Rocco aveva ottenuto anch'egli una "quota". Grazie alle lotte
sue e a quelle dei suoi compagni era diventato un piccolo proprietario dal giorno in cui
gli era stato assegnato un ettaro di terreno brullo ed incolto da anni nei pressi del
ruscello. Lavorando sodo forse ne avrebbe ricavato qualcosa. "Ma, quanta
fatica!", pensava. Sin da piccolo era stato uno sfruttato. Costretto a lavorare nei
campi del barone per qualche centesimo o per qualche pugno di grano e a subire le angherie
di massaro Peppe, povero in canna, lacero e affamato, aveva avuto in confidenza ogni sorta
di privazione e di stenti. Ora, forse, ci sarebbe stata qualche privazione in meno, ma
sudore e sacrifici non sarebbero certamente mancati.
Con questo stato d'animo un mattino Rocco si avviò per la prima
volta al suo podere. Era preoccupato dal lavoro che lo attendeva e, giunto nel campo,
quando già alzava la zappa per calarla sul terreno, cominciò a pensare a quanta gente,
oltre che a se steso e alla sua famiglia, doveva dare da mangiare col suo lavoro ed
immaginò che per ogni persona fosse necessario un colpo di zappa. Calò con forza
l'attrezzo una prima volta e pensò: "Questo e' per il prete, anche lui deve
mangiare!". Sollevò la zappa e al secondo colpo pensò: "Questo e' per il
maestro." Il terzo fu per il medico, il quarto per il farmacista, il quinto per il
segretario del comune. Rocco cominciò a pensare che quello per sé e per la sua famiglia
si allontanava nel tempo e, a ogni colpo , cresceva la rabbia e la potenza. Il sesto fu
per il direttore della scuola, il settimo per quell'azzecacarbugli dell'avvocato, l'ottavo
per la monaca, il nono per il notaio, il decimo per fra Bernardo. Rocco si arrabbiava
sempre più e scaricava la bile sul manico della zappa. L'undicesimo colpo fu per il
sagrestano, il dodicesimo per il collocatore, il tredicesimo per l'impiegato del comune,
il quattordicesimo per la guardia, il quindicesimo per il daziere. Rocco, al colmo
dell'ira, entrava sempre più nel gioco perverso e, senza accorgersene, vibrava colpi
poderosi al terreno che si apriva, si sbriciolava ed inghiottiva le erbacce che finivano
sotto le zolle ad ingrassarle. Il sedicesimo colpo fu per il mercante, il diciassettesimo
per il pittore, il diciottesimo per l'onorevole, il diciannovesimo per il saltimbanco, il
ventesimo per lo strozzino del paese, il ventunesimo per l'ufficiale postale, il
ventiduesimo per il finto invalido, il ventitreesimo per il messo..... Intanto la zappa
continuava ad affondare nel terreno e Rocco, sempre più inferocito, aspettava che
arrivasse finalmente il suo turno. Solo nel tardo pomeriggio, forse più per stanchezza e
non perché fosse terminato l'elenco dei parassiti, giunse il turno del colpo di zappa per
sé e per la sua famiglia. Poi, stanco e amareggiato, senza nemmeno buttare un'occhiata al
campo, ritornò a casa. Il giorno dopo Rocco iniziò, con lo stesso stato d'animo e
ripetendo l'assurdo gioco, gli altri lavori di semina e di piantagione e, a sera, riprese
la strada di casa senza guardare il campo. La cosa si ripeté per parecchi giorni e Rocco,
sempre più incupito, pensava che non valeva la pena di rompersi la schiena per dare da
mangiare a tanti parassiti. Intanto le piantine crescevano forti e rigogliose e
cominciavano a coprirsi di frutti. Un giorno, mentre consumava sotto un pruno un
pasto frugale, Rocco ebbe forse un attimo di risipiscienza e buttò uno sguardo dapprima
distratto, poi sempre più interessato, al campo. Vide i frutti copiosi e sani ed ebbe, in
un lampo, coscienza del lavoro che aveva fatto senza nemmeno accorgersene. Venne il tempo
del raccolto e la sua casa, per la prima volta, si riempì di ogni ben di Dio: patate,
fagioli, cipolle, pomidori, peperoni, melanzane, zucche, frutta. Si mise a vendere
qualcosa e, lentamente, vide sfilare dinnanzi a sé quella folla di parassiti che tante
volte aveva passato in rassegna mentalmente e che ora venivano a comprare i suoi prodotti
portando dei bei soldoni coi quali poté comprare scarpe e vestiti ai suoi figli, mettersi
a posto la casetta e vivere più decentemente e cominciò a pensare che, forse, potevano,
tutto sommato, anche essere utili in qualche modo. Da allora la zappa
continuò a
calare alacremente nel terreno anche se con meno rabbia e più allegria.
