressino, l’altra nel
bagno, accese il gas per prepararsi la cena, l’olio della padella prese fuoco
prima ancora di buttarci dentro l’uovo. Ci fu una fiammata che riuscì,
fortunosamente, a spegnere e un fumo
acre riempì la casa e fuoriuscì dalla finestra della cucina.
Accorsero i vicini, poco dopo anche i pompieri, chiarì tutto, tornò la calma,
ripiegò sulla solita scatoletta di tonno e fagioli poi, finalmente,
si buttò nella poltrona. Accese la radio. “Ma che bella giornata!”,
gracchiò il vecchio apparecchio riproponendo una vecchia canzone di
Dalla degli anni ’60. Furioso, chiuse la radio, Impugnò il telecomando e si
esibì in uno zapping terrificante. In 20 secondi cambio 30 canali: una
televendita, un dibattito politico, l’immancabile quiz, la telenovela scema, i
telefilm con delinquente e poliziotto (per la televisione il mondo si divide in
categorie, delinquenti e poliziotti). Trasalì. L’ansia e la paura lo assalirono. Si
infilò nel letto, spense la luce e attese con rassegnazione gli immancabili
incubi della notte.
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Il
vecchio zio Nicola, dando fondo ai suoi risparmi, aveva comprato un fucile
nuovo, fiammante, con le canne luccicanti, il calcio in legno pregiato e una
elegante cinghia in cuoio lavorato. L’arma era davvero bella,
una vera magnificenza e il vecchio cacciatore non vedeva l’ora di
provarla su qualche povera preda.
La notte ebbe il sonno agitato come se vaneggiasse per la febbre. Sognò lepri,
fagiani, quaglie, pernici, starne che non aspettavano altro che farsi
impallinare dal suo fucile. Al mattino, prima ancora che spuntasse il sole, si
mise il suo gioiellino a tracolla, si legò la giberna ai fianchi e si
avviò verso la brughiera. Giunto ai margini della radura, caricò
l’arma e prese ad avanzare con circospezione. Ad un tratto vide una lepre a
pochi metri di distanza. Zio Nicola prese la mira e fece fuoco. Pum, fece il
fucile, mentre uno sciame di coriandoli fuoriuscì dalle canne e prese a
volteggiare nell’aria. La lepre rimase lì a guardarlo quasi divertita. Zio
Nicola non riusciva a spiegarsi questo strano fenomeno. Intanto decine di
allodole, incuriosite dal luccichio di quei pezzetti di carta colorata, si
avvicinarono per osservare lo spettacolo. Alcune si posarono addirittura sul
cranio pelato del vecchio lasciandoci anche qualche simpatico ricordino.
Zio
Nicola le cacciò via bestemmiando, poi si grattò la zucca nel vano tentativo
di capirci qualcosa e concluse che, evidentemente, la cartuccia era stata
caricata male. Allora aprì il fucile, estrasse il bossolo vuoto e vi introdusse
una nuova cartuccia. Mentre camminava per la brughiera, uno stormo di tordi si
levò all’improvviso in volo da un cespuglio di mirto.
Il vecchio prese lestamente la mira e sparò, ma, anche questa volta,
ebbe una sgradita sorpresa. Dalle canne del fucile, invece che piombo caldo
uscirono migliaia e migliaia di petali di rose che, per un po’, oscurarono il
sole. Un profumo intenso inebriò gli uccelli che svolazzavano di qua e di là
mentre il povero zio Nicola, sempre più perplesso, girava e rigirava l’arma
tra le mani senza capirci un tubo.
Sempre
più inferocito estrasse di nuovo il bossolo vuoto e introdusse una nuova
cartuccia, poi riprese ad avanzare. Arrivato alla svolta del sentiero vide
davanti a sé una magnifica volpe. “Questa non mi sfuggirà!”, pensò. Prese
accuratamente la mira e tirò il grilletto. Ploff, fece il fucile mentre una
infinità di bolle di sapone al profumo di cocco che uscivano dalle canne di
quella magica arma si librò nell’aria. I raggi del sole, rifrangendosi
attraverso quelle palline trasparenti, diedero origine ad un fantasmagorico
arcobaleno che si stagliò nel cielo turchino. A quello spettacolo meraviglioso,
gli uccelli presero a cinguettare più forte, le cicale si unirono al coro più
allegre che mai, i grilli fecero sentire il loro gioioso cri-cri; perfino le
corolle dei papaveri, delle calendule, delle violette, mosse da un dolce
zeffiro, presero a ondeggiare lietamente.
