Pietro
Monaco, soldato borbonico, poi garibaldino, quindi mancato soldato dell’esercito
italiano e disertore, infine bandito efferato e inafferrabile, nacque a
Macchia di Spezzano piccolo il 2 giugno del 1836. Nel 1855 fu
selezionato per il servizio di leva nell’esercito duo siciliano,
servizio che prestò a Napoli dove conobbe, Agesilao
Milano, soldato calabrese di origini arbëreshë di San Benedetto
Ullano, futuro attentatore alla vita di Ferdinando II e Giovan Battista
Falcone di Acri, uno dei compagni di Pisacane che il Monaco, secondo
alcune fonti, si ritrovò a combattere come nemico proprio a Sanza
quando il gruppo di rivoluzionari fu massacrato dai contadini e dai
soldati borbonici. Per uno strano capriccio del destino assistette
probabilmente anche al gesto folle e disperato di Agesilao Milano
quando questi, al Campo di Marte, nel corso di una parata militare, si
scagliò con la baionetta contro il
sovrano. E’ probabile che queste dolorose vicende abbiano
prodotto qualche senso di ribellione nell’animo del giovane soldato
che, nell’ottobre del 1858, assolto il servizio di leva e tornato
nella sua terra, all’età di 22 anni sposò Maria Oliverio che
divenne poi Ciccilla, una delle più famose brigantesse dell’ex Regno
delle due Sicilie.
Prima del matrimonio, ma probabilmente anche dopo, Pietro
ebbe una relazione con Teresa Oliverio, sorella di Maria , relazione
che ebbe effetti devastanti sulla vita dei tre protagonisti di questo
scellerato triangolo. La vita matrimoniale non fu facile, sia per il
carattere irascibile di Pietro, sia per la maniacale gelosia di Maria,
probabilmente fondata, nei confronti della sorella. Arruolatosi una
seconda volta al posto di un facoltoso cittadino di Macchia di Spezzano
in cambio di denaro, secondo le leggi allora in vigore, disertò dopo
poco tempo dandosi alla macchia.
Casa natale
di maria Oliverio (Ciccilla)
Nell’agosto del 1860, quando Garibaldi tenne un celebre
comizio dal balcone della casa di Donato Morelli, un possidente fra i
più attivi nel finanziare e favorire l’impresa garibaldina in
Calabria e nel reclutare uomini in appoggio al conquistatore nizzardo,
promettendo, su subdolo suggerimento dello stesso Morelli, gli usi
civici delle terre silane , abolizione della tassa sul macinato e la
riduzione del prezzo del sale, il giovane disertore, così come
centinaia di altri calabresi andarono ad ingrossare le file dell’accozzaglia
garibaldina che ebbe la strada spianata fino a Capua e al Volturno dove
quel che restava dell’esercito borbonico seppe tenere testa
validamente ai garibaldini che, senza l’intervento dell’esercito
piemontese e di mercenari ungheresi sarebbero stati sopraffatti
facilmente. Va
inoltre rilevato che in quell’occasione a Soveria Mannelli una parte
dell’esercito borbonico, al comando del generale Giuseppe Ghio che
aveva al suoi comandi ben 12.000 uomini, si arrese, senza combattere,
com’era oramai diventata un’abitudine da Marsala in poi, a quattro
gatti comandati Francesco Stocco, calabrese di Decollatura promosso da
Garibaldi generale. Il Ghio, come da copione, poco tempo dopo, pur
avendo avuto un ruolo di
primo piano nella fine di Pisacane, fu nominato da Garibaldi,
comandante della piazzaforte di Sant’Elmo (A sant'Eremo tanta forte
l'anno fatto comme’’a ricotta), cosa che fece infuriare i
mazziniani, ma il suo tradimento consentì all’avventuriero nizzardo
di scrivere questo spavaldo telegramma: “Dite
al mondo che ieri coi miei prodi calabresi feci abbassare le armi a
diecimila soldati, comandati dal generale Ghio. Il trofeo della resa fu
dodici cannoni da campo, diecimila fucili, trecento cavalli, un numero
poco minore di muli e immenso materiale da guerra. Trasmettete a
Napoli, e dovunque, la lieta novella.”