Micuzzu
era un bravo ragazzo, ma la voglia di lavorare non gli era mai stata
compagna fedele. Si impegnava, e' vero, quel poco necessario per
sfamare la famiglia senza fare mancare lo stretto necessario ai suoi
tre marmocchi ed alla moglie, ma non si spezzava certamente la
schiena. Ed era un peccato perché il suo vecchio padre, tirando le
cuoia, lo aveva lasciato proprietario di tre tomolate di buona terra
sulla quale avrebbe potuto impiantare un bel vigneto. Ciò gli avrebbe
consentito di produrre tanto di quel vino che, non solo si sarebbe
potuto sbronzare come più gli aggradava, ma avrebbe potuto anche
venderne diversi ettolitri e guadagnare un bel gruzzoletto. Ma per
impiantare il vigneto, ahimé bisognava "fare la scippa",
cioè dissodare il terreno in profondità per almeno un metro e
"scippare" tre tomolate di terra a colpi di zappa e piccone
non era certamente un lavoro divertente. E così Micuzzu se ne stava
tranquillamente a grattarsi la pancia tutto il giorno e ad ubriacarsi
con gli amici nella bettola di Peppino anche perché, da quello che si
lasciava sfuggire quando il cervello, ottenebrato dai fumi dell'alcol
non lo faceva riflettere su ciò che diceva, il padre gli aveva
lasciato un tesoro inestimabile. La cosa era possibile perché zu
Salvatore era sempre stato un gran lavoratore ed un buon
amministratore delle sue entrate, anche se nessuno avrebbe mai potuto
immaginare con precisione l'entità del lascito che preparava per il
figlio. E così lo stolto, non solo sperperava il tesoro
gozzovigliando, ma raccontava in giro che lo aveva sepolto nel suo
campo in una buca molto profonda e che nessuno sarebbe riuscito a
trovarlo. Le chiacchiere di Micuzzu cominciarono a suscitare
l'attenzione di qualche furbastro che prese seriamente a meditare di
impadronirsi delle sue ricchezze. E cos' qualcuno, furtivamente,
approfittando delle tenebre e del fatto che il campo di Micuzzu si
trovava in una zona fuori mano, cominciò a rivoltare la terra alla
ricerca spasmodica del tesoro. Micuzzu se ne accorse quasi subito, ma
da quello scervellato che era, invece di mordersi la lingua a sangue,
la sera, ubriaco fradicio, si faceva beffe di quei tentativi
affermando che il tesoro era occultato così bene che nessuno lo
avrebbe trovato. E, naturalmente, i tentativi di mettere le mani sul
malloppo si moltiplicavano e il terreno veniva rivoltato come un
guanto per appropriarsi di quella fortuna. La cosa andò avanti per un
paio di mesi e, quando, dopo tanto lavoro a vuoto, i cercatori
decisero di desistere, il campo era stato perfettamente dissodato in
profondità. Allora si verificò un fatto strano che gli amici non
seppero spiegarsi. Micuzzu , che era diventato oramai il più assiduo
frequentatore della bettola ed il migliore cliente di Pepino, l'oste
che aveva il vizio di allungare il vino con l'acqua della fontanella
dirimpetto, all'improvviso si eclissò e non vi mise più piede. Lo
vedevano ogni mattina nel suo campo intento a piantare
"maglioli" e barbatelle, in quel campo che certi furbastri
gli avevano perfettamente "scippato" nel vano, disperato
tentativo di impadronirsi del suo tesoro. Solo allora qualche sventato
comprese che il tesoro che Zu Salvatore aveva lasciato a Micuzzu non
era stato trovato perché non poteva essere sepolto in un campo, dal
momento che lo scaltro contadino lo teneva gelosamente custodito in
quella sua maledetta testaccia quadrata.
Don
Pasquale era un gran burlone. Sin da giovane, già prima di solcare
l'oceano per cercare fortuna in Argentina, ne aveva combinate di tutti
i colori architettando beffe memorabili a danno degli amici. Era nota
a tutti la generosità del giovane Pasquale che, spesso, in quei tempi
grami, invitava a cena gli amici con i quali divideva "tielle"
di coniglio con patate o un bel pollo allo spiedo. Quello che gli
amici ignoravano era che quelle carni prelibate che il generoso e
sadico amico cucinava con tanta perizia, provenivano sempre dai loro
pollai che l'astuto amico aveva precedentemente razziato. Quanto
stufato di gatto aveva fatto mangiare loro contrabbandandolo per
agnello, magari chiedendo anche il contributo per la spesa sostenuta!
Una volta spaventò terribilmente un giovanotto che doveva rientrare
in paese a tarda sera facendogli trovare sulla strada una zucca vuota
alla quale aveva tolto la polpa e praticato alcuni fori per farla
sembrare un teschio. Il burlone la sistemò bene in vista dietro una
svolta e vi accese dentro una candela. Quando il malcapitato se la
trovò davanti, nel buio, all'improvviso, scappò terrorizzato a gambe
levate e trascorse tutta la notte nel bosco senza più osare
avvicinarsi al paese. Un'altra volta, travestito da avvenente e
maliziosa fanciulla capitata per caso in paese, opportunamente
assecondato dagli amici, si portò a spasso per una nottata intera il
povero mastro Andrea in fregola, prima di farlo cadere in una
"fossa di calce". Poi i tempi belli erano finiti e Pasquale
fu costretto ad emigrare. In Argentina fece qualche soldo e, quando
ebbe la pensione, tornò al paese ove presero a chiamarlo Don
Pasquale.
Poi
era diventato vecchio e si appoggiava al bastone, ma non aveva ancora
perduto l'antico spirito. Certo che le burle di una volta erano tutt'altra
cosa, ma, come uno dei vecchietti terribili di Monicelli, anche allora
non rinunciava a qualche "zingarata".
In
quei periodo la guerra era appena finita e la fame era la più assidua
compagna dei marmocchi del paese. Don Pasquale ne radunava un
gruppetto nella piazzola, poi iniziava un discorsetto. "Ragazzi
miei, esordiva il vecchio, so che avete una fame da lupi, ma non
preoccupatevi; vi preparerò una pizza grandissima, favolosa, con la
quale potrete rimpinzarvi tutti sino a scoppiare. Guardate, diceva il
vecchio sadico tracciando un grande cerchio sulla terra con la punta
del bastone, qui metteremo la provola fresca, qui, invece, qualche
chilo di salsiccia affettata. Qui sardella, e qui acciughe".
I poveri monelli deglutivano fiumi di saliva mentre il briccone
continuava: 'Poi metteremo dappertutto olive nere. Eh, si, sulla pizza
le olive nere ci vogliono sempre. E, poi, tanto pomodoro". Allora
i ragazzi, sentendo quell'elenco di leccornie che mai avevano visto,
chiedevano al vecchio quando avrebbe finalmente preparato questa
fantastica pizza ed egli allontanandosi ripeteva: "Uno di questi
giorni, uno di questi giorni". La cosa andò avanti per un pezzo,
poi i ragazzi capirono l'antifona.