Zio
Nicola, con la mente ottenebrata dall’ira, non se ne avvide, scaraventò il
fucile in una scarpata e si allontanò bestemmiando. L’arma rotolò, rimbalzò,
si fermò a ridosso di un sasso, poi riesplose eruttando, ancora una volta,
petali di rosa. E mentre il profumo intenso si spandeva nell’aria, da quelle
magiche canne uscirono dapprima sommesse, poi sempre più chiare, le bellissime
note dell’Inno alla gioia mentre
la natura tutta partecipava alla straordinaria festa.
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L’asino
è un animale molto intelligente. Mica sempre, però! L’intelligenza di questo
nobilissimo animale si misura dal numero delle zampe che possiede: se ha
quattro zampe è sicuramente molto intelligente, se, invece, ne ha solo due, è
sicuramente cretino.
L’asino
a quattro zampe riconosce il padrone in mezzo a duecento persone; quello a due
zampe anche fra milioni di individui, ma, proprio per questo, difetta in
intelligenza. L’asino a quattro zampe, infatti, sopporta il padrone, ma non lo
ama, quello a due zampe non sa fare a meno di un padrone, se lo cerca, lo adula.
L’asino
a quattro zampe è costretto a portare la soma, ma ne farebbe volentieri a meno,
quello a due zampe se la cerca come il peccatore cerca la penitenza ed è felice
quando, col suo sacrificio, fa felice il padrone, soprattutto se il sacrificio
è pure ben remunerato.
Nella
storia troviamo esempi di asini a quattro zampe illustri e famosi, da quello di
Buridano (che poi era un rigoroso pensatore, anche se poco incline alle
decisioni rapide), all’asino d’oro di Lucio Apuleio, allo stesso Pinocchio.
Nel caso degli ultimi due si tratta di asini che, alla fine, si sono redenti e
sono tornati uomini, praticamente il contrario di molti nostri contemporanei che
hanno fatto il percorso inverso.
L’asino
a quattro zampe, purtroppo, non è un animale molto prolifico, tanto è vero che
è in via di estinzione, l’asino
a due zampe, invece, presenta un tasso di prolificità esponenziale
e la sua presenza sulla Terra, soprattutto in Italia, si diffonde a
macchia d’olio penetrando nei partiti politici, negli enti locali, nelle
scuole, nelle istituzioni e, soprattutto, nelle televisioni, habitat ideale per
la riproduzione di questa curiosa specie.
Il fanciullo era gracile e smunto. Da parecchio tempo
soffriva di dolori al ventre, mentre un pallore cadaverico sempre più
accentuato rendeva ancora più scarne le sue povere guance. Era ridotto proprio
male. La madre, preoccupata, non essendoci un medico in quel miserabile borgo
nel quale il destino li aveva fatti nascere, pensò di chiedere consiglio al
barbiere, un Figaro che, come tutti i figari che si rispettano, era
specializzato in salassi, intrugli, spezierie e, dulcis in fundo, in quell'arte
mirabile dei "sanaporcelle" che tanto affascinò Carlo Levi.
Figaro,
dopo un'attenta visita specialistica, non ebbe dubbi: "viscerale", fu
la diagnosi e, come terapia, prescrisse tre tazze di latte d'asina al giorno e
digiuno assoluto per almeno un mese.
La
donna, felice dell'esito del consulto che aveva escluso l'esistenza di malattie
ben più gravi, si diede subito da fare per reperire l'insolito farmaco che
avrebbe guarito il figlioletto e, dopo una breve ricerca, trovò una contadina
la cui asina aveva da poco dato alla luce un magnifico puledrino e che, dietro
lauto compenso, si impegnava quotidianamente a fornire la medicina.
Il
fanciullo, poiché il luminare aveva aggiunto che il latte andava bevuto appena
munto, accompagnava la madre al casolare della contadina, posto su di una
collinetta che sovrastava il paese e qui i figli della donna mungevano l'asina e
porgevano la tazza al bimbo che la trangugiava.
Il
primo giorno tutto andò bene, così come il secondo, ma il terzo l'asina forse
capì quello che stava accadendo e cominciò a scalciare e a dare segni
d'impazienza. li quarto giorno, appena vide comparire quel macilento scroccone,
diede uno strattone alla cavezza e se la diede a gambe certamente nell'esclusivo
interesse della sua creatura. Ci volle tutta la pazienza e la perizia dei
ragazzi, avvezzi ai capricci dell' anímale,
per riacciuffarla e portare a termine l'operazione. E così, nonostante la
cocciutaggine dell'asina, la terapia continuò. Purtroppo anche, il puledrino si
ammalò. Giorno dopo giorno, mentre fanciullo riempiva un pochino quelle guance
smorte, lo sfortunato figlio dell'asina deperiva sempre più finché un giorno
gli attoniti padroni lo trovarono morto. Evidentemente la terapia che il
barbiere aveva prescritto al fanciullo era risultata letale per il povero
animale.