C’è chi ancora ha qualche dubbo sui motivi reali di molti tradimenti
di generali e ufficiali borbonici che si arrendevano agli invasori
prima ancora che questi glielo chiedessero, ma evidentemente, come
canta Mimmo Cavallo e come lascia intendere Denis Mack Smith nel suo
“Garibaldi” quando parla di contributi in danaro da parte di lord
Byron e del Duca di Wellington, a questi comportamenti non fu estraneo “l’oro
inglese.”
Purtroppo le promesse del nizzardo, frutto della mente
diabolica dei padroni di sempre, si rivelarono un vero e proprio odioso
raggiro; gli usi civici non furono mai concessi, il prezzo del sale
tornò a livelli altissimi e la tassa sul macinato raddoppiata. Da qui
la rabbia e l’odio dei calabresi contro chi li aveva ingannati e la
nascita di un movimento di resistenza e di reazione che fu subito
ribattezzato “brigantaggio” dai conquistatori e dai profittatori di
sempre divenuti ora alti funzionari,
ufficiali, giudici, parlamentari dei nuovi regnanti e, come sempre,
saldamente in sella e ancora più ricchi e protervi di prima. A Pietro
Monaco, fra l’altro, richiamato di nuovo alle armi dopo avere
combattuto con Garibaldi per l’unità d’Italia, a tanti soldati
sbandati e senza alcuna prospettiva, ai contadini senza terra e senza
diritti, ai nostalgici del vecchio stato non rimase altro che prendere
le armi e darsi alla macchia, alcuni autonomamente dandosi al
brigantaggio criminale, altri intruppati nelle bande fomentate da Luigi
Muraca, Padre Clemente da Sersale, dal generale spagnolo Borjes a
tentare di scacciare i conquistatori dalle terre dell’ex Regno delle
due Sicilie.
Il
crinale che divideva i briganti criminali da quelli politici era spesso
assai esile
tanto che i due movimenti spesso si intrecciavano e si
confondevano. Il Monaco, assieme alla moglie che dopo l’efferata
uccisone della sorella e rivale in amore Teresa aveva seguito il marito
e la sua feroce e agguerrita banda col soprannome di Ciccilla, fu,
sicurmente, un criminale comune, anche se alcuni lo definiscono un
bandito sociale
e se per quasi due anni diede filo da torcere al famigerato Fumel, l’efferato
colonnello piemontese mandato dal Cavour a sopprimere
la resistenza duo siciliana con metodi barbari e inumani. La
banda Monaco non partecipò mai a episodi di rivolta e di resistenza
contro l’esercito invasore, o a rivolte sociali, non ebbe rapporti
con altre bande impegnate a scacciare i
piemontesi dai paesi e a difenderli come fecero altre bande a
Spinello, a Cotronei, a Caccuri e in altre decine di comuni calabresi,
anzi il Monaco pare sia stato sospettato anche di rapporti non proprio
limpidi e di collaborazione con i piemontesi e forse perfino con lo
stesso Fumel che poi gli darà una caccia spietata.
Il maggiore Fumel
L’ipotesi è avanzata da Peppino Curcio nel suo pregevole libro
Ciccilla il quale fa rilevare che il Monaco, fino al maggio del 1862
non era accusato di altri reati oltre a quello di diserzione, ma che,
qualche anno dopo, dalla testimonianza di Achille Mazzei, un cittadino
di Santo Stefano di Rogliano che fu sequestrato dalla banda Monaco,
emerge che il brigante e il suo fido braccio destro Salvatore De Marco,
alias Marchetta, erano gli autori del fallito sequestro dei fratelli
Domenico e Marco Spadafora conclusosi tragicamente con la morte di
quest’ultimo. Poiché i fratelli vittime del tentativo di sequestro
erano noti filo borbonici e il Monaco latitante era allora in attesa
del perdono che gli era stato promesso in virtù dei suoi trascorsi
garibaldini e dell’eroismo col quale si era battuto a Capua e sul
Volturno tanto da essere stato nominato sottotenente, si
pensa che il delitto, potrebbe essergli stato commissionato dalle
stesse autorità piemontesi, ipotesi avanzata anche da Alessandro Dumas
che in un articolo de L’Indipendente del 4 novembre 1963 tira fuori
la storia dell’uccisione, da parte della banda Monaco, del brigante
Leonardo Bonaro, capo di alcune bande legate al generale Borges
autore di un tentativo disperato quanto velleitario di liberare il
Regno delle due Sicilie dai piemontesi facendo insorgere le popolazioni
e grazie all’appoggio di una serie di bande di briganti calabresi.