Una
sera, sul tardi, alcune ombre si aggiravano furtivamente nei pressi
della casa di don Pasquale, ma nessuno vi fece caso, nemmeno il
vecchio che, probabilmente, dormiva saporitamente da qualche ora.
All'alba si udì un urlo sovrumano provenire da quelle parti. Accorse
tutto il paese a trarre, da una buca scavata nei pressi dell'uscio ed
abilmente mascherata con frasche, cartone e sabbia, don Pasquale
bagnato come un pulcino, dal momento che i monelli via avevano deviato
lo scarico della fontana pubblica. “Sì, vendetta, tremenda
vendetta!”
Il
giovane pastorello pascolava maiali e tacchini per conto dei ricchi
possidenti del paese. Da oltre tre anni era tormentato dalla malaria
che aveva contratto nelle paludi della Piana e che lo stava piano
piano consumando. Sentiva la sua vita di tredicenne spegnersi
lentamente. Da giorni gli accessi di terzana divenivano sempre più
intensi; brividi di freddo prolungati gli facevano battere i denti e
un tremore diffuso lo assaliva, mentre la temperatura del corpo si
innalzava vertiginosamente. Poi l'accesso scemava e lo lasciava
spossato e disfatto. La pelle aveva assunto un pallore cadaverico e il
ventre gonfio e tumefatto rendeva più evidente la magrezza di quel
povero corpo. Ancora pochi giorni di questa sofferenza e avrebbe
certamente lasciato questa valle di lacrime. Oramai era rassegnato,
nonostante la giovane età gli facesse desiderare la vita.
Un
giorno, verso il tramonto, mentre la terzana lo divorava, intravide
nel delirio un vecchio dai capelli d'argento ed una lanugine bianca
che gli incorniciava il volto piegarsi verso di lui. Il fanciullo ebbe
un sussulto, poi la debolezza lo vinse e ricadde supino. Il vegliardo
lo rassicurò con la sguardo, poi gli chiese con dolcezza che cosa lo
faceva soffrire così terribilmente. Il giovane raccolse le poche
forze che gli rimanevano e con frasi smozzicate, gli raccontò della
malaria, delle terribili sofferenze che la malattia gli provocava e
della certezza che oramai gli rimaneva poco tempo da vivere.
Il
buon vecchio lo rincuorò, gli disse che a tutto c'è rimedio e che
lui conosceva una medicina infallibile per farlo guarire
definitivamente dal terribile male che lo stava consumando.
"Appena questo accesso scemerà, gli disse, raccogli in quell'orto
dietro la siepe una cappellata di peperoncini piccanti scegliendo i
migliori e falli friggere in padella. Poi mangiali
ancora caldissimi, ma bada bene: devono essere bollenti perché
la cura sia davvero efficace. Fai esattamente ciò che ti ho detto ed
abbi fede nel Signore". Dette queste parole la visione scomparve
ed il giovane cadde in deliquio.
Si
svegliò che era già mattino sfebbrato e molto debole. Ricordava ciò
che gli era capitato la sera prima e le parole del vecchio, ma non
riusciva a capire se fosse stato un sogno o realtà. Tuttavia, dopo
aver a fatica avviato le bestie al pascolo, volle mettere in pratica i
consigli del vegliardo tanto, pensò, se non lo avesse fatto da lì a
qualche giorno un attacco più forte del solito lo avrebbe certamente
ucciso. E così, mentre maiali e tacchini brucavano l'erba, scavalcò
la siepe dell'orto del fattore e raccolse una cappellata di "zanziferi”
rossi, tra i più piccanti che ci siano. Poi li fece friggere nel suo
povero tugurio e cominciò a mangiarli.
Fu
una tortura atroce; il calore immane dei peperoncini gli scottava la
bocca, mentre il piccante tremendo di quel cibo diabolico lo faceva
lacrimare terribilmente. La fronte era imperlata di un sudore gelido,
nonostante in bocca avesse l'inferno. Le tremende sofferenze di quei
terribili momenti gli facevano maledire il vecchio, ma la speranza di
potersi liberare di quella maledetta malattia lo spingevano a cercare
in tutti i modi di superare la prova. Quando l'ultimo peperoncino fu
mandato giù sentiva la testa scoppiargli e gli occhi schizzargli
fuori dalle orbite. Poi cadde improvvisamente a terra stecchito come
se una fucilata lo avesse fulminato.
Si
svegliò verso le sei di sera del giorno dopo. A quell'ora avrebbe
dovuto avere il solito accesso di terzana. Sentiva una specie di
indolenzimento alla bocca ed un
leggero pizzicorino nelle viscere, ma era sfebbrato. Una insolita e
oramai dimenticata energia lo spinse ad alzarsi e muovere qualche
passo. Si sentiva leggero e con una strana voglia di correre. Fece
qualche passo e vide la propria immagine specchiarsi nel ruscello. Sì
trovò molto migliorato. Il giorno dopo si senti ancora meglio, ma
aspettava con ansia e timore il terzo giorno, quello in cui si doveva
ripetere l'accesso febbrile. Non accadde nulla e il giovane, pazzo di
gioia, si rese conto che finalmente si era liberato per sempre della
malaria. Si mise a correre a perdifiato verso il luogo in cui gli era
apparso il vecchio e cadde in ginocchio mentre calde lacrime gli
solcavano il viso. Era sicuro che il vegliardo dalla barba bianca che
lo aveva guarito dalla malaria altri non era che il Signore che,
impietosito dal suo stato, aveva voluto strapparlo alla morte.
