Il sacco di Cotronei e altri episodi briganteschi

    
                                                       

Nei primi mesi del 1861 la lotta di resistenza anti piemontese in Calabria e nel Crotonese aveva raggiunto un livello di intensità altissimo.  Già nel mese di gennaio si ebbe una rivolta dei cittadini di San Giovanni in Fiore che, esasperati dalla carenza di sale, tentarono inutilmente di approvvigionarsi di questo prezioso minerale nelle saline (cave di salgemma) di Vasalicò e del fiume Neto, ma vennero respinti dagli squadroni della Guardia nazionale del paese silano che si spostavano spesso nel territorio di Caccuri e dei paesi vicini per dare ma forte all’esercito nella sua opera di repressione. Intanto sul monte Giumella e in contrada Acquafredda operava il noto fra Clemente da Sersale che, proprio ad Acquafredda, riuscì a organizzare una riunione di capi briganti per coordinare una eventuale insurrezione. I tenenti dei carabinieri Leopoldo Bianchi e Antonio Ripoli, informati della cosa, gli diedero una caccia spietata e, la notte del 28 gennaio riuscirono a intercettarlo a Gimmella, anche se non si accorsero che si trattativa proprio del noto ricercato, ma il religioso, riuscì a beffarli e a evitare la cattura, cosa che invece riuscì un mese dopo al capitano Cardamone che gli diede la morte. [1]

Acquafredda

Due giorni dopo, secondo l’allarmata comunicazione del comandante della Guardia nazionale di Caccuri a quello di San Giovanni in Fiore, “una grossa banda di ladri e reazionari era penetrata nel territorio di Caccuri” e si era rifugiata nelle contrade di Arghili e Vattinderi.
   Gli episodi di rivolta nella zona si protrassero per tutta la primavera anche dopo la morte di fra Clemente, soprattutto a opera della banda Gallo, anche perché il raddoppio della tassa sul macinato toglieva ai poveri perfino il pane che era il principale se non l’unico alimento delle classi meno abbienti.  I briganti ricorrevano spesso alla pratica dei biglietti estorsivi per autofinanziarsi, a volte in nome di Francesco II, altre volte a nome proprio. Destinatari di minacce e tentativi di estorsioni erano quasi sempre i signori, i latifondisti i gli agrari filoborbonici fino all’anno prima, ma poi saltati immediatamente sul carro dei vincitori e, per questo, sempre saldamente in  sella nella gestione del potere politico, militare ed economico.  Con la proclamazione del Regno d’Italia, infatti, per le classi povere non era cambiato niente, a parte l’inasprimento delle tasse e l’odiosa leva obbligatoria, mentre le terre, le ricchezze e il potere erano rimasti nelle mani dei vecchi baroni e dei nuovi ricchi borghesi che si preparavano ad accaparrarsi altre terre demaniali svendute per arricchire il nuovo stato e, quindi il nord dove veniva trasferita quasi tutta la ricchezza. Per questo i briganti erano tornati alla loro disperata rivolta contro i padroni di sempre e contro i nuovi regnanti che questi padroni tutelavano ancor meglio dei Borbone che pure avevano tentato più volte, forse un po’ timidamente, di contrastarne la voracità. Furono forse proprio questi timidi tentativi della monarchia napoletana a innescare in passato a innescare rivolte fomentate dai ricchi che sapevano  abilmente strumentalizzare i poveri come capirono troppo tardi i braccianti  che avevano entusiasticamente accolto Garibaldi e che a Bronte provarono la ferocia spietata di Bixio.  Fu la rabbia contro i ricchi e i prepotenti assieme alla miseria vecchia e nuova a far sì che i  briganti, spesso combattessero non tanto per riportare sul trono i vecchi regnanti, quanto per cercare di riuscire in qualche modo a migliorare le loro misere condizioni di vita.  A questo proposito si racconta si un avvocato campano che, sequestrato a una banda di briganti, per ingraziarsi il loro capo, si dichiarò di fede borbonica, ma uno dei fuorilegge gli rispose: “Ma come, sei un avvocato, una persona istruita e credi davvero che noi fatichiamo per Francesco II?”