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Don Nicola
era un vecchio buono. Aveva oramai da tempo superato gli ottant'anni e, da quel
giorno, aveva smesso di contarli. Viveva una sua vita tranquilla godendo e beandosi dei
piccoli piaceri che a quell'età la vita può ancora concedere: la partita a
carte, la chiacchierata con gli amici, un raggio di sole che ti accarezza e ti
scalda, la fumatina nell'inseparabile pipa, compagna fedele di tanti momenti. Ed
in quella splendida giornata di primavera il vecchio li aveva riassaporati tutti
insieme. Uscito di casa verso le nove del mattino, si era recato in piazza ed
aveva giocato a briscola, poi si era seduto sul muretto, abituale ritrovo degli
anziani , per godersi quel tiepido sole e quella carezzevole brezza che portava
fin nel cuore dei paese l'inebriante profumo degli alberi in fiore e del
rosmarino. E, mentre con gli amici riandava ai bei tempi, alla fatica, ai
sacrifici, agli stenti, ma anche ai canti, ai balli, agli amori, cavò di tasca
la pipa e, dopo averla lentamente e sapientemente caricata, diede fuoco al le
polveri aspirando avidamente quel non proprio profumato incenso. Intanto s'era
già fatto mezzogiorno ed il vegliardo, lasciati gli amici, si avviò verso
casa. A metà strada tolse la pipa di bocca e la ripose, così come faceva
sempre, nella tasca interna della giacca. Era oramai sull'uscio e la famiglia,
seduta al desco, attendeva il suo ingresso in casa per il pranzo, quando un urlo
sovrumano giunse alle orecchie attonite del figli. "Ahh, gridava il
vecchio, il cuore ahh, che male!". I figli accorsero e lo trovarono
accasciato sulla soglia. "Ahh, figli miei, è finitaaa.... è venutaaa
muoio, che dolore! continuava a lamentarsi don Nicola. I congiunti lo fecero
entrare in casa e lo aiutarono ad adagiarsi sul letto. "Ahhh , figli miei,
gemeva il povero vecchio, è il cuore muoio
ahh, ascoltate le mie ultime volontà." I figli si convinsero che
poco restava da fare e che l'ora del trapasso era arrivata, nondimeno tentarono
il possibile per strapparlo alla morte e, mentre il minore si precipitava a
chiamare il medico, l'altro pensò di togliergli la giacca. Appena l'ebbe
sbottonata, un sottile filo di fumo frammisto al puzzo di tabacco si diffuse
nella stanza. Il giovane dapprima penso che il troppo tabacco fumato avesse fuso
il cuore del vecchio, poi intuì la terribile verità: gli strappò
violentemente la camicia e mise a nudo la piccola ustione che provocava quell'atroce dolore
proprio mentre il fratello entrava trafelato nella stanza seguito dal medico.
Rosinella,
povera ragazza, era la disperazione della madre, la gna
(1) Vincenza.
Quando nacque aveva sette bellezze. Bianca e rosea, paffutella, piena di salute,
faceva la gioia di mamma e papà e mastro Arturo era veramente orgoglioso di
questa figlíoletta che era venuta ad allietare la sua casa. Poi,
all'improvviso, la tragedia: una maledetta meningite aveva portato la bambina
sulla soglia dell'Averno per lasciarla, poi, per sempre, handicappata. E ora la
fanciulla, pur abbastanza integra nelle facoltà mentali, si esprimeva a fatica
storpiando irrimediabilmente ed incomprensibilmente le parole e la gente capiva
fischi per fiaschi.
La gna Vincenza ne soffriva
terribilmente e, colpita da sì immane sciagura, non volle mettere al mondo
altri infelici limitandosi a portare cristianamente la croce della povera
Rosinella la quale, però, essendo buona di animo e sufficientemente
intelligente da capire i guai che involontariamente combinava, cercava,
poverina, di rendersi utile ogni volta che poteva e, quando la madre le
affidava qualche piccola commissione, lei era veramente felice. L'ansia di
rendersi in qualche modo utile, però, le giocava brutti scherzi. Desiderosa di
azzeccarne una e di dimostrare a se stessa e agli altri di essere capace di
qualcosa, parlava o, meglio, farfugliava freneticamente ed in modo affannoso
frasi sconnesse ed incomprensibili accompagnandole con gesti esagitati che,
quasi, lasciavano presagire chissà quale catastrofe imminente. E così
l'interlocutore era quasi come
preso dal panico e non capiva un accidente.