Il
paese era in festa. Dappertutto bandiere, cartelli di benvenuto,
signori in frac, tuba e caramella, signore con mantelline, cappellino
e ventaglio, cafoni che per l'occasione avevano tirato fuori i
migliori stracci che il loro povero guardaroba potesse offrire;
monelli appollaiati sui rami degli alberi che si protendevano sulla
strada, sui balconi, nei luoghi più impensati per poter godere
appieno la festa; in piazza la banda musicale al completo, col maestro
impettito come non mai, scalpitava in attesa di esibirsi, mentre i
carabinieri in alta uniforme se ne stavano rigidamente impalati
sull'attenti al fianco del Sindaco avvolto nella fascia tricolore ed
in un frac nero come la miseria dei suoi amministrati.
Il
popolo attendeva da ore l'arrivo del progresso rappresentato, per
l'occasione, da una fiammante Fiat 514, la prima macchina che avrebbe
percorso le polverose strade dei paese e che, da un momento all'altro,
sarebbe sbucata da dietro la collina lì, all'entrata del paese sulla
strada nazionale.
Era
già buio da un pezzo quando, all'improvviso, nel punto previsto,
comparvero due luci che, lentamente, presero ad avanzare sulla strada
polverosa. Si udì dapprima un brusio che presto aumentò d'intensità;
poi scoppiò un applauso fragoroso. Il maestro diede l'attacco alla
banda e le note del "Radetzky" riempirono la piazza mentre i
monelli urlavano a squarciagola la loro gioia.
In
quell'incredibile frastuono nessuno fece caso alla silenziosità del
motore della vettura che continuava ad avvicinarsi al paese. La gente
si preparava ormai ad invadere la strada per osservare da vicino quel
gioiello della tecnica ed i carabinieri sudavano per trattenere la
folla; ancora poche centinaia di metri e l'automobile sarebbe giunta
sulla piazza, ma, ahimé, in prossimità dei ponte, la vettura imboccò
la ripida mulattiera che si snodava sui fianchi della collina e
scomparve rapidamente alla vista della stupefatta popolazione.
I
carabinieri si precipitarono sul posto temendo chissà quale tragedia,
ispezionarono per tutta la notte il burrone che costeggia la strada,
ma della vettura nemmeno l'ombra. Solo al mattino rinvennero fra gli
sterpi due lanterne perfettamente uguali che ignoti bontemponi avevano
abbandonato dopo l'incredibile burla.
La
vettura arrivò solo il giorno dopo quando la piazza era deserta e la
gente nei campi a lavorare.
(1)
La novella trae spunto da un fatto realmente accaduto.
Ciccillo
era tornato dall'America. Con una caterva di valige e scatole, un
cappellaccio calato sugli occhi, uno strano pastrano ed un enorme
sigaro in bocca, era sceso del bastimento litigando con gli
scugnizzi che si facevano sotto per portargli i bagagli. Lo seguiva
a qualche passo di distanza, anche lei indaffarata, Mariantona, la
bella moglie che lo aveva accompagnato nel viaggio d'andata e che
ora rientrava col marito definitivamente in patria. A Napoli si
fermarono il tempo strettamente necessario a sdoganare i bagagli e
poi salirono sul primo sgangherato treno a vapore che doveva
condurli al loro paese.
Ciccillo
e Mariantona erano partiti per gli Stati Uniti dieci anni prima in
cerca di fortuna e per sfuggire alla miseria nera del loro borgo, ma
non avevano mai tagliato le radici col paese natio e, sin dallo
sbarco in America, pensarono di ritornare a casa non appena avessero
messo da parte una somma tale da poter vivere dignitosamente nel
loro paese. Ed in America fecero effettivamente fortuna. Non è che
diventarono ricchi, ma lavorando sodo, lui in una miniera e lei come
sguattera in un ristorante e risparmiando su tutto, riuscirono prima
a restituire le spese di viaggio che l'usuraio del paese aveva loro
anticipato e poi a mettere da parte un discreto gruzzoletto in
dollari col quale contavano di vivere da signori al loro paese.
Tornati
a casa pensarono di aver risolto i loro problemi e mentre Mariantona
ritornò ad essere la casalinga modesta e discreta che era sempre
stata, Ciccillo, che non aveva più bisogno di lavorare per
guadagnarsi il pane, se ne stava tutto il giorno a deliziare i
paesani raccontando loro le mirabilia dell' America. Avrebbe potuto
trascorrere il resto dei suoi giorni così, senza darsi la pena di
andare a lavorare tanto gli interessi della banca bastavano per lui
e per Mariantona, ma, ancora abbagliato dall'America e convinto che
le "nuove idee" che aveva portato da quel fortunato paese
avrebbero avuto successo ed avrebbero finalmente trasformato quel
suo miserabile borgo in un nuovo eldorado, cominciò a pensare a
come far fruttare la sua ricchezza investendola in una qualche
attività economica come aveva visto fare agli Americani. E cosi,
sempre più spesso, discutendo con gli amici in una parlata
tipicamente italo‑americana che sembrava Clinton a
"Striscia la notizia" diceva: "Ehi, paisà, mo me
ciercu nu bellu bissinise e me sistemmo ppe tutta a vita, yes."
Mariantona
cercava di distoglierlo da questa fissazione paventando future
sciagure e temendo per i dollari, ma Ciccillo non
voleva sentire ragioni.
"Yes, my love, me ciercu nu bissinise e nee sistemamo"
ripeteva alla moglie. Gli amici, poveri cafoni che non avevano mai
messo il naso oltre le campagne del paese, non avevano la più
pallida idea di cosa potesse essere questo benedetto bissinese ma,
vagamente indottrinati dall'ex
emigrante , pensarono
che doveva essere una specie di pietra filosofale che poteva
risolvere tutti i problemi.