Anche questo delitto, si pensa, potrebbe essere stato commissionato al
Monaco dalle autorità piemontesi, forse dallo stesso Fumel che poi
farà di tutto per catturare e uccidere il Monaco e sgominare la sua
banda. Se tutto ciò fosse
vero ci troveremmo di fronte all’ennesimo episodio di connivenza e complicità,
a un patto scellerato tra la mala vita organizzata, personaggi occulti
e misteriosi, servizi segreti e
apparati dello stato dei
quali è costellata la storia d’Italia. D’altra parte non ci
sarebbe tanto da stupirsi dal momento che i patti occulti, i misteri
insoluti, le stragi iniziarono con il misterioso sbarco a Marsala di
mille invasori senza che nessuno li contrastasse, anzi con l’appoggio
di una potenza straniera, continuarono col naufragio dell’Ercole con
conseguente sparizione del rendiconto di Ippolito Nievo sulla
spedizione dei mille, con lo scandalo della banca romana, col
misterioso rifiuto di Vittorio Emanuele di firmare lo stato d’assedio
il 28 ottobre del 22, con lo
scandalo Lockheed e il
misterioso Antilope Cobler, con piazza Fontana, con la morte di
Pinelli, la vicenda di Ustica e del mig libico, la presunta trattativa
stato – mafia del 1992.
Quel
che è certo, comunque, è che il Monaco non ottenne il perdono per la
renitenza alla leva, è tutto ciò che si aspettava, anche perché con
l’omicidio della sorella Teresa, amante del marito, Maria, la moglie,
fu costretta a darsi alla macchia e a raggiungere il marito e il resto
della banda nei boschi per sfuggire i rigori della legge. A quel punto
il destino dell’uomo era segnato e non gli rimaneva che fare il
fuorilegge a vita. Iniziò da allora una lunga serie di delitti
efferati: sequestri di persona, ricatti, minacce, grassazioni,
estorsioni, omicidi che fanno di lui uno dei più pericolosi criminali
della Calabria. Egli e la sua banda non parteciparono mai a episodi di
banditismo politico a favore dei borbone, anche
se, ovviamente, essendo braccato dalle forze dell’ordine
del nuovo regime che proteggevano i ricchi vecchi e nuovi saliti
sul carro del vincitore anche da antiche vendette che il bandito e i
sui accoliti mettevano o tentavano di mettere a segno, la sua attività
criminale potrebbe a volte apparire filo borbonica. In realtà Pietro
Monaco fu ugualmente nemico dei vecchi e dei nuovi governanti e ciò lo
indusse a combattere una sua personale guerra contro le autorità
civili e militari e contro i signori del luogo spesso ritenuti i
responsabili di tutti i suoi guai. In lui e nella sua banda non vi fu
mai nulla di eroico, di romantico; mai un barlume di grandezza, di
impegno sociale, ma solo ferocia. Se ne accorse anche Alessandro Dumas,
accorso dalle nostre parti attratto
dalla fama del brigante inafferrabile. Evidentemente, come ipotizza
Peppino Curcio nella sua monumentale biografia su Ciccilla, vuole
utilizzare questa figura per creare il personaggio letterario del
brigante buono, che combatte l’ingiustizia, che si batte per la
povera gente. Da qui la stesura di un racconto dal titolo “Pietro
Monaco, sua moglie Maria Oliverio e i loro complici”, ma man mano che
procede nella stesura si rende conto che nel Monaco non v’è alcuna
scintilla di bontà per cui, profondamente deluso, abbandona l’impresa
e riprende e riadatta figura di un fuorilegge buono del XIV secolo che
ruba ai ricchi per dare ai poveri e combatte ingiustizie e prepotenze
che opera non nella boscaglia silana, ma nella foresta di
Shervood, non contro la Guardia nazionale e i soldati di Fumel, ma
contro gli sgherri dello sceriffo di Nottingham . Nasceva così Robin
Hod.
