CURIOSITA' ETNO ANTROPOLOGICHE
di Peppino Marino

                                                 

                                                     UNA PAGINA DI LETTERATURA POPOLARE CACCURESE

  
Caccuri, come molti altri paesi della nostra regione e del Mezzogiorno, ha una ricca letteratura popolare; pagine bellissime di fatti reali romanzati, racconti arguti, leggende e novelle, racconti  didascalici e moraleggianti (i più noiosi).
   Ovviamente io preferisco quelli nei quali trionfa l'arguzia, l'ìntelligenza, la bonomia e la genialità dei nostri antenati, come gli sfottò tra caccuresi e cerentinesi che mettono in evidenza la le capacità letterarie davvero straordinarie  straordinarie, l'autoironia, la calma, serena, amabile grandezza, l'arguzia e la genialità  delle due popolazioni e che, per secoli hanno costituito materia di scherno per centinaia di ignoranti incapaci di cogliere il valore letterario di quei capolavori degni della penna di un Giambattista Basile, di un Giulio Cesare Croce o di un Giovannino Guareschi. 
  Oggi voglio proporvi un raccontino probabilmente romanzato, frutto della genialità di qualche caccurese dei secoli scorsi che ci insegna, senza intenti moraleggianti, il valore della modestia, una virtù scarsamente praticata, specie di questi tempi di schiappe che ricoprono spudoratamente cariche e ruoli di grande responsabilità senza possedere i requisiti minimi finendo, nella migliore delle ipotesi, di coprirsi e di coprirci di ridicolo. Oggi voglio proporvi, appunto,  un racconto probabilmente romanzato, frutto dell'arguzia caccurese. che quasi tutti i miei compaesani conoscono e che non dvee assolutamente cadere nell'oblio .
                                      
                                                                                 
'U SCUPULU

 

   “Te via jire cumu ‘u scupulu e la paletta!” tranquilli, non è una frase tratta da un discorso del nuovo ministro della cultura, ma un antico anatema caccurese che augura a chi ne viene colpito, di non trovare un attimo si riposo. DiffiCile spiegarlo alle giovani caccuresi che ormai non sanno cos’è e non hanno mai visto uno scupulu. Ma cos’era quest’oggetto misterioso? Era Soltanto una rudimentale scopa fatta in casa con materiali autarchici con la quale le nostre nonne spazzavano i poveri vasci e catoji adibiti a cantine e abitazioni.
  A quei tempi la scopa non si comprava al supermercato o dai cinesi: le nostre nonne, quando non avevano sottomano saggina o erica, tagliavano qualche ramo di scupulu (Arthemisia scoparia), lo legavano con un po’ di spago a una canna o a un ramo di nocciolo o più semplicemente di ailanto e avevano la loro bella scopa. Anche per la paletta ci si arrangiava: nella migliore delle ipotesi con una paletta furgiarisca, fabbricata, cioè, da qualche fabbro locale, ma più spesso, con un pezzo di latta ricavato da qualche scatola di sarde salate o di pomodoro inchiodato a un pezzo i legno e con questi semplici, rudimentali strumenti, che adoperavano freneticamente, riuscivano a mantenere puliti e accoglienti quei poveri tuguri nei quali le nostre famiglie erano costrette a vivere a volte anche a convivere con qualche animale domestico come l’asino, ‘u ciucciu, l’amato somarello, a volte più della stessa moglie, dai nostri contadini per il generoso grande contributo che l’animale dava all’economia della famiglia.

                                  MASTRO AGOSTINO E L’AMICO TUTTOFARE



  
Mastro Agostino era un mastro muratore “filosofo”, come ce n’erano tanti agli inizi del secolo scorso, bravi artigiani, ma anche teste pensanti, nonostante il detto popolare attribuisse il cervello fino al contadino.
 
Una volta, spinto dal bisogno dato che in quei tempi cera molta disoccupazione, il bravo muratore,assieme a un  amico, decise di emigrare in America. Giunto negli USA  si presentarono al  boss di un cantiere  per chiedere lavoro, anche eventualmente con  una mansione diversa da quella di muratore. L’impresario, che aveva bisogno di manodopera, ma che non voleva, come suol dirsi, “comprare la gatta nel sacco”, si premurò di accertarsi delle loro competenze e chiese ai due, cominciando dall’amico, cosa sapevano fare.”
  
L’amico di mastro Agostino, che sapeva appena fare il manovale, cominciò ad elencare le sue straordinarie capacità. “So fare il manovale, rispose, il carpentiere, il ferraiolo, lo scalpellino, l’acquaiolo., il maniscalco, il mulattiere, il carrettiere, il carcararo, il fuochino, l’arrotino …...” e avrebbe continuato chissà per quanto se l’impresario non lo avesse interrotto.
  
Bene, disse il padrone, quindi si rivolse a mastro Agostino: “E tu che sai fare?”, gli chiese. “Io, si schernì il mastro filosofo, io non so fare niente, sa fare tutto lui.” Folgorato e divertito dall’arguta risposta, il boss assunse immediatamente mastro Agostino e rimando a casa l’amico che ancora oggi si chiede il perché di una decisione così assurda.

                                                                                          CAPOLAVORI CACCURESI
                                                                                           di Peppino Marino

               

      Passeggiando per il centro storico di Caccuri capita, fortunatamente,  di imbattersi ancor in piccoli capolavori come quelli che si possono ammirare in queste foto molti dei quali risalgono al "Rinascimento caccurese", un fortunato periodo storico - culturale del quale parlerò diffusamente in un  mio articolo nelle prossime settimane, miracolosamente sfuggiti alla "furia iconoclasta" della "modernità, anche grazie alla desertificazione demografica del paese. Si tratta di artistici portali,  finestre, ballatoi e davanzali lapidei, capitelli che li sorreggono, e arredi vari di pregevole fattura. opere della scuola dell'arte della pietra locale che abbondava nei dintorni del paese. L'augurio è che a nessuno venga in mente, come purtroppo è successo spesso in questo martoriato paese, in caso di improcastinabili interventi di manutenzone straordinaria, di sostituirli con chincaglieria e arredi realizzati col pantografo acquistati dal marmista o di deturparli e di rivestire le case che li ospitano di croste e vernici variopinte tipo bancone da gelateria. Si tratta di gioielli sui quali si può e di deve  costruire il futuro turistico - culturale ed economico del paese, un paese del quale i giovani possono e debbono essere orgogliosi Per ciò che ha rappresentato nel corso di oltre 6 secoli e per ciò che ha dato alla storia della Calabria, d'Italia e d'Europa. Un paese che può ancora dare molto a condizione che non spuntino nuovi barbari a devastare ciò che è, fortunatamente scampato alle orde barbariche e che le nuove generazioni riescano a innamorarsi ancora del paese natale e a preservarlo da ogni vandalismo, anche d"istituzionale." 
  

 

                                                                                                      SCHERZUCCIO
                                                                                                     di Peppino Marino


                                                               

Un populu
diventa poviru e servu

quannu ci arrubbanu 'a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.

(Ignazio Buttitta)
 
  
Ho sempre amato questa bellissima poesia dell'immenso Ignazio Buttitta, il poeta di Bagheria che ha tradotto in versi dialettali un secolo di vita sociale, politica, culturale della Sicilia, il disagio sociale, economico, di lotta ,  l'emarginazione, la lotta delle classil riscatto economico e sociale, partigiano socialista, amico di Quasimodo e di Vittorini, autore tra l'altro, della raccolta Lu trenu di lu suli,  e del celebre Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali la stupenda ballata che racconta l'uccisione da parte della mafia di un giovane sindacalista socialista, magistralmente interpretata dal cantastorie Ciccio Busacca e ripersa anche dal maestro Profazio e di altre  racclote, come  La peddi nova (1963), La paglia bruciata (1968), Io faccio il poeta (1972), nonché del poemetto La vera storia  di Salvatore Giuliano.