Un
giorno Ciccillo chiamò gli amici e disse loro che fra qualche giorno
avrebbe aperto in paese una pizzeria come quelle che aveva visto a
Little Italy, sempre affollate e che avevano fatto la fortuna di molti
italo‑americani. E così, ignorando i consigli e le perplessità
di Mariantona, fece venire da Milano tutta l'attrezzatura necessaria
mangiandosi metà dei risparmi.
Il
giorno dell'inaugurazione fu un bel giorno e Ciccillo, anche se
nessuno degli avventori aveva ordinato alcunché, era convinto di
recuperare in breve tempo il danaro investito, anzi di raddoppiarlo o
triplicarlo nonostante lo scetticismo di Mariantona. L'idea era
veramente buona, ma. ahimè, Ciccillo non aveva tenuto conto di un
piccolo particolare: al paese l'unico cibo che i cafoni conoscevano e
si potevano permettere era pane e cipolla e perciò, dopo qualche
mese, visto che nessun avventore s'era fatto vivo, fu costretto a
chiudere la pizzeria e svendere l'attrezzatura. E così metà dei
risparmi se ne andò in fumo.
Ma
il nostro non era di quelli che si lasciano abbattere ed agli amici,
ai quali parlava sempre delle meraviglie americane, ripeteva: Guagliò,
sta vota o bissinise nun ha funzionato, me me ne circu n'atru e vidite
ca funzionerà."
Gli
amici pensarono che forse l'amuleto al quale Ciccillo aveva affidato
le proprie fortune si era rivelato inefficace, ma che con qualche
fattura l'ex emigrato avrebbe potuto sistemare i suoi affari. Ed
infatti qualche tempo dopo, tra la disperazione di Mariantona, decise
di aprire una bisca sul modello di quelle che aveva visto in America.
"Okey, pensò nel suo idioma bastardo, sta vota o bissinise è
fatto." Ma in un paese in cui la gente conosceva a malapena
briscola, scopa e tressette ed il massimo che poteva giocarsi era un
quarto ed una gassosa, anche questo nuovo investimento si rivelò un
fiasco clamoroso. Intanto tutta la ricchezza portata dall'America era
andata in malora e quei pochi dollari rimasti furono bruciati da quel
cocciuto in altre speculazioni sballate sempre in cerca di quel
misterioso "bissinise" che i compaesani non riuscivano a
definire. E così, qualche tempo dopo, il povero Ciccillo fu costretto
a riprendere la zappa che aveva lasciato da parecchi anni e tornare a
lavorare a giornata per sbarcare il lunario. E mentre l’
intraprendente "americano" riprese le antiche abitudini,
Mariantona, viceversa, cambiò completamente stile di vita: vestiti
nuovi più belli di quelli che aveva portato dall'America, qualche
gioiello che esibiva con una certa classe ed alcuni piccoli agi e
comodità che non si era mai permessa divennero i nuovi tratti della
sua personalità.
La
gente non riusciva a capire da dove potesse provenire quella
ricchezza; vedeva soltanto una fila di giovanottoni del paese e dei
paesi vicini, certi pezzi di marcantonio che, mentre Ciccillo lavorava
nei campi, entravano ed uscivano dalla casa di Mariantona Solo allora
gli amici di Ciccillo cominciarono ad intuire, seppur vagamente, che
cosa potesse essere il famoso "bissinise" che il loro amico
aveva sempre cercato e che non era mai riuscito a trovare.
Fríscantone
era di mano lesta: molte volte lo avevano visto correre per le strade del
paese cercando disperatamente di nascondere il cappello che aveva in mano
e che, in un momento di forzata astinenza, aveva lestamente sgraffignato
alla propria testa. Spesso le donne constatavano con desolazione la
scomparsa del braciere che avevano lasciato sull'uscio perché il vento,
ossigenando i carboni, lo facesse ardere: "Manolesta" aveva
colpito ancora! Potendo avrebbe rubato perfino le stelle del cielo, così
piccole e cosù rilucenti. Ma la sua specialità era la caccia.
Nelle
fredde giornate invernali, quando un pallido sole vinceva appena i rigori
della tramontana, il nostro eroe usciva avvolto nel suo largo mantello, si
dirigeva in un luogo soleggiato e si sedeva su di un sasso a godersi quei
tenui raggi.
Le
gallinelle razzolavano tranquille nei pressi di quell'uomo vestito di
scuro, forse perché rassicurate dalla bianca lanugine che, oramai da
parecchi anni, gli incorniciava il volto. Ad un certo punto il vecchio
traeva di tasca alcune fave e le gettava alle ruspanti gallinelle che
accorrevano a beccare quell'autentica manna inghiottendola avidamente.
Pochi secondi ed il vegliardo avvertiva lo strattone della sottile
cordicella che teneva in mano e che aveva sapientemente legato al chicco
di fava forato con certosina pazienza e che era finito nel ventre
dell'avido bipede. Ancora pochi attimi e la gallinella, seguendo
discretamente quell'infido filo di Arianna, finiva sotto il manto di
Friscantone e, quindi, nella sua accogliente pentola.
Torna
all'inizio
Salvezza
eterna (1)
Da
mesi la chiesa era deserta. Il vecchio don Nicola non ce la faceva più.
Si, è vero, continuava con zelo la sua missione di pastore
raccontando la buona novella ed esortando i parrocchiani a vivere
secondo i precetti della Santa Chiesa, ma oramai i tempi erano
cambiati e la gente, più smaliziata e desiderosa di novità, si
mostrava sempre più distratta durante i sermoni del buon vecchio
parroco.
Il
vescovo, informato della cosa pensò di correre ai ripari assegnando
alla parrocchia un prete giovane e pieno di entusiasmo che certamente
avrebbe riportato in chiesa quelle anime bisognevoli dell'
insegnamento cristiano. E così Don Giuseppe, un prete abbastanza
giovane, smaliziato e capace di leggere con la coda dell'occhio fin
nell' animo dei suoi parrocchiani, giunse una mattina in canonica.