Niente di romantico nemmeno nella morte di questo
terribile, misero, meschino bandito, se non la solita squallida,
torbida vicenda italiana che si ripete sempre uguale, da Pietro Monaco
a Salvatore Giuliano, ad alcuni capi mafia o delle sedicenti Brigate
rosse. Tre banditi della sua comitiva, Salvatore De Marco, alias
Marchetta, già braccio destro del capo, Vincenzo Marrazzo e Salvatore
Celestino a un certo punto decisero di staccarsi dalla banda e di
presentarsi alle autorità, ovviamente approfittando anche di quei
pochi provvedimenti di favore previsti dall’infame legge Pica per chi
si costituiva e denunciava e faceva catturare o uccidere altri
briganti. I tre quindi prendono contatto col generale Giuseppe Sirtori,
ex prete, capo di stato maggiore garibaldino, poi generale dell’esercito
italiano che il 1 settembre del 1863 fu nominato plenipotenziario per
la lotta al brigantaggio nella zona di Catanzaro. Poiché i tre, tutto
sommato, non dovevano poi essere delle aquile, come dimostrano
nella tragica notte dell’uccisione del loro capo,
probabilmente si rendono conto di non essere in grado di far fuori la
banda, se non in maniera subdola e senza eccessivi rischi per cui
decisero di ricorrere al veleno. Il piano fu sottoposto al Sirtori che,
però, almeno da quanto egli stesso afferma, si rifiutò di avallarlo,
anzi lo riprovò. Noi abbiamo molto dubbi in proposito, anche in
considerazione del fatto che nel corso del suo mandato riuscì a
inimicarsi molti notabili locali, che
pure non erano certamente amici dei briganti, che lo criticarono
ferocemente costringendolo alle dimissioni. Comunque, secondo le fonti
ufficiali, il Marrazzo riuscì ugualmente a procurarsi della stricnina
che versò nell’acqua che la banda avrebbe dovuto bere , prima di
correre a mettersi al sicuro presentandosi alle autorità.
Il generale Sirtori
Monaco, la moglie e i compagni rimastigli fedeli,
però, non ebbero alcun danno dal veleno del Marrazzo, non si
capisce bene se perché inefficace o perché non bevvero l'acqua
avvelenata per cui De Marco e Celestino cambiarono
piano e la notte del 24 dicembre del 1863, mentre il capo dormiva in
una casella assieme allo stesso De Marco, alla moglie Maria Oliverio
detta Ciccilla, al cugino Antonio Monaco e al cognato Raffaele
Oliverio, gli esplosero contro a tradimento una fucilata che lo uccise
sul colpo e ferì Ciccilla a un polso, poi, non avendo il coraggio di
affrontare anche i due parenti del morto, si diedero a una fuga
precipitosa inseguiti dai tre che gli spararono contro alcune fucilate
senza tuttavia colpirli.
Pazzi di rabbia i tre congiunti rientrarono nella casello
e constatato che il capo banda era morto, gli recisero il capo per
evitare che cadesse nelle mani dei soldati e della Guardia nazionale
che ne avrebbe fatto scempio e lo bruciarono nel cavo di un castagno
lì vicino, poi si diedero alla fuga per evitare la cattura.
Una
domanda che mi sono posto più volte è come mai De Marco, Marrazzo e
Celestino, che incontravano quando e come volevano le autorità
militari e i capi della guardia nazionale abbiano voluto procedere
direttamente all’eliminazione del loro capo, con tutti i rischi
connessi e non si siano, invece, limitati a svelare il nascondiglio
lasciando che a sgominare la banda fossero le forse dell’ordine.
A meno che qualcuno non avesse voluto escludere la possibilità di
catturare vivo un fuorilegge che avrebbe potuto svelare segreti che
tali dovevano rimanere. Ciò potrebbe avvalorare la tesi di una inziale
collaborazione con i piemontesi per far fuori briganti e agitatori filo
borbonici, un affare poco limpido del quale nessuno doveva venire a
conoscenza.