  PROPRIO PERCHé NON VOGLIO CHE IL MIO POPOLO DIVENTI POVERO E SERVO, CERCO, NEL MIO PICCOLO, DI CUSTODIRE E TRAMANDARE LA LINGUA DEI PADRI, IL NOSTRO BELLISSIMO DIALETTO ARCAICO, UN PATRIMONIO INESTIMABILE CHE RISCHIA DI ANDARE PERDUTO, ANCHE ATTARVERSO POVERI VERSI COME QUELLI DI QUESTO MIO  SCHERZUCCIO. VI PREGO DI NOTARE LA BELLEZZA, LA POTENZA EVOCATIVA, E DESCRITTIVA DI ALCUNI SOSTANTIVI E AGGETTIVI COME JIPPARELLU, ACCIPPATELLU, BABBARELLU, GRATTAPUNE,  CHE ORMAI SOLO POCHI VECCHI COME ME RICORDANO ANCORA. 


                                                             
C’era ‘nu quatrarellu
‘nu pocu accippatellu
supra ‘nu timparellu
c’avia nu jipparellu
paria ‘nu babbarellu.
Avia ‘nu copparellu,
‘na palettella rutta,
‘ncoppava la terra asciutta
e la mintia’ ‘ntru coppu.
Passa ‘nu cristarellu
vulannu ‘ntra lu celu,
vira lu guagliunellu
 e si ce fruga ‘ncollu.
Però ‘nu canicellu
zumpa re lu munzellu
‘e terra llà vicinu,
se lanza cu ‘nu lefantu
contra lu malua ggellu
e cu’ ‘nu muzzicune
 ‘u jetta ‘ntru grattapune.
E’ sarbu ‘u piccirillu
cuntentu ‘u canicellu
se serari a cullura
e jocari la cura.

 

 

 

                                                                          UN Pò DI STORIA DELLE PIAZZE CACCURESI     

 

Ecco una bella immagine di piazza Umberto I, l'unica vera piazza caccurese, almeno la sola definita anche ufficialmente piazza, fino alla metà degli anni 20 e 70 del secolo scorso quando sorsero l'ex piazza Annunziata (nni 70) e  l'ex piazza Vittorio Veneto (anni 20) quest'ultima "morta ancora prima di nascere". Quella che, infatti, chiamiamo comunemente piazza, storicamente, infatti, non fu mai una piazza, ma una strada di transito per entrare in paese. Il sito, infatti, che non ha mai avuto una intitolazione ufficiale per cui chiamarlo piazza Umberto è un'abitudine, un vezzo di alcuni nostri concittadini che non ha alcun fondamento storico - amministrativo. Il luogo comunemente definito "piazza", in questi mesi oggetto di lavori di sistemazione, era individuato, infatti, col toponimo di Porta Grande perché vi si apriva la porta più grande e importante di accesso al paese attraverso la cinta muraria che ne faceva un castrum (da non confondere con castello), cioè una cittadina cinta di mura e fortificata. Attraverso la porta grande che si apriva più o meno tra la casa di Peppino Falbo (Iaconis) e la rampa di accesso ai Mergoli, entravano in paese le merci ingombranti quali i materiali di costruzione (pietra, calce, travi in legno a altri ingombranti). nei pressi della porta, all'interno delle mura, fino all'Unità d'Italia, sorgeva la caserma della guardia urbana, l'antica polizia locale borbonica. Quindi non piazza, ma strada i accesso. D'altra parte, anche a lume di logica si comprende che i nostri antenati non avrebbero mai costruito una piazza al di fuori delle cinta muraria. L'unica piazza, dunque, era la piazza Umberto I, la cui intitolazione, ovviamente, risale agli anni dopo il 1878, quando il figlio di Vittorio Emanuele II salì al trono del Regno d'Italia". Per il resto all'interno del paese c'erano alcuni slarghi come quello del pizzetto, quello davanti il palazzo De Franco (attuale largo Vincenzo Ambrosio) nell' antica via Principe di Napoli, poi via Buonasera, il largo Misericordia, il Vincolato e la salita castello, ma nessuno di questi luoghi fu mai definito ufficialmente piazza. Poi, negli anni 20 del Novecento i reduci combattenti della Grande Guerra costituitisi nella Lega combattenti reduci che aveva tra i dirigenti i popolari Giuseppe Sabatino Pitaro, ex sacerdote sturziano, il fabbro Peppino Gigliotti, Vincenzo Militerno, Pietro De Mare e Enrico Pasculli (padre) e Vincenzo Lacaria (Dermonno) , promossero la nascita del rione Croci secondo il piano regolatore redatto dl geometra cav. Raffaele Ambrosio che prevedeva strade di 8 metri e traverse ortogonali di 6 m., destinarono uno spazio adeguato tra le vie Sabotino e Vittorio Veneto dove doveva sorgere la seconda piazza caccurese per erigervi anche il monumento ai caduti. Purtroppo, nei primi anni 50 del secolo scorso, nel centro di quella che doveva essere la piazza un cittadino costruì incredibilmente un'abitazione privata e ci giocammo la seconda piazza.
   Piazza Umberto risveglia in me tantissimi ricordi tra i quali il mio primo comizio di una decina di minuti agli inizi in un sera di maggio del 1972 quando il compagno farmacista Emilio Sperlì, mi obbligò a salire all'improvviso vigano che si vede nella foto e che dava accesso al vecchio negozio del compaesano il compaesano Salvatore Gigliotti per presentare l'onorevole compagno Giovanni Lamanna che si presentava per la seconda volta al Parlamento. Ricordo l'emozione di quella sera, il disperato tentativo di sottrarmi all'obbligo e l'inflessibilità di Emilio Sperlì, Cercai di preparami mentalmente un piccolo intervento. Erano gli ultimi anni dell'odiosa guerra del Vietnam e alla mente affluivano le canzoni di Bob Dylan. di Joan Baetz, la stupenda C'era un ragazzo di Franco Migliacci cantata da Gianni Morandi e a quei tempi si leggeva quotidianamente l'Unità e si seguivano radio e telegiornali che davano notizie della guerra e delle proteste dei giovani di tutto il mondo per cui fu facile imbastire un comizietto di politica estera. L'emozione, comunque mi bloccava per cui corsi al bar dove il compianto Genio mi servì un wisky che risolse il problema facendomi fare la mia bella figura e iniziare una nuova carriera di comiziante. Tempi belli, se non altro per i miei 22 anni.




                                                  ORTO BOTANICO DI ZIFARELLI  


Primavera d'intorno brilla nell'aria e per li campi esulta.

Dall'orto botanico de L'Isola Amena di Zifarelli per il momento è tutto. Buona Pasquetta agli amici visitatori. 

 

 

                                                                    TRENE, ZIRRI E TIRITOCTE

   Nella Caccuri si sessanta - settanta anni fa in questo ultimi tre giorni della Settimana Santa si adoperavano molto spesso due verbi riferiti ai riti della passione: ammutare e sparare. Ammutare, in italiano ammutolire, era riferito alle campane delle chiese che la notte del Venerdì Santo cessavano di suonare in segno di lutto per la morte di Cristo; altrettanto sparare che indicava l'allegro scampanellio alla mezzanotte del sabato per annunciare al mondo la resurrezione del figlio di Dio.   Il rispetto per questa tradizioni era cos' sentito che per evitare che qualcuno inciampasse nella corda della  campana e farla suonare accidentalmente, il sagrestano fasciava con uno straccio il battaglio.
   Quando le campane ammutavano era la volta di "trene", "zirri e "tiritocte" a scandire i riti della Passione. A dire il vero ragazzi e fanciulli si scatenavano già qualche giorno prima e le vie del paese, soprattutto quelle del rione Croci,  a quei tempi costituito da una trentina di case, rimbombavano per il frastuono di questi strumenti di legno fabbricati dagli antichi falegnami caccuresi.
   'A trena era una cassetta di legno sulla quale veniva montata una manovella che azionava tre o più martelletti di legno che battevano alternativamente sul coperchio della cassetta producendo un suono cupo e continuo che si sentiva anche da molto lontano. I ragazzi la poggiavano per terra appoggiandovi sopra il ginocchio e azionavano la manovella godendosi quel gioso frastuono. U zirru era un piccolo parallelepipedo di legno vuoto all'intermo nel quale una piccola manovella sulla quale era montata una ruota dentata che faceva vibrare una lingua del parallelepipedo che produceva un suono stridulo continuo, La tiritocta infine era una specie di spatola di legno sulla quale veniva montata una tavoletta della stessa dimensione della spatola con due pezzi di spago a mo di cerniere. Agitandola la tavoletta si apriva e chiudeva battendo sulla spatola e producendo un suono simile a una raffica di mitragliatrice. Questi strumenti rudimentali accompagnavano la processione del Venerdì salto (fino al 1962 il Giovedì Santo) spesso coprendo i bellissimi canti della Passione, ma nessuno aveva niente da ridire, anzi i fedeli ne erano contenti. 
    Nei giorni che precedevano la processione i ragazzi entravano in competizione tra loro con i loro strumenti per stabilire chi riusciva a fare più baccano e chi riusciva ad "ammutare", cioè e coprire fino a non farlo sentire il suono della trena o dello zirru dell'avversario. Ovviamente la gara era tra trena e trena o tra zurru e zirru, ma qualche presuntuoso dotato di uno zirru di discrete dimensioni osava sfidare anche qualche trena risultando, ovviamente, perdente, a meno che non si trattasse 'e ru zirru e Carminuzzu, il mio carissimo amico professore universitario Carmine Chiodo che ne aveva uno di una quarantina di centimetri che gli aveva fabbricato lo zio Rocco Pasculli, uno dei più bravi falegnami di Caccuri. Quannu sonava lu zirru 'e Carminuzzu 'un ci n'era pe' nessunu. 
   