La
madre, conoscendo i limiti della poverina, evitava di affidarle incarichi, ma,
poiché viveva in campagna e le case più vicine si trovavano a centinaia di
metri, spesso doveva suo malgrado richiedere i suoi piccoli servigi. E così, un
giorno che stava impastando il pane, chiamò Rosinella e la pregò di recarsi da
comare Concetta per farsi dare il ', criscente"(2)
. A quei
tempi non c'era ancora il lievito in cubetti e le massaie si scambiavano il
lievito naturale. Quando una di loro faceva il pane, prendeva una manciata di
pasta lievitata, la sistemava in un piatto, vi tracciava una croce col taglio
della mano e lo conservava. Quello era il lievito, il "crìscente" che
veniva rinnovato quasi quotidianamente dalle massaie che se lo scambiavano
continuamente.
La gna
Vincenza non trascurò le solite raccomandazioni e Rosinella, ansiosa di
rendersi utile, partì come una freccia. Arrivò trafelata dalla comare Concetta
e, con gesti e parole concitate, riferì l'imbasciata. Quando la povera donna se
la vide davanti in quelle condizioni, ebbe quasi un colpo, poi, non riuscendo a
capire che diavolo dicesse, se lo fece ripetere più volte. Ma, ahimè, la
parola "criscente" era veramente difficile da pronunciare per la
povera invalida e a comare Concetta parve di capire distintamente
'l'Onnipotente". Allora pensò che forse, la gna Vincenza avesse avuto un
colpo e che chiedesse i conforti religiosi prima di tirare le cuoia. Corse in
casa, staccò dalla parete l'enorme crocifisso di legno al quale erano entrambe
devote e si avviò, seguita dalla povera Rosinella che, gesticolando ancor più
convulsamente, cercava di farsi capire aggravando ancor di più la
situazione.
La gna Vincenza che se le vide all'improvviso
davanti in quelle condizioni, si prese uno spavento terribile. Poi, chiarito
l'equivoco, rimproverò aspramente la povera incolpevole Rosinella
riproponendosi di non affidarle più alcun incarico. La povera ragazza ne soffri
terribilmente, ma qualche tempo dopo le fu offerta la possibilità di
riabilitarsi. La gna Vincenza stava preparando la conserva di pomodoro. Dopo
aver utilizzato tutte le pentole disponibili, si rese conto che avrebbe avuto
bisogno di un'altra casseruola un po’ più grande e pensò di chiederla in
prestito a Teresina. Perciò chiamò Rosinella, la scongiurò di non combinare
pasticci e la pregò di recarsi da Teresina e chiederle in prestito una "cunchetta"(3)
.
Figuratevi l'esultanza della povera Rosinella che si vedeva offerta la tanto
agognata occasione di riabilitarsi agli occhi della madre e dei vicini. Ma,
ancora una volta, l'ansia di riuscire le fu fatale. Giunta trafelata da
Teresina, le riferì a modo suo l' imbasciata gesticolando come una pazza, e
ripetendo ossessivamente la parola "cunchetta". Teresina, però, capì
"scupetta"
(4) e,
preoccupata ancora di più dai gesti disperati della povera ragazza, pensò che
la gna Vincenza fosse stata aggredita da una banda di briganti, corse in casa,
afferrò lo schioppo e si diresse come un fulmine verso la casa dell'amica.
Quando la massaia se la vide di fronte armata come il brigante Gasparone, ebbe
un colpo e maledì la povera figliola che non ne azzeccava una. Poi, sempre più
avvilita, spiegò all'amica la faccenda giurando che non avrebbe mai più
chiesto nulla alla ragazza. Ma mai dire mai!
Dopo qualche settimana la
povera donna stava facendo il pane. Questa volta, proprio per evitare di dover
ricorrere agli infausti servigi di Rosinella, pose mente a tutto quello di cui
aveva bisogno ed evitò accuratamente dimenticanze. Purtroppo la disgrazia era
in agguato. 'Dopo aver bruciato nel forno un paio di "sàrcine" (5)
e constatato dalla bianchezza della volta che il
forno era pronto per l'infornata, la gna Vincenza, dopo aver rastrellato le
braci, si apprestava a lavorare di "scupazzu" l'attrezzo costituito da
uno straccio bagnato legato con del filo di ferro ad una lunga pertica, col
quale si pulisce il fondo del forno dalla cenere. Quand'ecco che, patatrac, la
pertica si spezzò nel mezzo del lavoro. Il momento era drammatico perché
l'operazione andava fatta subito. Tardare molto, infatti, avrebbe significato
lasciare raffreddare il forno col rischio di doverlo riardere e far
"stralevitare" il pane già "scanàtu". Perciò,
dimenticando il giuramento, chiamò Rosinella e, questa volta, sì, la prego di
correre da Teresina per farsi prestare lo "scupazzu". Rosinella partì
a razzo e combinò l'ennesima frittata. Ansimando terribilmente e gesticolando
come una pazza, ripeté più volte la parola "scupazzu". Teresina
quasi svenne. Per motivi di opportunità non possiamo riferirvi quel che capì
questa volta; vi diciamo soltanto quel che pensò: "Certo gna Vincenza dev'essere
impazzita per diventare così sfacciata!"