La
domenica successiva la chiesa traboccava di gente smaniosa di fare la
conoscenza del nuovo sacerdote. E don Giuseppe non deluse i
parrocchiani. Dopo il "Gloria tibi, Domine" ed il "Laus
tibi, Criste” attaccò un'omelia formidabile nel corso della quale,
dopo aver esortato i fedeli a pentirsi dei peccati, cominciò a
magnificare se stesso e la sua capacità di contendere le anime dei
defunti a Satana e ad avviarle alla salvezza eterna grazie alla
preghiera ed alla fede che aveva nel Signore. "Miei cari fedeli,
concionava il prevosto, quante povere anime ho strappato a Lucifero!
Quanti peccatori ho salvato avviandoli sulla via del paradiso dopo
tanti anni passati al purgatorio! Quanti defunti, grazie alla mia
intercessione, hanno potuto sfuggire alla fiamme eterne dell'inferno
ed essere accolte tra i beati! E tutto ciò per soli due miserabili
soldi che i parenti mi hanno dato in suffragio dei loro cari. Che sono
due miserabili soldi? Figliuoli cari, lascereste voi che per soli due
soldi vostro padre, vostro marito, vostra moglie, la vostra amata
sorella cada nelle mani di Satana? Non sia mai, fratelli! Date il
vostro obolo ed io vi garantisco che nessuno dei vostri cari finirà
all'inferno, ma tutti vedranno la grandezza del Signore. Togliete con
soli due soldi i vostri familiari dalle fiamme eterne!"
Tutti
furono colpiti dalla bellezza di questa omelia lodando in cuor loro le
doti di don Giuseppe, ma chi rimase maggiormente impressionata fu
Rosina. Da anni era preoccupata per la buonanima di Pasquale che non
era stato certamente quel che si dice uno stinco di santo ed al quale
lei, nonostante qualche diceria messa in giro dalle solite male
lingue, sosteneva di
essere stata sempre fedele. Chissà se anche il suo povero marito
lottava ora con i demoni che volevano trascinarlo all'inferno? Perché
non rivolgersi a don Giuseppe? In fondo sarebbero
bastati solo due soldi! E così, presa la decisione, si recò
dal prete al quale confidò i suoi timori consegnandogli i due soldi.
"Rosina mia, le disse il reverendo, vai con Dio. Il povero
Pasquale sarà presto in paradiso."
Rosina
se ne tornò a casa sollevata e la domenica successiva era in prima
fila ad ascoltare la predica di don Giuseppe. “Fratelli carissimi,
esordì il santo uomo, che miracoli portentosi questa settimana! Che
lotte memorabili con i demoni per salvare le anime dei defunti! Quanta
sofferenza. Pensate che ieri sono riuscito a malapena a strappare
l'anima del povero Pasquale dalle grinfie di Lucifero che lo stava
trascinando all'inferno. Ci sono riuscito appena per un attimo. L'ho
afferrato per i capelli e l'ho tirato su in paradiso proprio mentre
stava per sparire negli abissi infernali” Poi continuò raccontando
altre mirabilia, mentre Rosina appariva un po' incupita. Dopo I' 'Ite
missa est" si avviò in sagrestia per togliersi i paramenti.
Rosina
aspettò che la chiesa si svuotasse e, quando fu sicura che don
Giuseppe era rimasto solo, lo raggiunse in sagrestia e cominciò a
lagnarsi con lui. "Don Giuseppe, gli disse, mi avete preso in
giro! Non si tratta così una povera anziana. Non è per i due soldi
che vi ho dato, ma la presa in giro proprio non riesco a mandarla giù".
Don Giuseppe finse stupore e le chiese il perché di quella tirata.
"Voi non avete potuto strappare l'anima del mio povero Pasquale a
Lucifero afferrandolo per i capelli, esclamò Rosina. Nessuno meglio
di voi dovrebbe sapere che Pasquale era completamente calvo!".
"Rosina mia, rispose quel birbante, è vero. Non l'ho afferrato
per i capelli, l'ho afferrato per le corna, nessuno meglio di te
dovrebbe sapere che Pasquale ne era abbastanza fornito, ma, capirai,
mica potevo spiegare questo dettaglio durante l'omelia."
La
povera Rosina comprese l'antifona e da quel giorno è sempre li,
compunta nel bel mezzo degli scanni corali ad ascoltare con devozioni
le funzioni di don Giuseppe.
(1)
La novella è nata nel
corso di una memorabile cena fra amici che hanno fornito gli spunti
principali
I due banditori
Non
ho mai capito se c'era una particolare vocazione nei giovani di allora
nel mettere uno contro l'altro i vecchi o, se, piuttosto, non fossero
proprio loro, i vecchi di quella generazione, particolarmente
litigiosi e brontoloni Quel che è certo è che non c'era giorno che
Dio mandasse sulla Terra senza una bella lite tra arzilli vecchietti
che finiva, fortunatamente, annegata in una bottiglia di vino o forse
no ... forse nell'acqua col quale l'oste Peppino lo annacquava. Le più
spassose erano però, quelle tra mastro Arturo e zu Giuseppe, i due
banditori del paese.
