Presa e distruzione di Spinello
luglio 1861
di Giuseppe Marino

 

    
                                        
Spinello (KR)

Devo al mio amico prof. Armando Iapella la trascrizione di alcuni documenti tratti dall’archivio privato dei signori Barberio di San Giovanni in Fiore dai quali è possibile ricostruire la vicenda della presa e della distruzione di Spinello, paese a pochi chilometri da Caccuri,  che subì la stessa sorte di migliaia di altri comuni del Regno delle due Sicilie messi a ferro e a fuoco dagli invasori piemontesi con la collaborazione di baroni, ricchi proprietari terrieri e loro manutengoli passati lestamente dalla parte dei vincitori, ancor prima che vincessero, per spianare loro la strada in cambio della promessa di mantenere inalterati i loro antichi privilegi e legalizzare le loro “ruberie” ai danni del demanio che i re borbone avevano tentato, con scarsa fortuna, più volte, di limitare attirandosi l’odio di queste classi sociali. Evidentemente molti cosiddetti patrioti che si attivarono per rendere agevole  il compito del prode Garibaldi conoscevano benissimo questa situazione e quale poteva essere il grimaldello per aprire la porta ai savoiardi. Un piano ben congegnato che Tancredi Falconeri, a differenza dello zione, don Fabrizio Salina, conosceva perfettamente.
    La proclamazione dell’unità d’Italia del marzo 1861, a seguito della conquista violenta del Regno delle due Sicilie e del plebiscito truffaldino del 21 ottobre del 1860 non riuscì a spegnere l’incendio che infuriava nell’Italia meridionale dove migliaia e migliaia di patrioti presero le armi per cercare disperatamente di cacciare l’invasore e riprendersi la propria indipendenza. Questi uomini furono marchiati come briganti dai brigati veri che avevano aggredito proditoriamente un popolo pacifico senza nemmeno dichiarargli guerra, che per mesi avevano saccheggiato, stuprato, massacrato la gente inerme, dopo aver spogliato le loro case e le loro chiese. Quattro mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia la rivolta patriottica divampava più intensa che mai.
   Il 7 luglio del 1861 il popolo di Caccuri insorse e issò una bandiera del vecchio regno sul campanile della chiesa di Santa Maria delle Grazie. Le guardie nazionali, al comando di Antonio Abbruzzini, riuscirono ad avere ragione dei rivoltosi e avevrtirono la guardia nazionale di San Giovanni in Fiore che chiese l’aiuto dell’esercito. La mattina presto, dopo una marcia forzata, una colonna di una trentina di soldati al comando del tenente Magni entrò in paese ristabilendo l’ordine. Stranamente non vi furono eccidi o almeno non ne siamo a conoscenza. Probabilmente i capi della rivolta dovevano essere non caccuresi che, alla notizia della marcia del tenente Magni e dei suoi soldati, abbandonarono rapidamente il paese che non fu, forse per questa, oggetto di rappresaglia.  
    Mentre i soldati si trovavano ancora a Caccuri, insorsero contemporaneamente anche Altilia, frazione di Santa Severina, e Cotronei per cui il Magni e i suoi subordinati furono costretti a mettersi in marcia per Altilia. La notte dell’11, approfittando della loro assenza, un gruppo di patrioti, probabilmente lo stesso che aveva innescato la prima rivolta, tentò di rientrare a Caccuri, ma questa volta la guardia nazionale della cittadina riuscì a respingere l’attacco anche perché poteva disporre di un cannone. Poi, dopo l’eccidio di quattro guardie doganali, la notte del 16 luglio da parte dei rivoltosi caccuresi, la situazione la rivolta scemò, anche perché in paese giunse anche la colonna mobile del capitano Novelli respinta da Cotronei dai rivoltosi di quel paese. Intanto anche Spinello era insorta
    I soldati accorsi per sedare la rivolta, verso le 6 del pomeriggio del 12 luglio, si scontrarono con un gruppo di “briganti” in contrada Gipso che erano già stai attaccati dalla colonna del maggiore Rossi. Un numero imprecisato di combattenti per la libertà rimasero sul terreno, come si evince da una lettera di Antonio Mancini al capitano della Guardia di San Giovanni in Fiore Salvatore Barberio, mentre da parte piemontese si ebbero solo due soldati morti. I pochi superstiti tentarono la fuga verso il fiume Lese, ma si scontrarono con una compagnia di soldati che stazionava sul luogo e furono sterminati. Tra i morti figurava anche il capo brigante Gallo.  
    Completata la strage i piemontesi rivolgono la loro attenzione al paese difeso strenuamente da un gruppo di armati. Un certo Michele Cancellieri, all’epoca fattore del barone Barracco, aveva provveduto a informare il capitano Antonio Marra, comandante della colonna mobile, che nei comuni di Belvedere e di Spinello 400 briganti, insieme alla popolazione, avevano innalzato le bandiere bianche, distrutto gli archivi comunali e parrocchiali degli anni 1860 e 61 e, soprattutto, abbattuto i busti "dell’amatissimo sovrano Vittorio Emanuele". A capo dell’insurrezione vi era un tale Felice Berardi, detto Filicione che operava per conto di Luigi Muraca, noto reazionario impegnato da sempre contro gli invasori. Tra gli altri capi figuravano Francesco Gallo, Domenico Patriota, Domenico Fazio, Carlo Bianchi  e Francesco Marchione.
 