 

                                                                                    CUZZETTU E FAVE

   Si vo' fave 'a stu cummentu ..............

   Veramente sarebbe "Si vo' pane 'a stu commentu..................", ma a me stamattina, seminando le fave per il nuovo anno, quest'antico proverbio mi è uscito con qualche lieve modifica ripensando a un'antica maldicenza dei vecchi caccuresi che prendevano in giro i frati francescani riformati subentrati ai padri domenicani del Convento di Caccuri fatti poi fuori da Murat  che li spogliò di quelle poche tomolate di terra intorno al povero cenobio caccurese per rivenderle al notaio Ambrosio.
    I nostri avi accusavano i monaci di  allevare 13 porci per 12 monaci e di mangiare per tutto l'anno "cuzzettu e fave" ovvero fave e guanciale. In realtà il nostro convento non ospitò mai 13 frati perché il numero massimo dei religiosi che lo abitarono fu di 8, ma sulla scia di Boccaccio e di altri scrittori del suo tempo prendere in giro i monaci e metterne in dubbio la santità era evidentemente uno sport diffuso in tutta l'Italia. Comunque, se avrò un buon raccolto vedrò di procurarmi anch'io per primavera qualche "scilla 'e cuzzettu" . 

 

                                                                 'A PAISANELLA DEI NOSTRI AVI

   La Calabria non è solo la terra della 'ndujia, della sardella, delle pitte ìmpigliate, delle patate 'mpacchiuse, dell'"oglio purissmo et pretioso",  del bergamotto e delle eccellenti, salutari bibite che se ne ricavano, la leader mondiale degli amari, ma è anche la patria della Paisanella, la grappa dei nostri nonni, il "su filu di ferru" della Presila ottenuta dalla distillazione delle pregiate vinacce di vitigni Gaglioppo, Magliocco, Greco e altre uve locali, ma rigorosamente calabresi.  Quannu jazza e mina ventu, vicinu 'u focularu due 'u focu carcaria' 'un c'è nente ìe megliu 'e nu bicchericchiu 'e paisanellache te quaria' lu stomacu 'e lu core. 

 

                                                                                IL TRASPORTO DELLE SALME NEL NOVECENTO



    Il trasporto dei defunti caccuresi, fin oltre la metà del secolo scorso, è stato sempre problematico, soprattutto se il morto era povero o non aveva parenti. Trasportare a spalle una salma dalla chiesa al cimitero di Manco del Rosario distante quasi un chilometro dall'abitato non era affatto semplice e agevole. Per questo motivo il 2 febbraio del 1909 l'Amministrazione comunale e il sindaco Ercole Lucente cercarono di risolvere il problema retribuendo con una lira a testa i portantini che venivano scelti a rotazione dall'assessore anziano. Non sappiamo per quanto tempo la delibera rimase in vigore, ma anche negli anni 60 si riproposero gli stessi problemi per cui l'amministrazione del tempo e il vice sindaco facente funzioni Salvatore Giuseppe Falbo decisero di acquistare un carro funebre e istituire il servizio gratuito di trasporto dei defunti che rimase in vigore fino ai primissimi anni 90. Nei primi decenni del secolo la situazione era più grave se il defunto abitava nella frazione di Santa Rania non ancora collegata al capoluogo dalla provinciale 32 la cui costruzione iniziò nel 1953. Fino ad allora le salme venivano trasportate a dorso di mulo. 




                                                                                 
IL PAPA HA 280 MILIONI DI ANNI, BEATO LUI

 

   Ed ecco Sua Santità il papa in tutta la sua maestosità visto da Canalaci e dall'alto della Serra Grande. Negli ultimi anni ci è apparso un po' malandato, ma, tutto sommato, i suoi 280 milioni di anni se li porta bene, considerato anche che per qualche milione di anni è stato pure ammollo nell'acqua salata. L'intera collina, infatti, si trovava sotto il pelo delle acque del mare a una profondità non superiore ai 200 metri come apprendemmo anni fa nel corso di una lezione all'aperto tenuta da due docenti del Dipartimento di scienze della Terra dell’Università della Calabria . Da qui la presenza di numerosi fossili nei quali fino a qualche decennio ci si imbatteva camminando sul costone roccioso. 


                                
BARBARA. NICOLA, MARIA, LUCIA e lu messia 

  La mente umana a volte è contorta (almeno la mia) e ragiona secondo misteriosi schemi che sfuggono alla ragione. Per esempio, il 21 giugno si entra nell'estate, ma la mia mente è convinta che si entra nell'autunno perché le ore di luce cominciano a diminuire tanto che quattro mesi dopo alle 16,30 è già buio. Questa cosa mi intristisce e non poco, ma, probabilmente, intristiva anche i popoli primitivi, ma anche quelli più vicini a noi che non conobbero mai la luce elettrica o l'acetilene. Proviamo a immedesimarci in quella povera gente che alle cinque del pomeriggio del mese di novembre o dicembre veniva avvolta dalle più profonde tenebre fino alle 7 del mattino e immaginiamo con quale ansia aspettasse il sorgere del sole. Capite ora perché attendeva  con trepidazione il 21 dicembre e perché decine di semidei (Sol invictus) nascono il 25 dicembre, muoiono, scendono agli inferi, sconfiggono le tenebre e ridonano all'uomo la luce? Invece il 21 dicembre mi sento già in estate perché finalmente i giorni tornano ad allungarsi e la luce riporta il buon umore e la gioia di vivere. La filosofia di Leopardi, tutto sommato: della festa il più bello è la sua attesa.  Forse per questo, per questi motivi gli antichi contavano gioiodamente i giorni che ci separavano dal Natale della luce scandendo il tempo con una serie di feste che precedevano la nascita del loro Dio. Le nostre trisavole inventarono anche una specie di filastrocca per ricordarsele:

Sant'Aloe (Eligio 1° dicembre) porta la nova: 'u quattru è de Barbara, 'u sie 'e de Nicola, l'ottu 'e Maria, lu tririci 'e Lucia e lu vinticinque è du Messia." 

  Ecco, fra 8 giorni è Santa Barbara, patrona dei minatori e dei fuochini, due giorni dopo è la volta di San Nicola quando (almeno una volta, visto che ci siamo dimenticati cos'è la pioggia),  "Ogne vallune sona e ogni màntra fa la prova", due giorni ancora ed è l'Immacolata ed è già ora di preparare albero e presepe. A quel punto, inizia la trionfale discesa verso Natale 


                                                                           'NU QUARTU E 'NA GAZZOSA

      'Nu quartu e 'na gazzosa (gassosa in italiano) era quello che ordinavano i nostri nonni quando entravano in un'osteria (anzi i vostri, perché il mio e i suoi amici andavano a litri e senza gassose), oppure la posta in palio in una partita a carte. La gassosa rendeva il vino frizzante e lo annacquava un po', anche se di annacquare spesso non ce n'era bisogno visto che molti osti, già secoli prima di Cristo, avevano ripetuto milioni di volte il miracolo di Cana, pur senza vantarsene e non certo per modestia. 
   La gassosa che si beveva a Caccuri e nei paesi del Crotonese era detta anche "acqua 'e ra Pirucchjiella" così ribattezzata dai nostri vecchi epicurei perché pare venisse prodotta in uno stabilimento
sito in contrada Pirucchjiella forse nei pressi di Isola Capo Rizzuto. Le gassose del tempo avevano la chiusura a pallina (bottiglia di Codd) e si aprivano spingendo in basso la biglia di vetro con un dito. Oggi la frase " 'Nu quartu e 'na gazzosa" la si ripete per scherzo, ma nessuno più ordina queste bevande insieme e molti, al massimo nel vino ci mettono la Sprite, anche se annacquare il vino, ovviamente se è buono,  è un misfatto che meriterebbe l'ergastolo. 