Quando
in piazza si sentiva la trombetta di mastro Arturo "Tuuu tuuu,
tuuuu, in piazza sono arrivati i pesci: alící, vope, sarde, stocco,
pesci freschi e saporiti " un giovinastro tra quelli che
stazionavano in permanenza in piazza, volgendo le spalle a zu Giuseppe
e fingendo di non vederlo, attaccava: "Che voce, che voce
portentosa quella di mastro Arturo. E come è chiara! Questi si che
sono bandi, altro che quelli di zu Giuseppe! E poi si fa pagare anche
di meno: solo sei soldi, invece di una lira e mezza" Zu Giuseppe
rizzava le orecchie, mentre le narici cominciavano a fumare. "Si,
si, è vero, mastro Arturo se lo beve a zu Giuseppe, riprendeva un
altro di quei bighelloni, proprio mentre riecheggiava ancora una volta
il suono della trombetta e mastro Arturo sbucava da un vicolo, con
quei polmoni può buttare bandi da mattina a sera. E poi, a differenza
di zu Giuseppe, è sempre sobrio; mai una volta che beva un
goccio". A questo punto zu Giuseppe, cotto a puntino, scoppiava e
si lanciava contro il malcapitato mastro Arturo che, facendosi pagare
di meno, gli toglieva il pane di bocca. Mastro Arturo, con gli occhi
iniettati di sangue per una congiuntivite cronica e per i numerosi
bicchieri tracannati, si lanciava a sua volta sul rivale, mentre i
giovinastri, fingendo di accorgersi solo allora della presenza di zu
Giuseppe, dividevano i contendenti e fingevano di rabbonirli con
argomenti studiati apposta per attizzare la lite. Poi dopo un bel
pezzo, la stanchezza aveva il sopravvento ed i due vecchi, scolato
l'ennesimo, bicchiere per bagnarsi la gola secca per la lunga
litigata, si avviavano barcollando verso casa.
I
giovani lì seguivano per un pezzo con lo sguardo attendendo il
momento più spassoso. Qualche minuto e si sentiva lo squillo
prolungato della trombetta di mastro Arturo che rincasando aveva
trovato l'uscio chiuso: "Tuuuuuuu, tuuuu. Chi tiene in casa
Concetta mia la cacciasse fuori perché non ho le chiavi."
Eh,
Mastro Luigi, quello si che era un uomo coraggioso! Uomini come lui
non ne nascono più. Bastava averlo vicino e ti sentivi rassicurato,
tranquillo, con la certezza che, in qualsiasi circostanza, qualunque
pericolo ti avesse sovrastato, c'era Mastro Luigi, l'uomo che era il
coraggio personificato, l'essere capace di affrontare qualsiasi
situazione drammatica, il più crudele brigante, la più terrificante
belva feroce, tutti i fantasmi, i mostri, gli esseri più pericolosi e
ripugnanti e sconfiggerli.
Ancora
oggi, a distanza di oltre un trentennio, mi rintronano nelle orecchie
i racconti delle sue mirabolanti avventure, di quella volta sul Carso
quando, rimasto senza munizioni, affrontò con la sola baionetta ben
15 feroci tedeschi armati fino ai denti che lo avevano circondato
sbudellandone 10 e mettendo in fuga gli altri. E che dire di quella
volta che con un bastone raccolto per terra riuscì, dopo una lotta
impari, a mettere in fuga un branco di 18 lupi decisi a sbranarlo? Ma
la sua specialità erano i fantasmi. Il suo passatempo preferito
consisteva nell'uscire di casa nel cuore della notte, attraversare
tutti i crocevia dove, secondo lui, era facile imbattersi in megere e
streghe che tentavano di spaventarlo e che lui riusciva puntualmente a
mettere in fuga, e raggiungere il cimitero. Quivi passeggiava a lungo
fra le sepolture e, quando si imbatteva in un fantasma lo rimproverava
aspramente e lo metteva in riga, tanto che la povera anima in pena,
confusa e mortificata, se ne ritornava nella sepoltura senza più
importunare il nostro eroe. E così Mastro Luigi, dopo aver
rimbrottato diversi ectoplasmi, adocchiava un loculo vuoto e vi si
sdraiava dormendo saporitamente fino al mattino.
Una
notte, mentre passeggiava tranquillamente alla volta del camposanto,
arrivato ad un certo punto, vide da lontano un cane che, avanzando
lentamente, gli veniva incontro. Mastro Luigi che se ne intendeva, capì
subito che si trattava di un abitante dell'aldilà, infatti, più il
cane si avvicinava, più cresceva a vista d'occhio fino a che, giunto
a pochi metri da lui, era diventato il doppio di un cavallo.
L'artigiano, senza muovere un solo muscolo del viso, lo guardò di
traverso e gli disse: "Ma non ti vergogni di ricorrere a simili
mezzucci dopo tutte le sberle che ti ho dato in vita e dopo averti
dimostrato sempre il mio grande coraggio?" Aveva infatti capito
che si trattava del fantasma di mastro Giovanni, l'individuo più
attaccabrighe e litigioso che si fosse mai visto e che Mastro Luigi
aveva dovuto più volte mettere in riga quando si ubriacava. Anche
questa volta il povero mastro Giovanni ebbe la peggio e scomparve di
botto.
Che
uomo, Mastro Luigi! Peccato che sia morto prematuramente. Eppure
nessuno avrebbe immaginato una morte così improvvisa e strana per una
persona che schiattava di salute. Ma così è la vita! Mastro Luigi
era appena uscito dalla macelleria con l'involto della carne tra le
mani e si era avviato verso casa. Percorso un breve tratto di strada,
doveva svoltare l'angolo della casa di zu Giuseppe, percorrere ancora
una ventina di metri e si sarebbe trovato davanti l'uscio di casa sua.
All'improvviso, proprio mentre stava per svoltare, si senti la vocina
stridula ed imberbe di un frugoletto biondo gridare forte: "Setteeee!",
mentre un'altra voce anch'essa imberbe, emise un sonoro "Buhuu!".
Si
vide Mastro Luigi sbiancare in volto, portarsi la mano al cuore,
sbarrare gli occhi e crollare a terra come fulminato con la bava alla
bocca. Accorsero i passanti, accorse il medico condotto che si trovava
nei pressi, ma per il povero artigiano non c'era più nulla da fare:
l'infarto lo aveva fulminato.