   Nel giugno del 1861 si ebbe una ulteriore recrudescenza delle lotte. Il giorno 26 un nutrito gruppo di combattenti con a capo Marco Berardi, alias Filicione occupò Cotronei dove i briganti sottrassero al cassiere comunale Fabio De Luca la somma di 900 ducati. Mons. Domenico Sisca nel suo pregevole libro “Petilia Policastro” parla di 3.000 ducati, dei quali 1.000 che appartenevano alla cassa comunale, ma probabilmente i 900 ducati furono quelli che il capitano della 4^ compagnia, accorso prontamente a Cotronei, non riuscì a recuperare e che rimasero in mano al Berardi. Nell’occasione Filicione, dopo aver minacciato il sindaco e il comandante della guardia nazionale del paese, appiccò il fuoco alla casa del De Luca utilizzando delle fascine che le donne del paese, che avevano preso parte al saccheggio, avevano raccolto nel vicino bosco. [2]
   Il Berardi lo ritroveremo qualche settimana dopo a Belvedere di Spinello alla testa di un’altra rivolta che, come vedremo, si concluderà con la conquista del paese da parte dei piemontesi e l’incendio di alcune case.
   Molte erano le bande più o meno organizzate che operavano in una vasta zona compresa tra le attuali province di Catanzaro e Crotone che fra Clemente, Luigi Muraca  e altri agitatori cercarono, quasi sempre con scarsa fortuna, di coordinare e contro le quali si scatenò la feroce repressione dell’esercito piemontese e della guardia nazionale che aveva sostituito la vecchia guardia urbana, un corpo, come quello di epoca borbonica, anch’esso  composto spesso di manutengoli dei baroni e degli agrari.
   Tra le bande più attive si segnala  quella di Luigi Muraca che dopo aver occupato Albi emanò un proclama col quale invitava “i popoli della Calabria a indossare le armi e seguire il restauratore dei loro diritti conculcati.” [3]
   Nel mese di luglio colonne dell’esercito e guardia nazionale erano impegnate a domare le rivolte di Caccuri, di Belvedere Spinello e di Altilia.  A Caccuri, come abbiamo avuto modo di scrivere in altre occasioni, la rivolta fu domata più o meno facilmente dalla guardia nazionale del paese supportata da quella di San Giovanni in Fiore e dalla colonna mobile del tenente Magni, mentre a Belvedere di Spinello la resistenza fu maggiore, anche se velleitaria. Tre colonne mobili dei tenenti  Magni, Santangeli e Gucciarelli, al comando del capitano Antonio Marra, dopo aver aggirato lo schieramento dei difensori attestati sul cocuzzolo sul quale si erge Belvedere, penetrarono in Spinello sbucando da dietro la chiesa , ne scacciarono i pochi difensori e incendiarono alcune case a cominciare da quella del principe Giannuzzi Savelli. Più tenace risultò, invece, la resistenza di Cotronei dove il 14 luglio erano scoppiati nuovi tumulti. I soldati inviati a sedare la rivolta al comando del capitano Novelli che si avvaleva della collaborazione di manutengoli caccuresi furono respinti e costretti a ripiegare su Caccuri da dove il comandante chiese aiuto ala Guardia nazionale di San Giovanni in Fiore. La presenza di una ventina di “eroici patrioti caccuresi”, mie concittadini all’assedio della vicina cittadina messi in fuga dai vicini cutrunellari e costretti a far ritorno precipitoso e inglorioso al loro paese mi fa tornare alla mente l’episodio di Leònida alle Termopili con “la spada di libero pugno” che “ è saetta di Giove tonante” e il “pugno di servo tremante” nel quale “come canna vacilla l’acciar.”
   
L’inattesa resistenza e la partecipazione attiva della popolazione alla difesa del paese provocarono le ire delle autorità al servizio dei nuovi padroni e dei baroni locali. Ecco come il rampollo di una nobile famiglia locale dava disposizioni e consigli ai militari su come sorprendere i difensori di Cotronei e punirli severamente:

Cotrone lì 8 Luglio 1861

Gentilissimo Sig. D. Salvatore

Mi perviene la Vostra della data di ieri scrittami da Caccuri, colla quale mi manifestate l'oggetto della vostra difesa in detto Comune e non saprei lodare abbastanza la vostra energia e l'opera utilissima che avete compiuto correndo al primo annunzio d'un fatto perversivo, il quale per opera vostra speriamo che non abbia seguito. Ho saputo che verso sera della giornata d'ieri un distaccamento di truppa sia pure arrivato in Caccuri, e credo che vi sarete messi di accordo per procedersi all'arresto di coloro che sono stati autori dello innalzamento del vessillo dei ladri.
Con dispiacere questa mattina è arrivata qui notizia confusa di una aggressione di molti briganti sul Comune di Cotronei ove sento che si trovava altro distaccamento di truppa. Certamente un tal fatto ha dovuto arrivare in vostra conoscenza ieri medesimo o questa mattina e son sicuro che con quell'attività che vi distingue e di cui avete dato prova unendovi al distaccamento che è in Caccuri, vi sarete diretti sopra la detta orda  di briganti che minacciava Cotronei ed i pochi soldati che vi erano. E qualora a causa di notizie ritardate non lo abbiate fatte fin'ora, vogliate vi prego dar questo luminoso esempio a tutte le Guardie Nazionali delle Calabrie piombando con forze competenti per la via di Pasquale alle spalle  degli scellerati, mentre vari distaccamenti mossi a quest'ora da vari punti del distretto verso Cotronei, darebbero l'opportunità a voi ed a loro di circondare la masnada, Vi accarto  lettera di questo Sig. Intendente. Vista la vostra attività e i servizi che state rendendo al Governo e all'ordine pubblico, sento l'obbligo di coscienza di scriverne con quest'ordinario a Torino, incaricando mio fratello di riferire tutti i  fatti al Ministero dell'Interno.
Pieno di stima e di amicizia mi dichiaro al solito