 

                                                                                          VESTIRSI DI GINESTRA



   Mi è capitato più volte di occuparmi della ginestra, la preziosa pianta che assieme all'euforbia a primavera indora le colline e le terre marginali e che le nostre nonne utilizzavano per ricavarne coperte, tovaglie, perfino vestiti, ma non mi era mai capitato di vedere un tessuto ottenuto dalle fibre di ginestra. Lo immaginavo ruvido, un po' come i sacchi di iuta o come i vestiti dei penitenti. Poi due giorni fa, nella casa di una cara amica, mi è capitato di imbattermi nel centrino che vedete nella foto a destra ottenuto dalla ginestra e mi son dovuto ricredere. La stoffa è morbida, resistente, compatta.Se non mi avessero detto che si trattava di tessuto di ginestra non me ne sarei mai accorto. Tutto sommato i nostri vecchi non vestivamo poi così male e, soprattutto, non rischiavano di venire a contatto con agenti allergeni.
  Oggi ho letto che l’Università della Calabria sta lavorando a un progetto sperimentale sull'utilizzo della ginestra per realizzare filati sempre più fini e adatte alle esigenze della moda e che potrebbe contribuire a risollevare la nostra economia. La fibra di ginestra, infatti, è molto simile a quella del lino e della canapa. Già, la canapa! Un tempo la nostra economia si basava anche sulla coltivazione della canapa, una pianta dai mille pregi che però non possiamo coltivare per non danneggiare gli interessi dei grandi produttori di cotone ovviamente attenti alla nostra salute e preoccupati di combattere le nostre devianze. Come sono umani gli americani!

 

                                                                  LA PREZIOSA SAPONARIA

  Alzino la mano quelli che conoscono questa pianta o ne abbiamo fatto uso almeno una volta. Una volta era una cosa normalissima, anche perché l'unico sapone che si trovava nelle nostre case era quello fatto con la lisciva e la morchia (morga, residui di olio). Oggi non la usa più nessuno, tranne forse me. Se quando lavoro nell'orto per lavarmi le mani usassi ogni volta il sapone spenderei una cifra, senza contare che il sapone industriale a volte produce allergie, invece, mi strofino le mani con qualche foglia di questa preziosa pianta che per fortuna cresce spontaneamente nel mio terreno, una sciacquata con l'acqua e sono a posto. 

 

                                                            I TEMPI 'E 'NA VOTA
                                                                 di Peppino Marino



    C'era una volta un tempo nel quale la gente si divertiva con poco. Caccuri poi era un posto particolare nel quale ogni occasione era buona festeggiare nelle varie rughe, per ballare nei bassi del centro storico o nei casolari sparsi per la campagna, per gozzovigliare. 

E ppe le vie canzune e serenate 
Sentía 'ntra chille belle notti 'e astate.
Tuttu era amuri, tuttu n'armonia
Ca
 tu 'ntra tia e tia te ricia: "Chi postu 
bellu, 'stu paise mìo!"
E tutti i jorni ringraziava Dio
.
(da 'A 'stu paise di G. Marino)

 
Bastava una battente, un suonatore e qualche ballerino, oppure per le feste "più in grande" una chitarra, un mandolino o un violino, quando si esagerava, un clarinetto, e avevi la tua bella orchestra sinfonica. Ovviamente non ci si limitava a ballare al lume di candela o alla fioca luce 'e Lese, ma si pensava anche al contorno: salsicce,  patate arrostite o ruselle il tutto innaffiato di vino rosso. Raccontava mio padre che una volta organizzarono una festa da bello al Pizzetto. Il padrone di casa per l'occasione preparò un quarto di tomolo (più o meno 12 chilogrammi) di ruselle per musicanti e ballerini, mentre il compianto Alessandro Raimondo trasportava il vino con una secchia da latte. La voglia di divertirsi, soprattutto nei primi anni dopo la guerra, era tanta che si festeggiava anche in due come facevano Salvatore Guarascio, a sinistra nella foto, bravo suonatore di chitarra battente, e Francesco Lacaria, a destra mentre balla, auto ribattezzatosi Zorro per la sua straordinaria agilità che lo accompagnò fino agli ultimi anni di vita. 
   Che tempi meravigliosi abbiamo vissuto, pur nella povertà e negli stenti. 

 

                                                 IL MATRIMONIO FATTO IN CASA 
                                                       di Peppino Marino

 

E tutta ‘a gente jetta li cumpetti,
e tutta ‘a marramata e re crieature
se frugari cu’ ‘lefanti ‘ntra via
per’ acchijappàre chilla grazia ‘e Dio.

 

 

Mo su all’ataru e hau già dittu “SI”
E tuttu ‘u parentatu chi s’abbrazza,
poi vannu alla casa e, alla spartogna,
sciurta, a ‘na vota, la solita rogna:

Però chi scostumati ‘sti vicini,
cumu se junnanu a ‘sti biccherini!

 

                                  IL CARNELEVARETTO 
                                    di Peppino Marino


     Il Carnelevaretto era il curioso nome della messa in suffragio dei defunti confratelli della Congregazione del SS. Rosario che veniva celebrata ogni anno il lunedì di Carnevale nella stupenda chiesetta della Congregazione annessa al convento domenicano edificata nel 1690 dai confratelli Francesco Saverio Bonaccio, Orazio Antonio Novello, Filippo e Francesco Mele e Santino Falbo. A rendere suggestiva (e anche un po' macabra) questa cerimonia era la  presenza sull'altare di alcuni teschi di confratelli rinvenuti nelle fossae mortuorum della chiesetta.  Col tempo, con la morte degli ultimi priori, il mio bisnonno Ercole Scigliano, di mastro Francesco Sgro e mastro Giuseppe Di Rosa e con lo scioglimento della congregazione questa tradizione caccurese si è persa come tante altre, nonostante un tentativo dell'infaticabile Luigi Ventura di qualche anno fa di farla rivivere. 

 

                                              L'OLIO KRYSAMA, UN'ECCELLENZA BADOLATESE 

   Ho avuto modo più volte di parlare di una Calabria che speso noi calabresi non conosciamo, una Calabria che non è solo mare, sole paesaggi mozzafiato, monumenti, arte, cultura, ma anche una regione con un'agricoltura all'avanguardia che produce, trasforma e conserva eccellenze agro alimentari rinomate ed esportate in tutto il mondo. Eccellenze che spesso troviamo anche negli scaffali dei nostri supermercati o in punti vendita specializzati, ma che non compriamo perché distratti da prodotti similari, magari molto più scadenti, magari meno costosi, ma non certamente ai livelli dei nostri.
  Oggi mi è capitato, chiacchierando con dei carissimi amici che conosco da decenni, di scoprire che il figlio, brillantemente laureato a Roma, ha deciso di tornare in Calabria e oggi è titolare di un'azienda agricola nel territorio di Badolato, lo splendido borgo sulle rive dello Ionio, terra di aranci, limoni, uliveti e vigneti e di retaggi storici e culturali che affondano le radici nei millenni, che produce un olio extravergine biologico, 100% italiano ottenuto direttamente dalle olive mediante procedimenti meccanici di spremitura a freddo, rigorosamente controllato dagli enti preposti, che viene esportato in Italia e nel mondo.
   L'azienda è affiliata al consorzio etico degli agricoltori della Calabria ionica Terra è libertà. L'olio prodotto si chiama Krysama e viene imbottigliato in contenitori di vetro scuro. L' ho assaggiato crudo su una fetta di pane ai cereali e l' ho trovato davvero eccezionale. Ma non è tutto: oggi ho scoperto anche un'azienda calabrese che produce un ottimo caffè a pochi chilometri da casa mia creata da un imprenditore tornato dal Piemonte per fare qualcosa di utile e di importante per la nostra terra, ma di questo vi parlerò nei prossimi giorni. Più passa il tempo, più mi ritrovo orgoglioso di essere nato nel "paradiso" di Leonida Repaci e di averci investito la mia vita. 
  