Note
1)
Sta per signora
2)
lievito fatto in casa
3)
grande pentola
4)
schioppo, fucile ad una sola canna
5)
fascine di sterpi
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C’era
una volta …… ”Ecco,
direte voi, la solita favola noiosa! Ma dai, la conosciamo già”: C’era una
volta una bellissima principessa che viveva ……..”
E invece no, non la conoscete, non c’era nessuna principessa, nessuna
matrigna cattiva o principe buono e generoso!
C’era
una volta un luogo meraviglioso, un posto da favola, una stupenda collina che
degradava dolcemente verso il piano. Quando il Signore decise di creare questo
posto incantevole diede fondo a tutta la sua creatività, alla sua genialità,
alla sua arte sublime. Cominciò dal basso e creò una serie di spuntoni di
arenaria a forma di fungo, a punta, a torciglione; alcuni ricordavano vagamente
forme di animali strani e bizzarri, piante sconosciute, mostri fiabeschi. Poi
cominciò a creare i fianchi. Per il lato nord ci perse poco tempo e lasciò che
degradasse rapidamente fino al sottostante ruscello; dalla parte opposta,
invece, si divertì a scavarvi grotte meravigliose, anfratti, cunicoli con
l’ingresso adorno di rocce a forma di stalattiti. Man mano che saliva verso
l’alto l’insieme appariva sempre più bello. Subito sopra le grotte collocò
siepi di mirto, di lentischi e di rosmarino che emanavano tutt’intorno
deliziosi effluvi, piante di alloro, di agave, cespugli di timo e di
finocchietto. Il lavoro procedeva spedito e il Signore era veramente contento
e soddisfatto e avvertiva la gioia e l’orgoglio di chi è cosciente di
aver realizzato un capolavoro. Si fermò un attimo, socchiuse le palpebre, gettò
un’occhiata al lavoro e gli piacque. Emise
un risolino di piacere e decise di
darvi un ultimo tocco, la ciliegina sulla torta, il sigillo dell’opera divina,
la firma dell’artista e creò uno spettacolare spuntone piramidale che
svettava verso l’alto quasi a voler toccare il cielo. Era una formazione
sabbiosa dalla quale spuntavano, qua e là, pezzi di roccia che le conferivano
un aspetto maestoso. Sui fianchi brulli il Creatore fece crescere l’euforbia,
una pianta velenosa, ma i cui fiori coloravano d’oro la collinetta
poi, dato sfogo all’ansia creativa, si riposò ammirando compiaciuto lo
splendido capolavoro.
Trascorsero
alcuni milioni di anni senza che nessuno si curasse di quel meraviglioso
angolino di mondo. Un giorno alcuni signori venuti da lontano giunsero sul posto
e, ammirati dalla bellezza di questo luogo ameno, decisero di costruirci un
castello. La splendida dimora non deturpò il luogo, anzi lo rese ancor più
bello. Ai piedi del maniero, su di un terrazzo che dominava l’immensa vallata,
sorse uno stupendo paesino con le sue viuzze ordinate, le sue chiese, i suoi
palazzotti, i suoi laboriosi e ingegnosi abitanti . Il capolavoro del Signore
non venne deturpato, anzi la grandiosa mole del castello e le casine del vecchio
borgo esaltavano ancor di più l’opera del Creatore. Nessuno si sognò, per
molti decenni, di lordare o sfregiare l’opera di Nostro Signore. Gli uccellini
si godevano questo luogo fiabesco intrecciando voli festosi e giocando a
nascondino tra i lentischi e gli allori o si appollaiavano sull’agave. Le
cornacchie che nidificavano negli anfratti del castello
gracchiavano compiaciute e divertite dai giochi dei loro piccoli amici.
Un
giorno la baronessa del luogo, mentre ammirava questo sublime spettacolo, pensò
che forse gli uccellini potevano avere sete e che era giusto fare in modo che
potessero facilmente dissetarsi. Chiamò un muratore e lo pregò di murare un
catino turchino alla sommità dello spuntone in modo che potesse cadervi sempre
una goccia d’acqua per dissetare i piccoli pennuti. Il giorno dopo ai ragazzi
che guardavano la cima della collinetta apparve uno spettacolo meraviglioso: il
catino turchino rifletteva verso il basso i raggi del sole. Da lontano sembrava
un quarto di luna, come se l’astro, rimasto incastrato nella roccia,
mostrasse parte del suo
faccione. La gente ribattezzò la collina la “Mezzaluna” e gli uccellini,
felici della trovata della baronessa, cinguettarono ancor più allegramente.