La latitanza dei resti della banda durò fino al 9
febbraio del 1864. Fuggiti dalla valle del Jumicellu, il luogo dell’assassinio
del capo, la banda si diresse verso sud est fino a raggiungere il
territorio di Caccuri. Intanto al gruppo, che aveva trovato rifugio in
due piccole grotte nel bosco di Casalinuovo in località Serra del
bosco del comune di Caccuri, si
erano aggregati anche i briganti Pasquale Gagliardi e Ludovico Russo
detto Portella.
Mi sono chiesto più volte come abbia fatto la banda
a scovare queste grotte e questa località che si trova a molti
chilometri di distanza dai luoghi solitamente frequentati dalla
comitiva e comunque teatro di scorribande di altri briganti.
Evidentemente ci furono delle complicità.
Comunque anche la cattura di Ciccilla e dei resti della banda
Monaco fu, ancora una volta, il prodotto di un tradimento.
Questa volta a
vendere ai piemontesi Ciccilla e i suoi fu il brigante Giuseppe
Iaquinta, forso lo stesso che aveva insegnato loro il nascondiglio.
Iaquinta avvisò il comandante del 37° Reggimento Fanteria della
Brigata Abbruzzi di stanza a Petilia Policastro della presenza dei
briganti a Casalinuovo. A
questo punto scattò la trappola che impegnò molti uomini al comando
del sottotenente Ferraris e del capitano Baglioni i quali circondarono
le grotte tagliando ogni via di fuga alla banda intrappolata in quei
piccoli pertugi.
Vistisi persi i briganti ebbero una reazione furibonda che
costò la vita ai bersaglieri Giovanni Spagnolini di Fara Novarese e
Francesco Agnolini di Cittaducale e al guardiano di Barracco Michele
Corvino da Lappano,
conoscente di uno dei banditi. Questi a loro volta persero subito il
fratello di Pietro Monaco, Antonio che, gravemente ferito, spirò
dubito dopo e la cui testa,
trapassata dalla pallottola mortale, fu poi recisa e portata a Cotronei
per essere esibita al giudice e Pietro Gagliardi.
Ubicazione della
grotta ultimo rifugio di Ciciclla
Nonostante le perdite, Ciccilla e i due superstiti
resistettero ancora per una notte, poi al mattino si arresero, furono
arrestati, condotti Cotronei
e quindi a Catanzaro per il processo. La brigantessa fu condannata a
morte, pena poi commutata in carcere a vita pare su richiesta del
generale Sirtori e che
scontò nel carcere fortezza di Fenestrelle.
Purtroppo le grotte, sul versante sud di Serra del Bosco, nei
pressi di un’antica chiesuola a ridosso dell’abitato di Santa Rania
e in faccia a Cotronei, crollarono a
seguito dell’alluvione del 1972 e la zona è attualmente
ricoperta da una intricata vegetazione che ne impedisce l’accesso.
Ciccilla dopo la cattura (più che una spietata brigantessa nella
foto dà l'idea di una ragazza che si trova a vivere avvenimenti più
grandi di lei dei quali ingenuamente si compiace)
Abbiamo già detto di come non ci fosse niente di
romantico nella figura di Pietro Monaco, un bandito efferato che agì
sempre, probabilmente, spinto
da un feroce rancore nei confronti di coloro i quali riteneva i
responsabili dei suoi guai o, comunque, vicini o membri di quelle
famiglie più rappresentative dei ceti dominanti, sempre le stesse,
sotto i borboni prima,
sotto i savoia poi. Più
complessa, ci sembra invece la figura di Ciccilla, vittima,
probabilmente, di una mitizzazione che la fa apparire come una donna
violenta, sanguinaria, priva di un briciolo di umanità e capace di
qualunque misfatto. A cominciare dall’accusa di aver reciso e
bruciato ella stessa la testa del marito, operazione che non avrebbe
mai materialmente compiere con un polso trapassato da una pallottola,
con una ferita così grave che si trascina dietro fino al giorno della
cattura nelle grotte di Caccuri. Le visite mediche eseguite dai medici
militari su incarico delle autorità evidenziarono, infatti la frattura
di entrambe le ossa del polso. In realtà molte testimonianze, anche
nel corso del processo, inducono a rivedere i giudizi trancianti che
spesso sono stati espressi nei confronti di questa che, all’età di
17 anni, ancora bambina, sposa un uomo che si rivelerà poi crudele e
sanguinario e che ha da tempo una tresca con la sorella Teresa, donna
sposata e molto chiacchierata. Il marito, che ha all’epoca anch’egli
21 anni, tenterà più
volte pare di ucciderla, forse su istigazione della sorella.