          VINCENZO PARROTTA GIARDINIERE CAPO E CUSTODE 

    Ieri e l'altro ieri ho pubblicato due foto sulla vita dei Barracco di Caccuri e sui loro spostamenti da e al "castello" con una portantina trasportata dai muli; oggi è la volta di questo personaggio che a vederlo sembra anch'egli un barone, ma era solo un loro dipendente, il giardiniere capo e custode inflessibile del parco annesso al palazzo, l'attuale villa comunale. Si chiamava Vincenzo Parrotta detto 'u Scarolu, abitava nel rione Pizzetto ed era il padre di Virginia e Alfonsina Parrotta. Era il terrore dei ragazzini che, mentre lavorava, si infiltravano nel parco per ammirare i giochi d'acqua, le cascatelle, le siepi ben curate e molestare i pesci e gli uccelli acquatici che vivevano nei piccoli stagni artificiali.  Qui lo vediamo "assiso  nel suo trono" tra due grandi vasi, probabilmente di ortensie, nei pressi di un'aiuola all'interno del parco baronale, in posa per il fotografo con lo sguardo di chi custodisce con severità dei tesori che oggi ricorda solo chi ha più di novant'anni. 

                                                                               LE BACCHE DI GOJI E I PRIMATI DELLA CALABRIA 

    Uno nasce e vive in una regione e crede di conoscerla bene, di conoscerne le bellezze naturali, le città, i monumenti, la cultura, le risorse, le potenzialità, poi gli capita di guardare una trasmissione televisiva e di rendersi conto che della sua terra conosce ben poco o che, almeno, c'è ancora tanto da scoprire e che, nonostante le denigrazioni e, soprattutto le ben più odiose auto denigrazioni, il disinteresse dello Stato, la carenza di grandi infrastrutture come strade e ferrovie, la spaventosa emigrazione, oggi anche di cervelli, che non si riesce ad arrestare, la Calabria cresce, produce eccellenze, conquista primati nazionali e, a volte, europei. 
   Sapevo che nella Piana di Sibari vi è il più grande pescheto italiano, che vi si producono pesche, nettarine, fichi e migliaia di quintali di agrumi tra i quale le clementine igp, un
riso tra i migliori al mondo, che vi sono aziende agricole modello, non solo auto sufficienti dal punto di vista energetico, ma che forniscono  migliaia di kilowattora alla rete nazionale, ma non sapevo che eravamo anche i primi produttori italiani di bacche di Goji, un frutto di origine tibetana che si caratterizza per  una presenza massiccia di elementi sia nutritivi, sia nutraceutici che non si trovano in altri frutti e con una capacità antiossidante, di 45.480, tasso Orac certificato dell’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro. Questo prezioso frutto viene prodotto e conservato nella piana di Sibari, ma anche in altre zone della Calabria, una Calabria nella quale, miracolosamente, esistono fior di imprenditori che creano posti di lavoro e producono eccellenze agro - alimentari  che, sempre più spesso, vincono prestigiosi concorsi internazionali. Se noi calabresi consumassimo almeno un 30% di prodotti della nostra regione contribuiremmo a creare miglia di posti di lavoro e a frenare l'esodo da una delle regioni più belle del pianeta. 

                                              

                                   SPAGNOLA E ASIATICA, I "COVID" DEL NOVECENTO CACCURESE

   Il covid col quale stiamo facendo i conti anche noi caccuresi, anche se, per fortuna, senza danni irreparabili, non è la prima epidemia che colpisce il nostro paese. Già nei secoli scorsi sono state molte quelle con le quali siamo stati costretti a fare i conti, a cominciare dalla peste negli anni 1528, 1582, 1592 e 1592.
   Nel 1836 fu la volta del colera che però, a differenza dei paesi vicini, pare non abbia provocato morti. Il miracolo fu attribuito all’intercessione di Santa Filomena per cui l’anno dopo il falegname Filippo Procopio, figlio dell’ex comandante della Guardia urbana e futuro sindaco del paese, donò alla parrocchia di Santa Maria delle Grazie una statua della santa greca, patrona delle cause impossibili che aveva preservato il paese dalla peste come recita l’epigrafe sul piedistallo “Indica Lethaliter furente in finibus colera Caccurium Philumenae Sospitae A.D.  MDCCCXXXVII”.
   Nel 1876 un morbo misterioso colpì soprattutto la popolazione infantile. Nel solo mese di marzo morirono 8 bambini di età compresa tra un giorno e 4 mesi, mentre nel primo dopoguerra fece la sua comparsa anche la terribile spagnola, una pandemia influenzale letale come quella che ci affligge oggi e che uccise anche molti soggetti giovani e sani. Tra i morti nel nostro paese figura anche un giovane ingegnere serbo, Wladimiro Iegitch, che si spense il 9 settembre del 1919 in una casa di Salita Castello. Ucciso da quello che il parroco dell’epoca Miliè definì nell’atto di morte “repepentino morbo correptus cuius corpus die sequenti sepultum est in coemiterio.”
   Verso la fine degli anni ’50, nel 1957, non ci facemmo mancare nemmeno l’asiatica, una pandemia di origine aviaria proveniente dal sud est asiatico. Anche allora, a beneficio di quelli che oggi ci dicono che un vaccino non può essere approntato in un solo anno, gli scienziati riuscirono a mettere a punto, nello stesso anno, un vaccino che riuscì a limitare le perdite umane che furono comunque consistenti. Per fortuna a quei tempi non esistevano i social e di vaccini si occupavano solo gli scienziati “con la i”.

                                           IL MATRIMONIO "FATTO IN CASA"

Cumu è contenta oje za Marietta
Ca Rosinella s’è vestuta ‘e sposa!
Supra ‘a porta e ra cchiesia ‘u zitu aspetta
Bella, pimpante, frisca cu ‘na rosa;
‘u velu jancu e lu buquet già rrincia
mentre ‘e ra cuntentizza ‘a mamma ciancia’.
      
                 Peppino Marino

   Questa due bellissimi scatti dei primissimi anni '60, che, se non ricordo male, immortalano le nozze della signorina Teresa Lacaria, che abitava all'inizio di viale della Regina, con un signore piemontese, ci mostrano il tipico matrimonio dei quei tempi, quello genuino, fatto in casa, quando ancora non si andava nei ristornati, anche perché i ristoranti nemmeno c'erano e il boom economico non era iniziato,  primo in via XXIV Maggio, il secondo, circa un minuto dopo, in via Principessa di Piemonte.
  Il matrimonio veniva celebrato sempre in chiesa, in quella parrocchiale di Santa Maria delle Grazie, sempre di mattina, verso le 11. Due colpi di fucile (allora si poteva sparare liberamente tutto l'anno, ovviamente in cielo) annunciavano ai compaesani l'uscita della sposa dalla casa paterna al braccio del genitore o, in mancanza di questi, da un fratello che l'accompagnava in corteo fin sul portone del tempio caccurese dove stava ad attenderla lo sposo. Lungo il percorso casa - chiesa, quando il corteo passava davanti le case, le donne di quella casa lanciavano riso e confetti (jettavanu i cumpetti ) e i ragazzini che lo seguivano si accapigliandosi per accaparrarsi il maggior numero di confetti .

E tutta ‘a gente jetta li cumpetti,
e tutta ‘a marramata e re crieature
se fruganu cu’ ‘lefanti ‘ntra via
per’ acchijappàre chilla grazia ‘e Dio.

 Finita la cerimonia si tornava solitamente a casa della sposa o, nel caso questa fosse troppo angusta, in qualche magazzino o in qualche locale di fortuna un po' più grande dove si faceva il ricevimento ('a spartogna) a base di dolcetti e liquori fatti in casa e distribuiti da persone che avevano una certa pratica, sempre le stesse, assunte per l'occasione come si fa oggi con i camerieri. Quasi sempre si verificavano episodi incresciosi perché, probabilmente per la fame a quei tempi molto diffusa, alcuni invitati eccedevano con i dolcetti col rischio che altri restassero a becco asciutto. Allora l'addetto alla distribuzione, con scarso tatto, li redarguiva esponendoli a una figuraccia.

Però chi scostumati ‘sti vicini,
cumu se junnanu a ‘sti biccherini!