                         Và obbli.mo A° e S°

                               F. Barracco “ [4]

 

   Veramente istruttiva la lettera di questo esponente della famiglia Barracco che definisce “il vessillo dei ladri” la bandiera duo siciliana, cioè la bandiera di uno stato aggredito, sottomesso e saccheggiato e che loda a dismisura il capo dei gendarmi impegnato contro i partigiani resistenti, promettendogli,  più o meno esplicitamente, probabili ricompense, quanto meno morali, grazie all’interessamento del fratello evidentemente di casa al ministero dell’interno.
   Cotronei comunque, tra alterne fortune, tenne in scacco i piemontesi per quasi un anno, poi capitolò definitivamente e subì la stessa sorte di Pontelandolfo, di Casalduni e di altri paesi del vecchio Regno delle due Sicilie mentre la popolazione cercava scampo nella chiesa di San Nicola. A seguito di quell’evento molte famiglie di Cotronei si trasferirono nella vicina Petilia. [5]

    
                                       
Cotronei -  Chiesa di San Nicola

   Da segnalare, in quell’infuocato luglio del 1861, un altro episodio di sangue che si verifico nel cuore della notte del 16 quando i rivoltosi caccuresi sorpresero e massacrarono le guardi doganali Celestino Cefalone, Antonio Papa, Angiolillo De Maria e Michele Addari. [6]
   Al bastone  dell’esercito e della guardia nazionale i piemontesi alternarono la carota delle amnistie concesse a chi si presentava spontaneamente e magari denunciava i compagni di lotta, come quella del generale Della Chiesa nell’agosto del 1861 e di Cialdini nel successivo mese di settembre che provocarono la resa dei briganti caccuresi Vincenzo Mancuso, Rocco e Gabriele Perri, la prima, e di Filippo Squillace la seconda.
   Repressione, rappresaglie, fucilazioni, processi anche a minori non riuscirono, comunque, a domare rapidamente la rivolta delle popolazioni meridionali tanto che ci vollero quasi dieci anni per avere ragione della resistenza duo siciliana. Già nel secondo anno di guerra dati ufficiali di parte piemontese parlarono di 37 paesi rasi al suolo, 15.665 fucilati, e di 20.000 caduti in combattimento nel solo 1862. Pare che lo stesso Vittorio Emanuele prese in considerazione l’ipotesi di abbandonare le terre conquistate. Le esecuzioni sommarie, le devastazioni, i saccheggi dell’esercito provocarono lo sdegno di Massimo D’Azeglio. Perfino Bixio, la belva di Bronte, in un suo intervento al Parlamento nel 1963 ebbe a denunciare: “Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là, signori, e se volete che l’Italia si compia bisogna farla con la giustizia e non con l’effusine di sangue.”
   Fra i briganti, come abbiamo visto, non c’erano solo i partigiani che si battevano contro gli invasori o i criminali che da sempre cercavano ogni occasione buona per far bottino e sopravvivere; in queste orde variegate c’èrano anche uomini dignitosi che si macchiavano di delitti per vendetta contro la tracotanza dei ricchi, i loro abusi, i loro oltraggi come nel caso di Rosario Schipani di Policastro datosi alla macchia dopo aver ucciso, insieme a un amico, il barone Berlingieri, che aveva oltraggiato gravemente il padre, mentre se ne andava a spasso sul suo cocchio in via Poggioreale a Crotone e di altri fieri calabresi vittime della protervia dei padroni.   



[1] G. Marino, Cronache di poveri briganti, Pubblisfera ed. 2003

[2] D. Sisca, Petilia Policastro, tipolitografia MAgraf, rispampa giugno 1996

[3] D. Sisca, op. cit.

 

[4]  Risposta al Comandante della G.N. Salvatore Barberio, Archivio Barberio

[5] D. Sisca ibidem

[6] G.  Marino, ibidem