Trascorse
oltre un secolo poi, gli uomini, abbrutiti e inebetiti, non furono più in grado
di cogliere la bellezza di quel luogo incantato.
Lo ribattezzarono Petraro (Pietraia)
in senso di disprezzo, lo riempirono di ciarpame, adibirono le grotte a
ricovero di animali e sfregiarono molte di quelle formazioni. La Mezzaluna
resistette ancora qualche decennio poi, anche lei, fu devastata da mani
vandaliche e ridotta a un orribile moncherino. Gli uccellini piansero a lungo
per lo scempio, le cornacchie fuggirono inorridite abbandonando per sempre
quello che era stato un posto da favola, e il Creatore, vedendo quello scempio,
versò calde lacrime, si intristì e maledì il paese e
i suoi abitanti.
Da
allora iniziò un lento, inarrestabile degrado.
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Il
pane e i pesci
Saverio era un contadino
povero, così povero da non potersi nemmeno comprare un paio di scarpe. Quando
lo si incontrava di ritorno dal pietroso podere che gli era stato assegnato dopo
la lotta degli ex combattenti, gli occhi finivano inevitabilmente per fissare
l’alluce del piede destro fasciato da una pezza che fungeva da calza e che
faceva capolino dalla scarpa spuntata. Il vestito liso e consumato, era quanto
restava della divisa con la quale si era congedato alla fine della Grande
guerra, un variopinto assemblaggio di toppe sui ginocchi, sui gomiti e sul
sedere. Ogni mattina si alzava di buonora e si recava alla vigna portandosi
dietro il più piccolo dei figli, Vincenzino, che lo aiutava nei lavori che la
tomolata di terra richiedeva; gli altri, quelli più grandi, o andavano a
giornata nei terreni di don Peppino, o andavano per legna nei boschi dei
dintorni per poi rivenderla a tre soldi la salma.
Il
contadino conosceva molto bene il robusto appetito del figlioletto, nondimeno
non poteva che dargli un tozzo di pane di mais da sbocconcellare a mezzogiorno.
Il problema però era quello di riuscire ad arrivare a mezzogiorno.
Verso
le dieci passava dalla mulattiera, massaro
Michele che con ironica perfidia gridava al ragazzo:” Vincenzino,
Vincenzino attento ai cani , ehi, guarda, stanno divorando la spesa.” Poi si
allontanava sghignazzando accompagnato dagli improperi e dalle maledizioni di Saverio
contrariato da quello scherzo stupido e crudele ripetuto quasi tutti i giorni ai
danni del povero contadinello affamato.
Alle
nove del mattino Vincenzino lottava con i primi crampi allo stomaco e cominciava
la solita litania: “Papà, ho fame, mangiamo?” Saverio sentiva una stretta
al cuore. “Aspetta, Vincenzino, aspetta. Non abbiamo che pane asciutto; fra un
po’ passerà dalla mulattiera il sardaro,
così compriamo quattro alici salate e mangiamo pane e alici.” “Va
bene, papà”, rispondeva rassegnato il ragazzo.
La cosa si ripeteva tre, quattro volte nel corso della mattinata. E così
si arrivava a mezzogiorno. Del sardaro e delle alici, nemmeno l’ombra e,
d’altra parte, anche se fosse davvero passato, Saverio aveva dimenticato a
casa il portafogli. Allora Vincenzino sbottava: “Papà, io ho una fame da
lupo; non me ne importa niente del sardaro e delle alici, mi accontento del solo
pane” e si precipitava ad aprire la spesa per sbocconcellare il pane di
miglio.
Saverio,
col cuore a pezzi, sorrideva ripensando a quell’espediente che gli aveva
consentito di tenere a bada la fame del figlioletto fino a mezzogiorno e che
lasciava di sperare di riuscirci meglio fino a sera.
Miseria e nobiltà
Che
pena, ragazzi, quando ho scoperto la vera identità di quella povera vecchia!