Alla fine gli sposi passavano fra gli amici distribuendo confetti con un cucchiaio visto che all'epoca non si usavano le bomboniere, quindi aveva inizio il ballo che a volte si protraeva fino a notte inoltrata. Ma non era finita perché appena gli sposi si ritiravano nella loro stanza da letto sotto la finestra si intonava la tradizionale serenata.

p.s.

In queste due foto si riconoscono alcune care persone che non so no più con noi come il dottore Francesco Macrì, e gli amici Paolino Nesci e Peppino Guzzo. 
   

                                                      'a via 'e ru menziornu - la Strada  Caccuri - Santa Rania
    

   Uno dei problemi più urgenti da risolvere agli inizi del secolo scorso era quello di un accettabile collegamento tra Caccuri e la frazione di Santa Rania che era sorta a circa 7 chilometri a sud - est  della cittadina a ridosso delle contrade Forestella e Serra del Bosco di Casalinuovo.  Lo stato di precarietà dei collegamenti creava notevoli difficoltà soprattutto quando, in seguito al decesso di qualche abitante della frazione, se ne doveva traslare la salma nel cimitero del capoluogo a dorso di mulo, per non parlare di quello che poteva accadere in caso di emergenze sanitarie. 
 
   Il 13 novembre del 1913, con la delibera consiliare n. 57, il Comune chiese al governo la realizzazione della strada che avrebbe dovuto collegare i due centri abitati. Copia dell'atto deliberativo fu inviata al Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, al sottosegretario calabrese Nicola Lombardi, socialista, e ai deputati Luigi Fera e Gaspare Colosimo. Nessuno dei quattro politici mosse un dito e i due centri abitati rimasero ancora isolati per quasi 40 anni fin quando negli anni 1954-1956 l'Opera valorizzazione Sila, con i soldi della Cassa per il Mezzogiorno realizzò l'opera. Più o meno nello stesso periodo, sempre con i soldi della Casmez, furono effettuati alcuni interventi di manutenzione straordinaria alla chiesa di Santa Maria del Soccorso e, per l'occasione, fu completato anche il campanile che i  monaci, nella loro estrema povertà, non erano mai riusciti a completare. 
  Anche in quest'occasione come accadde sempre a Caccuri, ma anche in tutta la Calabria, la definizione del tracciato subì pesanti condizionamenti da parte dei proprietari dei terreni, soprattutto nel tratto iniziale partendo da Caccuri con i soliti sconci lasciati in eredità alle future generazioni. 
   La costruzione di quest'opera non solo risolse l'annoso problema del collegamento tra Caccuri e la sua popolosa frazione, ma rappresentò una delle prime formidabili occasioni di lavoro per i nostri padri, dopo decenni di emigrazione oltre oceano e dopo il nefasto ventennio fascista, naturalmente strumentalizzata dalla Democrazia cristiana, dai suoi governi e dai suoi attivisti e fatta apparire come una gentile concessione dei Fanfani, dei Pella, degli Scelba, anche perché gli operai, molti dei quali assunti grazie alle raccomandazioni del locale segretario della DC o del prete, si divertivano a imprimere lo scudo crociato sul cemento fresco dei muri di sostegno e sulle spalle dei ponti. La popolazione, comunque, aveva contezza che l'opera veniva realizzata con i soldi della Cassa del Mezzogiorno, tanto che il cantiere veniva identificato come " 'u Menziorrnu" e, ancora oggi, per dire che qualcuno lavorò alla costruzione di quella strada si dice: " Ha fatigatu allu Menziornu." 

 

                                                                 CACCIARE 'E MINNE 'E FORA - GLI ANATEMI CACCURESI



    In questa pagina troverete alcuni dei tantissimi anatemi caccuresi, invettive, maledizioni che si scagliano nei momenti di ira nei confronti di qualcuno che ci ha fatto del male. Credo valga la pena di tramandarli ai nostri pronipoti come patrimonio indisponibile della nostra storia e della nostra cultura. 

Te vo'scigare 'nu lampu! (Possa tu essere fatto a pezzi da un lampo!")

Troni sbrullannu ( Lampi di striscio) Il dialetto caccurese non fa molta differenza tra lampo e tuono per cui il significato è sempre quello di essere colpito dai fulmini.

Vo jire l'acqua, l'acqua!  Possa tu trovarti in mezzo ad una piena!

Vo jire l'acqua appenninu! Possa trovarti in mezzo ad una piena che ti trascina a valle!

Te vo trovare a Vitette! (Vitette è una località alla foce del Neto. L'invettiva, in pratica, significa: possa tu essere travolto da una piena e portato e Vitette dalle acque limacciose del fiume.)

Te via jire cu' lu portigallu alla vucca! (Quando si ammazzava un lupo gli si metteva tra le fauci un'arancia infilzata in uno stecco. Chiaro, quindi, il significato dell'anatema.)

Te via'  ammaccàtu  (variante affettusa di "Te via ammazzatu!" Possa tu essere ammaccato!   

Te via chjinu 'e chjummu (Possano riempirti di piombo)

Te via'  scumpunnutu!     Possa ti essere scomposto, confuso!  

Te viari orbu!   Possa tu essere orbo!

Te via' cecatu - Possa tu essere cieco.

Te via scurciàtu  Possa tu essere scorticato!

Te vo ammazzare Gesù Cristu ca 'un te paghera mancu 'nu sordu!  In pratica "Possa tu morire di morte naturale (ammazzare Gesù Cristu) perché lui non ti pagherebbe nemmeno un soldo.

Vo jire pettiscigàtu! Possa tu essere uno straccione, un miserabile

Chi si nne vo' abbuttare 'na timpa! Possa tu precipitare in un dirupo che ti faccia da tomba!

Chi vo jire limmertu e pellegrinu!   Possa tu  essere sempre un povero straccione, un morto di fame, un pezzente!

Chi vo' jettare sette cannate 'e sangu - Possa tu buttare sette brocche di sangue! 

Va fa 'ncinefrica!   Vai a quel paese! (Detto, però, in modo affettuoso)

      Molti di  questi anatemi venivano usati indifferentemente "cu' lu sangu all'occhji", ciò accecati dalla rabbia, quindi con la segreta speranza che cogliessero davvero il destinatario, ma anche per scherzo, bonariamente, col tono che faceva capire al destinatario che si trattava quasi di un gesto affettuoso, ma la cosa più temuta dai caccuresi era la maledizione della propria madre quando l'odio tra i due arrivava al punto tale che la genitrice, pur di maledire il figlio che si era macchiato di una gravissima colpa, rinunciava perfino al pudore che nei secoli scorsi era considerato il bene più prezioso. Allora la donna si scopriva il seno (se cacciava le minne 'e fora) per rendere l'atto più solenne e terrificante e malediva il frutto delle suo grembo. 
   Anche una cosa così grave e terribile, però, per gli arguti caccuresi diventa un motivo di sfottò quando un maschio minaccia per scherzo un'amico con la battuta: "Ca me cacciu 'e minne 'e fora." 

 

                                             L'IMMACOLATA DEL 1962 

                                                                   

   Digitando la parola Immacolata nel mio personale "motore di ricerche" ho ritrovato questa seconda foto della processione dell'Immacolata che scattai nei primissimi anni 60, precisamente l'8 dicembre del 1962. E' stata scattata qualche attimo dopo quella che ho pubblicato stamattina, quando la processione, lasciatosi alle spalle il viale del Convento, aveva già imboccato la via XXIV maggio diretta in chiesa. In questa sono riconoscibili diverse persone tra le quali, oltre al parroco don Salvatore Peri e a Giovanni Muto (Vatticore) con la croce di penitenza, la guardia comunale Luige De Rose, Gennaro Rao che porta la statua, Marcello De Franco in basso al centro tra ragazzi con alle spalle Rocco Spatafora e alla sua sinistra Vincenzo Perri e poi ancora un ragazzo col basco, un cugino dell'ex sindaco Luigi Durante. 