Che
uomo, Mastro Luigi! Non ne nascono più uomini così coraggiosi!
Da
parecchi giorni il sole dardeggiava alto nel cielo ed i suoi raggi
infuocati inondavano di luce la campagna assordata dal frinire
ossessionante delle cicale. Le messi, copiose e biondeggianti,
ondeggiavano lievemente ad ogni alito di brezza: era oramai tempo di
mietitura.
Un
mattino all'alba una lunga teoria di uomini curvi sotto il peso dei
loro fardelli, asciutti e grinzosi come l'uva passa, col volto segnato
dagli stenti e dalla fame, si avviava ai campi del barone. Sul braccio
ricurvo ognuno aveva la sua falce foderata di stracci e la mano, già
inguainata nei cannelli, stringeva un tovagliolo di lino bianco i cui
quattro angoli annodati formavano una rudimentale bisaccia contenente
la "spesa” il magro cibo della giornata. Erano spese povere: un
tozzo di pane, una fetta di lardo, un pugno di olive secche, un
pomodoro costituivano il pranzo dei più ricchi, di quelli che
potevano orgogliosamente mangiare in gruppo ostentando tanta fortuna;
gli altri, i poveri, a mezzogiorno, si allontanavano con un pretesto
mentre il caporale bestemmiava come un turco che " non ne poteva
più di quella vita grama: tutti i giorni sempre e solo caciocavallo e
uova!"
Nicola
era uno di quest' ultimi. Onesto lavoratore con moglie, tre figlie
femmine ed una nidiata di marmocchi che gli succhiavano fin l'ultima
goccia di sangue, disfatto dalla malaria, mostrava molti di più dei
suoi 47 anni. Nessuno lo aveva mai visto mangiare in gruppo: a
mezzogiorno anche lui prendeva la sua spesa e si allontanava per i
campi. Nessuno gli andava dietro, nessuno osava spiarlo, tanta era la
soggezione che incuteva la sua figura taciturna.
Quella
mattina la sua spesa era più voluminosa del solito e Nicola faceva
quasi fatica a portarla. Giunto nel campo cercò un arbusto per
appendervela, così come facevano tutti; i cani, infatti, più
affamati dei loro padroni, frugavano disperatamente dappertutto alla
ricerca di cibo. Appeso il fardello ad un ramo di pruno, si mise a
lavorare.
Verso
le dieci un cane si intrufolò furtivamente nel campo e strisciò
acquattato fino all'arbusto. Vide la spesa e cercò di afferrarla.
Spiccò un salto, un secondo, un terzo; finalmente urtò col muso il
fardello che prese ad ondeggiare. Il rametto del pruno scricchiolò,
si spezzò.
La spesa cadendo colpì
la schiena del cane che prese a guaire pietosamente fuggendo nei
campi. I nodi del tovagliolo si sciolsero ed una bella pietra bianca e
liscia comparve in mezzo al grano.
Gli
uomini scoppiarono in una fragorosa risata, ma non fecero in tempo a
vedere il volto di Nicola rigato di lacrime.
La
campagna elettorale era stata particolarmente aspra: mai come questa
volta le invettive, le ingiurie, le accuse reciproche tra gli
esponenti dei diversi schieramenti scambiate dai “vignani” e dai
balconi durante i tradizionali comizi erano state così feroci e così
cattive. I tre capi lista che si contendevano il comune di Quattrotane
avevano infiammato, con tutti i mezzi e con tutte le arti di politici
consumati, gli animi dei loro sostenitori tanto che si era venuti più
volte anche alle mani. Poi, finalmente, era suonata la mezzanotte di
venerdì, i comizi erano finiti e gli animi un po’ placati, ma la
tensione era ancora palpabile nell’aria.
La
mattina del voto regnava una calma irreale: nel seggio elettorale gli
scrutatori leggevano ad alta voce le generalità degli elettori,
consegnavano loro la scheda e indicavano la cabina libera. I
rappresentanti di lista guardavano tutti con occhio sospettoso come se
il più innocente, impercettibile movimento di un elettore o di uno
scrutatore potesse provocare la perdita delle elezioni da parte del
loro partito e i capi lista se ne stavano seduti, incollati sulla
scalinata del municipio, proprio di fronte il seggio, incuranti della
fame, della sete, della stanchezza, a scrutare il più piccolo
movimento di ogni muscolo facciale di chi aveva già votato per
scoprire se aveva tradito o meno.
Verso
le due del pomeriggio fu il turno di mastro Luigi. L’anziano
artigiano entrò nella cabina, espresse il voto poi consegnò
diligentemente la scheda al presidente. Salutò i presenti, si rimise
in testa il cappello e uscì dal seggio.
Appena
fuori si trovò faccia a faccia con i tre capi
lista seduti a qualche metro di distanza l’uno dall’altro.
Vide i loro sguardi interrogativi, percepì l’ansia di sapere che li
divorava, poi si avviò decisamente verso uno di loro, tese la mano,
gli sorrise calorosamente e, con
ammiccante complicità, gli strizzò l’occhio. Neanche il
tempo di aspettare un cenno d’intesa e di ringraziamento da parte
del presunto beneficiato per il consenso ricevuto e mastro Luigi aveva
già stretto la mano, sorriso e ammiccato al secondo candidato così
fece anche con il terzo poi, l’astuto, ineffabile artigiano salutò
calorosamente i presenti, si calò il borsalino in testa e si allontanò
ridendosela sotto i baffi.
I
tre politici rimasero lì, imbambolati, inebetiti guardandosi, forse
per la prima volta da anni tra di loro, senza rancore,
ma con reciproca incredulità, ad interrogarsi con uno sguardo
per capire chi era stato beffato e chi, invece, aveva ricevuto,
se mai lo aveva ricevuto, il consenso di quel vecchio filibustiere di
mastro Luigi