Un’angoscia che non vi dico! Era una gelida giornata di gennaio, una di quelle
giornate nelle quali il termometro scende abbondantemente sotto lo zero e il
fiato, appena uscito di bocca, si trasforma in un una densa nebbiolina prima di
condensarsi in ghiaccioli e stavo percorrendo una stradina alberata nei pressi
della stazione ferroviaria di una città del Nord nella quale mi ero recato per
motivi di lavoro. Qualche minuto prima ero sceso dal treno nel quale avevo
rischiato di soffocare per l’immane calore emanato da un impianto di
riscaldamento regolato male. L’aria secca mi aveva asciugato la gola e i
polmoni facendomi respirare a fatica; l’impatto con l’aria pura, seppur
gelida, mi aveva provocato un momentaneo sollievo, anche se, dopo un po’, il
freddo pungente mi penetrava nelle ossa e mi arrossava e indolenziva la punta
del naso e le orecchie. Cercai di affrettare il passo per guadagnare
rapidamente un bar nel quale trovare un po’ di sollievo ma, svoltato
l’angolo di un palazzo, mi trovai dinanzi un netturbino, uno spazzino, insomma
o, come si usa chiamarlo ora, un collaboratore ecologico.
Rimasi
subito colpito da quella strana figura che aveva un qualcosa di misterioso e
affascinante: si trattava, infatti di una donna abbastanza anziana. Aveva i
capelli raccolti in un foulard grigio scuro qua e là rattoppato alla meglio;
uno scialle nero copriva le spalle ricurve e una gonna lunga, dello stesso
colore, completava l’abbigliamento. Il volto rugoso e scarno mostrava i segni
devastanti dell’età e della fatica che aveva sopportato nella sua lunga vita,
mentre le gambe anchilosate reggevano a fatica il peso di un minuscolo corpo.
La
vecchia ramazzava lentamente, con una lunga scopa, foglie secche, lattine di
bibite, cartacce, cicche sparse qua e là per la via. All’improvviso la vidi
vacillare. Ebbe un mancamento e si afflosciò su se stessa come un fagottello di
stracci.
Preoccupato,
ma anche spinto da quell’impulso alla solidarietà tipico della gente del Sud,
accorsi a soccorrerla. Mi avvicinai chinandomi su quel corpo sofferente, le
sollevai il capo e vidi che, per fortuna, respirava. Mi guardai intorno cercando
invano collaborazione da parte di passanti distratti e frettolosi che tiravano
innanzi badando ai casi loro, come se quella scena fosse una normalissima
parentesi di vita quotidiana. La cosa mi colpì e mi fece riflettere
sull’aridità della razza umana. Fu un attimo, poi, per fortuna, la vecchia
aprì gli occhi, abbozzò una specie di sorriso per ringraziarmi e, con un
leggero cenno del capo, mi fece capire che si stava riprendendo. Allora
pensai che una bevanda calda le avrebbe fatto sicuramente bene, ma non mi
riusciva di scorgere un bar nelle vicinanze e non sapevo come fare. Di colpo mi
ricordai del thermos di caffè dal quale non mi separo mai quando sono in
viaggio e così, mentre con un braccio tenevo ancora sollevato il capo, allungai
l’altra mano libera, afferrai il borsone che avevo appoggiato sul
marciapiede e ne trassi il thermos e un bicchiere di carta che riempii e
feci sorbire alla povera vecchia. Il mio espresso fece il miracolo e
la vegliarda si riprese rapidamente. Allora l’aiutai a sollevarsi e
l’accompagnai ad una panchina sulla quale sedemmo entrambi per riposarci un
attimo. Mi offersi di accompagnarla a casa, ma lei rispose di non avere né
casa, né parenti. “Posso avvisare il comune, dissi allora, il suo datore di
lavoro.” “Non sono impiegata del comune, rispose la vecchia, faccio questo
lavoro da volontaria e vivo della carità della gente.”
Rimasi
molto colpito da queste parole e, istintivamente, cercai il portafogli , ma la
mia interlocutrice mi bloccò: “No, grazie, lasci stare, lei ha già fatto
abbastanza per me, non voglio altro, lei è molto altruista, magari tutti
fossero come lei!” Queste parole mi convinsero di avere a che fare con una
donna un tempo fiera e generosa e ora, per motivi misteriosi, caduta in rovina e
in parte, ma non abbrutita dalla miseria. Probabilmente intuì i miei pensieri
perché, senza che glielo chiedessi, iniziò a raccontarmi la sua storia.
“Lei
si starà chiedendo chi sia e come mi sia ridotta in questo stato pietoso, vero?