 

                                INVENTORI E SFRUTTATORI 



    Quando oggi pomeriggio gli occhi mi sono caduti su questa foto scattata tre anni fa nel corso di una visita guidata dell'Università Popolare Mediterranea al Museo Storico della Salina di Lungro nel quale è custodita questa bellissima macchina da scrivere della Remington la mente è tornata indietro di quasi 60 anni, alla primavera del 1962 quando vivevo a Merano e con la mia classe (1^ media) gli insegnanti mi portarono a visitare un castello nei dintorni della città nel quale era custodito un esemplare della macchina da scrivere di Peter Mitterhofer ritenuto da molti l'inventore di questo utilissimo apparecchio, forse proprio quello di Parcines, il paese di Mitterhofer.
   La macchia da scrivere, però, pare abbia diversi inventori tra i quali Pietro Conti e Giuseppe Ravizza, i più accreditati, ma anche Giuseppe Fantoni da Fivizzano (MS). In ogni caso una invenzione tutta italiana purtroppo sfruttata, commercialmente da un'azienda americana; come quella del telefono  contesa tra il valdostano Innocenzo Manzetti e il fiorentino Antonio Meucci, ma sfruttata da un furbastro come Graham Bell che diventò miliardario, mentre Manzetti e Meucci morirono in povertà. 

 

                                                       GRANDI LETTERATI CACCURESI E CERENTINESI 

                

                                                 I CAGNUSI 'E CACCURI

    
Gli sfottò tra caccuresi e cerentinesi e le storielle, i racconti che ne derivarono meriterebbero qualche pagina di qualche antologia italiana essendo dei veri e propri capolavori.   Invenzioni come quella della siepe eretta dai caccuresi in contrada Monache per impedire che i cerentinesi udissero "a scrocco" il suono della campana caccurese che scandiva le ore, o quella dei caccuresi che per ripicca tentano di rubare la chiesa di San Teodoro, tentativo sventato dall'accorrere di tutte le donne incinte sul sagrato per appesantire il tempietto e vanificare la sortita caccurese o quella del mostro di Trabbese che terrorizzò un cerentinese e che risultò alla fine essere solo un'innocua chiocciolina ci lasciano col fiato sospeso per l'inventiva, l'arguzia, la bonomia di soggettisti e sceneggiatori che, in un altro contesto, sarebbero diventati famosi e ricchissimi. Onore e gloria a questi ignoti autori che non avevano nulla da inviDiare ai Collodi, ai Grimm. ai Perrault. 

   La leggenda del mostro della valle di Trabbese è senz’altro una invenzione di qualche buontempone caccurese del secolo scorso. Ma i simpatici amici cerentinesi non accettavano  passivamente frizzi e lazzi dei vicini burloni e, a loro volta, inventavano delle altre storie  non meno spassose e salaci ai danni dei Caccuresi. Pare che a quei tempi, per una carenza di iodio nell’acqua di Caccuri e nell’alimentazione in generale, si verificasse nella popolazione del paese vicino, un’alterazione della funzione tiroidea con l’insorgere di gozzi a volta anche molto consistenti. Ovviamente il disturbo affiggeva anche le ragazze caccuresi che, però, a detta dei Cerentinesi, esibivano questo non propriamente estetico accessorio con orgoglio “elevandolo addirittura a titolo dotale”  Il gozzo, insomma, insieme al corredo, era, per le giovani caccuresi, anche una sorta di dote.  E così, quando una di loro tardava a trovare marito, pare si rivolgesse al patrono, San Rocco, con questa preghiera propiziatoria.

 

            Santu Roccu mio benigno                  San Rocco mio, benigno
            Tu lu sai pecchì ce vegnu                   Tu sai perché vengo ad implorarti.
           Tanta brutta nun ce signu,                   Tanto brutta poi non sono,
           Nu pocù ‘e cagnu puru ‘u tegnu.        E possiedo anche un po’ di gozzo.

 

   Questa simpatica storiella che mette un po’ in ridicolo le bellissime ragazze caccuresi è stata ripresa  dal compianto dottor Giuseppe Aragona nel suo pregevolissimo volume su Cerenzia pubblicato nel 1989 e ristampato recentemente.

 

                                                                       A CACCIA DI GALASSIE NELLA TERRA DI LUIGI LIILIO

  Stamattina a Savelli mi è capitato di fotografare questa bellissima meridiana collocata sulla facciata della chiesa dei Santi Pietro e Paolo adiacente lo stabile nel quale fu alloggiata per molti decenni la Pretura, attiva già nella seconda metà del XIX secolo. Sotto la meridiana una tabella per il calcolo dell'equazione locale di Savelli che consente di calcolare esattamente il mezzogiorno del luogo che, com'è noto, non coincide con l'ora segnata dall'orologio che è quella del meridiano che passa per l'Etna, ma varia di qualche minuto in più o in meno a seconda che il paese si trovi a ovest o a est dello stesso meridiano etneo. Non ho avuto l'opportunità di chiedere notizie in merito, ma credo si tratti di una lodevole iniziativa dell' osservatorio astronomico Lilio, l'astronomo, medico e matematico cirotano ideatore del calendario gregoriano, sorto qualche anno fa nella zona di Pino Grande e che consiglio di visitare a tutti gli amici perché si tratta di una struttura unica in Calabria, ma anche tra le più importanti in Italia e in Europa,  che collabora anche con l'Agenzia spaziale italiana. Per renderci conto delle potenzialità di questo nostro osservatorio basti pensare che il 22 marzo 2017 il suo telescopio ha fotografato la Galassia Sombrero lontana 29 milioni di anni luce e nel settembre dello stesso anno ha ospitato il XXV Congresso Nazionale del Gruppo Astronomia Digitale con la presenza di astronomi di tutta Italia. Un'altra eccellenza calabrese della quale possiamo e dobbiamo andare fieri e che dimostra, che se si volesse si potrebbe fare ricerca di qualità anche in questi nostri paesini destinati a morire nel giro di qualche decennio per lo spaventoso spopolamento e per l'abbandono totale di uno stato che da sempre investe i suoi soldi, anche quelli che l'Europa gli dà per il Mezzogiorno, nella "terra dei conquistatori risorgimentali", mentre qui abbiamo bisogno di tutto, a cominciare da strade un po' più decenti per raggiungere Savelli e il suo osservatorio, ma anche tanti paesi e città della nostra bistrattata, grande, bellissima Calabria. 

                           'A SARMA 'E LIGNA SUTTA 'U LETTU - AH, L'AMORE CHE COSè!                                        

   La salma era un'antichissIma unità di misura in uso già nel XIII secolo in Sicilia, poi estesa in seguito a tutto il Regno di Napoli, usata sia per misurare le superfici agrarie, sia  gli aridi e, in alcune zone, anche  i liquidi. Il valore variava da zona a zona  per le estensioni di terreno, ma anche per gli aridi.
   A Caccuri e in qualche paese vicino la salma ( in dialetto sarma) era il carico di legna che poteva trasportare un asino o un mulo per cui esisteva 'a sarma 'è ciucciu e la sarma 'e mulu.  Fino agli anni '60 la legna che si raccoglieva nei pochi boschi demaniali sfuggiti alla rapacità dei privati (il famoso furto di Marx all'origine della proprietà privata del quale tanti cianciano a vanvera) o in quelli privati costituiva l'unico combustibile per riscaldare le case. La raccolta e il commercio erano affidati ai "ciucciàri", i proprietari di asini e muli che la vendevano appunto a "sarma" che variava a seconda della stazza e dell'età dell'animale di cui si disponeva. Il prezzo di una "sarma" oscillava tra le 750 e le 800 lire che corrispondevano a circa la metà della paga giornaliera di un manovale.
 
Nel rione Croci, nel quale a quei tempi c'erano ancora poche case e molto spazio, la gente accatastava la legna all'aperto nei pressi della propria abitazione, ma nel centro storico (allora si chiamava 'u paise o semplicemente Caccuri come se i Croci fossero un altro paese) pochissimi avevano la fortuna di avere un locale nel quale conservarla, anche perché molte abitazioni erano in realtà dei bassi monolocali per cui spesso si utilizzava lo spazio sotto il letto. Fu per questo che una volta mio padre si procurò un buco in fronte cercando di nascondersi disperatamente sotto il letto alla vista della madre di una fidanzatina che li sorprese nel basso nel quale si era infilato per amoreggiare. Ah, l'amore che cos'è!