      
Briganti

A questo punto il capitano Marra richiama il tenente Magni che si trova a Caccuri ordinandogli di raggiungerlo ad Altilia con la sua colonna di 32 soldati e il tenente Santangeli che, oltre ai suoi 24 soldati, mette a disposizione del militari 250 mazzi di cartucce. Ai soldati non resta che mettersi in marcia, cosa che fanno alle 3 e mezza del pomeriggio. La forza attaccante risulta composta da un luogotenente, dal medico del battaglione, da 95 tra soldati, ufficiali e sottoufficiali  e da un gruppo di guardie nazionali per un totale di 120 uomini
    Guadato il Neto la truppa cominciò a inerpicarsi lungo i sentire che conducevano a Belvedere. Mentre si avvicinavano all’abitato notarono una quantità di gente armata pronta a difendere il paese. Poi, a un tratto, quando i soldati si trovavano a circa mezzo chilometro, dal paese partì un fuoco intenso, quanto inefficace, ma  che li costrinse a rallentare la loro avanzata. L’impossibilità dei patrioti di difendere il paese era manifesta e dovuta, principalmente alla scarsa portata delle loro rudimentali armi contro un aggressore che poteva colpirli da molto lontano tenendosi fuori tiro mentre il resto della truppa avanzava alla cacciatora. Fu così che la colonna del tenente Magni poté avanzare indisturbata e conquistare le alture mentre i “briganti” iniziavano al loro ritirata. Verso le 8 di sera le colonne dei tenenti Magni, Santangeli e Gucciarelli conquistarono la spianata dove vennero raggiunte dal resto della truppa. A questo punto il capitano Marra diede il segnale d’attacco al grido di “Viva il re”. Rapidamente arrivarono alla chiesa che superarono sia dal lato destro che da quello sinistro sbucando improvvisamente nel paese.


            La chiesa aggirata dai soldati per entrare in paese

 La resistenza dei difensori fu molto debole. Secondo il comandante dei soldati alla fine i briganti morti risultarono essere solo 7,  anche se è sempre lecito il sospetto che alcuni morti possano esseere stati fatti sparire, dal momento che le autorità filo savoiarde del tempo non si preoccupavano certamente di "aggiornare l'anagrafe",  ma una così facile vittoria su di un avversario inconsistente non fu sufficiente, evidentemente, a placare la loro violenza che trovò sfogo nell’incendio del paese, mentre la popolazione terrorizzata correva, nelle tenebre, verso Belvedere. I danni patiti dall’esercito si ridussero a tre feriti e due contusi leggermente.
    La prima casa alla quale diedero fuoco fu il palazzo del principe Ercole Giannuzzi Savelli che l’anno prima si era trasferito definitivamente a Napoli. La colpa del Savelli, agli occhi dei savoiardi e dei loro manutengoli era quella di essere ritenuto un filoborbonico in quanto, dal 1857, comandante del plotone della guardia d’onore di Ferdinando II.


       
Resti del palazzo del principe Giannuzzi Savelli

Soldati

Tra gli eroi di sì epica battaglia figurano il tenente Ampelio Magni, il caporale Gaspare Pratesi, il tenente della Guardia mobilizzata Pietro Giuseppe Arcuri e il luogotenente Narciso Gucciarelli.
     Questa vicenda scosse, evidentemente, molto i caccuresi tanto che da allora " 'U focu 'e Spinellu" divenne sinonimo di cosa spaventosa, terrificante da cui la minaccia: "Te fazzu vìrere 'u focu 'e Spinellu."