Quando il Monaco, al rientro in paese dopo la parentesi
garibaldina si rese conto che le promesse del nizzardo sulla
concessione delle terre e sugli usi civici erano solo fumo e si
ritrovò, fra l’altro, chiamato ad assolvere il servizio di leva,
nonostante lo avesse già assolto sotto i borboni e avesse combattuto
con Garibaldi, si diede alla macchia, Maria dovette subire anche il
carcere nel quale fu rinchiusa assieme alla sorella Teresa dal maggiore
Fumel che, conoscendo i legami di Pietro con la moglie e la cognata,
voleva, attraverso questa detenzione, indurlo a consegnarsi alle
autorità secondo la versione ufficiale, ricattarlo e utilizzarlo per
sbarazzarsi di pericolosi briganti reazionari secondo sospetti molto
diffusi.
Questa detenzione si rivelò determinante nello spingere
Ciccilla sulla via del crimine in quanto contribuì a deteriorare
ulteriormente i rapporti
con la sorella. Il suo destino si decise definitivamente il 28 maggio
1862 quando, prima che sorgesse l’alba, uccise la sorella con 48
colpi di accetta. La sera prima pare fossa stata vittima di un nuovo
tentativo di uxoricidio. Compiuto l’orrendo crimine, Maria veste in
nipotini oramai orfani, li prende in braccio e li consegna a sua
suocera pregandola di badare ai poveri orfanelli, poi fugge di casa e
raggiunge il marito alla macchia. Il Monaco vedendosela comparire
davanti e saputo dell’omicidio della sorella, sta per ucciderla, ma
ne è impedito dal De Marco (Marchetta). Da quel momento inizia,
probabilmente, una difficile convivenza tra Ciccilla, e il violento
marito che probabilmente la odia per avergli ucciso l’amante e
perché la ritiene fedifraga.
L’efferatezza del crimine farebbe pensare a una donna
sanguinaria, spietata, fredda, anche perché, probabilmente, così
ebbero interesse a descriverla i suoi nemici, ma in realtà, da
numerose testimonianze anche nel corso del processo dopo la cattura,
pare che così non fosse e che anzi si trattasse, tutto sommato,
di una donna fragile invischiata, suo malgrado, in vicende troppo
drammatiche che la stritolarono inesorabilmente. Non dimentichiamo che
all’epoca dei fatti ha solo 21 anni e alle spalle una vita di
violenze, minacce, umiliazioni, delusioni cocenti che avrebbero
travolto anche una persona di saldi principi.
A parte la favola di una Ciccilla fredda e spietata che,
con un polso fracassato da una pallottola recide il capo del marito,
diversi documenti e testimonianze ci presentano una Ciccilla poco
sanguinaria e molto più umana. I giudice di Spezzano Grande, per
esempio, conclude così la sua istruttoria: “Buona
l’indole di Maria, pessima quella di Teresa.”
Anche il prete del paese parlò di ottima indole di Maria e di una
Teresa perversa, mentre la testimonianza della filatrice
Maria Rosa Principe ci svela il perché i rapporti tra le due
donne si deteriorarono irrimediabilmente durante la latitanza del
marito e quale potrebbe essere stato il movente del tentato omicidio
della moglie la sera prima. Pare, infatti che Teresa abbia fatto
credere all’amante cognato che la moglie, durante la detenzione nelle
carceri di Celico disposta da Fumel, lo avesse ripetutamente tradito.
La stessa Principe si premura di sottolineare la bontà d’animo di
Maria e la perversità della sorella , così come fanno tante altre
testimoni.
A
questo punto siamo portati a concludere che Ciccilla, pur essendosi
resa protagonista e complice di gravissimi misfatti, fu, tutto sommato,
vittima di un marito folle e criminale e degli sconvolgimenti politici
e sociali del tempo.