Feci un cenno affermativo precisando, comunque, che non intendevo assolutamente
essere indiscreto e la dispensavo dal raccontarmi fatti riservati. “Non si
preoccupi, continuò, non c’è nulla di riservato e inenarrabile nella mia
storia, anzi le dirò che è una storia abbastanza conosciuta, anche se qui vivo
in incognito. D’altra parte solo lei si è accorto del mio stato, del mio
malessere, un malessere che non è solo fisico, ma anche e soprattutto
morale; solo lei ha mostrato compassione per questa povera vecchia. Vede, un
tempo ero stimata, amata e rispettata, soprattutto dai bambini, anche se,
anche allora, c’era chi si divertiva a ironizzare sul mio aspetto fisico con
battute di dubbio gusto. I ragazzi, ai quali ho sempre voluto bene, aspettavano
il mio arrivo, una volta all’anno, con molta gioia e io ricambiavo
il loro amore con tonnellate di giocattoli, dolciumi, vestitini. Anche quando
fingevo di essere cattiva con qualcuno di loro più birbante del dovuto, non lo
lasciavo mai a mani vuote e, assieme al carbone, c’era sempre un regalino. Al
mattino presto i piccini si svegliavano ed accorrevano al focolare a frugare
nella calza, la vecchia, amata, calda calza di lana. Che tempi! Che bello! Poi
è arrivato Babbo Natale, quest’uomo venuto dal Nord con baffi e barba
posticcia, vestito orrendamente di rosso e della vecchia, cara Befana non è
rimasta più traccia; addirittura mi avevano perfino cancellato dal calendario.
Poi qualcuno ha avuto, evidentemente, un po’ di rimorso e mi hanno rimesso al
mio posto, ma, oramai, tra Babbi e Nababbi Natale per me non c’è più spazio
ed eccomi, seguendo il mio vecchio impulso alla generosità, a fare del
volontariato ramazzando, con la mia vecchia, amata scopa, fogliame e
ciarpame……. C’est
la vie, mon ami!
Dette queste parole, la
vecchia pose le mani sul mio capo arruffandomi leggermente i capelli come per
ringraziarmi, raccolse la scopa e si allontanò svoltando l’angolo e
lasciandomi inebetito sulla panchina.
Compare mastro Nicola era morto da pochi giorni.
L’afflitta vedova, la povera Rosina, piangeva come una fontana e consumava la
sua grama esistenza nel ricordo struggente del defunto consorte. Sentiva dentro
come un fuoco che la consumava lentamente; poi, all’improvviso, divampava
facendola urlare di dolore. E, mentre le lacrime sgorgavano copiose al ricordo
di quel lazzarone della buonanima, si avviava ululando al cimitero.
Gli operai sonnecchiavano beatamente sdraiati
sotto i pini nei pressi del camposanto. L’unico loro fastidio erano le mosche
che, ogni tanto, si posavano sui nasi e che li costringevano a sollevare un
braccio nel vano tentativo di scacciarle. Per il resto erano nell’identico
stato d’animo di quel pastore sdraiato con i piedi ammollo nell’acqua del
ruscello e che, essendo terribilmente assetato, pensava che se si fosse trovato
con la testa al posto dei piedi si sarebbe potuto dissetare.
I lavoratori facevano parte di una squadra
antincendio che aveva il compito di sorvegliare ed intervenire
in caso le fiamme avessero attaccato uno dei boschi della zona, ma,
siccome i piromani da qualche tempo sembravano fortunatamente scomparsi, i
nostri eroi faticavano a scacciar mosche.
La calma regnava serena in un silenzio davvero
tombale nel quale il ronzio di un moscerino poteva essere scambiato per il
fragore di un tuono quando, all’improvviso si udì un urlo terrificante: “
Fuoco, fuoco!” Gli operai balzarono in piedi con la rapidità di uno scrutinio
per le elezioni presidenziali americane tra Bush e Al Gore, scrutando il bosco
in ogni direzione, ma non un filo di fumo si vedeva nel raggio di almeno
cinquanta chilometri. E il grido d’allarme non cessava, anzi diventava sempre
più assordante.
Gli operai erano sbalorditi ed infastiditi per
questo accidente che veniva a turbare il loro faticoso riposo e si guardavano
l’un l’altro interrogandosi vicendevolmente con lo sguardo.
“Fuoco, fuoco che mi divori, fuoco che m’ardi dentro e mi consumi da
quando il mio amato Nicola mi fu strappato”, udirono distintamente mentre
Rosina, in gramaglie, sbucava dall’ultima curva che immetteva nel piccolo
piazzale del cimitero. “Fuo…..”, stava per gridare ancora una volta
l’afflitta vedova, ma Pasqualone l’affrontò decisamente e “Comare Rosina,
le intimò minaccioso, non v’azzardate un’altra volta a lanciare falsi
allarmi e a disturbare il duro lavoro di noi poveri operai. Ci avete fatto
prendere un bello spavento, ci avete fatto prendere! Non vi permettete più
altrimenti non risponderemo delle nostre azioni!”
Detto fatto la squadra
riprese alacremente il lavoro all’ombra dei pini, sotto i quali sembravano
essere state chiamate a raccolta tutte le mosche della zona,
mentre la povera vedova, confusa e mortificata, si avviava mestamente
alla tomba di quel filibustiere della buonanima di compare Nicola.
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