                                                   'E RUSELLE? MEGLIO FARSELE DA SOLE CHE "ABBUSCARLE"

    Caldarroste, pastilli, veròle, brostuli. mondà, frogiate, mondine: per noi  soltanto ruselle, le dolci, calde ruselle che ti scaldano le manI e il cuore e ti deliziano, il palato, specialmente quando hai la fortuna di trovare castagne 'nzerte, che siano 'nzerta russa, 'nzerte di Mammola, di Palermiti (addue 'un se riciu' cchjiu misse cantate) o di Caccuri, ma, 'a 'nu malu riparu vanno bene pure le mie riggiole arrostite con una vecchia rusellare sul gas che non è il massimo, come fa notare qualcuno, ma che è megliu 'e nente o meglio è Il prezzo che paghiamo alla modernità dei radiatori. 
   A volte le ruselle ce le possono pure regalare, ma se vi dicono "Te via abbuscare 'na rusella" oppure "C'ha abbuscatu 'na rusella", beh, non sono proprio gli auguri 'e ra Rrina. 

 

                                       'A SAGLIOLA E LA SCUOLA DI STRADA

    Per noi fanciulli degli anni 50 e dei primissimi anni 60 che avevamo la straordinaria fortuna di vivere negli sperduti paesi interni della Calabria, meglio ancora se, come nel mio caso, in un rione all'estrema periferia del paese che stava nascendo allora, con quattro case, un forno, una fontana, due viuzze sterrate e polverose con a ridosso stalle e porcili, la strada era una vera e propria scuola dove imparavi un sacco di cose, assistevi dal vivo a quelle attività umane che consentivano di produrre ciò di cui avevamo bisogno, a procurarci il cibo, gli indumenti, perfino gli svaghi: dalla castrazione dei maiali al metodo originale che le nostre nonne adoperavano per capire se la gallina stava per far l'uovo o se ci voleva ancora tempo, alla filatura, al lavoro a maglia, alla macellazione o al governo degli animali degli animali e ad altro ancora acquisendo quella cultura e una quantità di nozioni che nessun maestro, nessun professore di liceo avrebbe mai potuto darti.  Spesso assistevamo agli scambi commerciali e alle interminabili manfrine, schermaglie, sceneggiate per spuntare un prezzo più favorevole e poi alla pesatura dei generi. I fruttivendoli ambulanti che allora arrivavano in paese con le prime Api Piaggio si portavano dietro la stadera, ma, a volte, anche un dinamometro come quello nella foto che non era il massimo della precisione, soprattutto se era vecchio e un po' arrugginito, ma, come si dice, "Chissa era l'ugna" che in dialetto chiavamo " 'A sagliola". 

 

                                                                                'U SANCERI

“Ntre vie n’adduru ‘e menta, ‘e rosmarinu,
‘E cannella, ‘e finocchjiu, ‘e petrusinu
E supra ‘e tavule sazizze e suppressàte,
Tielle ‘e crapettu, vinu e stigliulàte.
E alla putiga re za Mariarosa
Rosa marina, ‘u quartu e ‘na gazzosa.”

           (Peppino Marino)

  ‘U sanceri era una salsiccia a base di sangue di maiale, di pecora o di capra rappreso insaccato all’interno di un budello per soppressate. Le nostre donne lo preparavano mescolando il sangue di maiale o di pecora con aglio e prezzemolo tritati finemente, sale, una spruzzatina di pepe e un filo di olio. Da questa operazione si otteneva un composto che si insaccava delicatamente nel budello chiudendolo con uno spago ai due lati. Quindi lo si faceva bollire per circa un’ora, lo si lasciava raffreddare e lo si serviva a fette accompagnandolo con un rosso di vigna di Barracco.
   U sanceri, pur con noi diversi e con l’aggiunta di ingredienti diversi è presente in molti altri paesi e culture come la morcilla di Burgos (Spagna) che si consuma anche in Uruguay, la salsiccia di sangue ucraino o la Aranda de Duero.

 

                                                                          L'ISTRUZIONE NELL'ITALIA PRE UNITARIA

Una delle tante “leggende metropolitane” descrive i meridionali prima dell’unità d’Italia rozzi, analfabeti, non scolarizzati. In realtà questo è il quadro delle popolazioni meridionali dopo un ventennio di dominazione sabauda. Prima del 1860, infatti, i livelli di analfabetismo erano più o meno gli stessi in tutta la penisola con qualche prevalenza in alcune regioni del nord. Diversa era invece la situazione degli studi universitari nei quali il Sud primeggiava largamente sia sul Nord che sul Centro come si evince da questo specchietto. Fra l'altro il Regno delle due Sicilie ospitava  la Federico II, la più antica università pubblica d'Italia, fondata dall'imperatore svevo,  dopo quella di Bologna che però fu fondata da una libera associazione di studenti, e l'Orientale, la prima scuola di sinologia e di lingue orientali italiana.

ISCRITTI ALLE UNIVERSITA’ ITALIANE SECONDO IL CENSIMENTO DEL 1861

Macroregioni o città                                    Numero degli iscritti

Napoli                                                                9.459

Sicilia                                                                 1.069

 Totale due Sicilie                                           10.528

Sardegna                                                          137

Piemonte, Lombardia, Veneto                    2.572

Emilia Romagna                                             1471

Toscana                                                            764

Umbria e Marche                                             259

Totale resto d'Italia                                         5.203  

Dal che si deduce che nell’anno dell’Unità d’Italia l’ex Regno meridionale aveva esattamente il doppio degli studenti universitari di tutto il resto della Penisola. E meno male che eravamo "peggiori dei beduini" (detto alla quella personcina perbene ed equilibrata di Cialdini), rozzi e ignoranti!

                                                                       QUALCHE CENNO SUI "TRE FANCIULLI" 

     La foto a sinistra ci mostra quel che rimane di un'epigrafe scolpita su pietra tufacea e collocata sul portale della chiesetta dei Tre Fanciulli, un tempo annessa al monastero omonimo i cui resti erano ancora visibili alla fine del XVIII secolo. Da questo prezioso documento apprendiamo che la chiesa dell'antico monastero basiliano, incorporato nei possedimenti florensi dopo che con la donazione di Enrico VI all'abate Gioacchino da Fiore era stato spogliato dei suoi beni, fu restaurata per l'ultima volta dal giovane abate commendatario Giacomo Caracciolo nel 1717. Bisognerà aspettare ancora due secoli prima degli ultimi interventi che ci consegnarono la chiesetta come la vediamo oggi.  

 

CACCURI ADERISCE INCONDIZIONATAMENTE AL REGNO D'ITALIA 



    Il 21 ottobre del 1861 anche a Caccuri si tenne il famigerato plebiscito per l’Annessione del Regno delle due Sicilie,  aggredito e occupato da Garibaldi con i suoi legionari e dall'esercito sabaudo, al Regno d’Italia. Nell'occasione i caccuresi votarono compatti per i nuovi padroni. I Si, infatti, furono 296 su 296 votanti. Tanto entusiasmo  patriottardo e tanto amore  per i piemontesi non si vedeva dal luglio precedente quando una compagnia di soldati guidati da un tenente e decine di guardie nazionali di San Giovanni in Fiore furono costrette a occupare per diversi giorni il paese per sedare una rivolta scoppiata quando i partigiani caccuresi issarono una bandiera duosiciliana sul campanile della chiesa di Santa Maria delle Grazie. Volubilità dei nostri bisnonni o i brogli esistevano anche a qui tempi? O forse, semplicemente,  fecero votare solo i servi? 

               

                                                       TUNDRA, LA TIGROTTA CACCURESE 

Nel 1997, il  2  giugno, dopo tanti anni durante i quali  Caccuri non aveva più dato la luce a nessun bambino, ne ad altre creature, tranne qualche cane o qualche gatto, si ebbe una nascita singolare: si trattava di un cucciolo di tigre,  al quale venne imposto il nome di Tundra. La tigrotta  nacque da una tigre  in cattività in un circo attendato in quei giorni nel nostro paese, un evento rarissimo come mi spiegarono all'epoca gli amici circensi. Purtroppo  " l' illustre caccurese"  morì qualche giorno dopo mentre il circo si trovava a Scandale dove  si era nel frattempo  trasferito e da allora a Caccuri continua a non nascere nessuno. 

                                                         UNA FOTO DI GRANDE VALORE STORICO



   
Questa foto che mi pare faccia parte dell'archivio dell'amica Caterina Barone, seppur non molto nitida, considerati gli apparecchi fotografici del tempo, ha un grande valore storico per noi caccurese. Credo che sia una delle pochissime foto a colori, se non l'unica, nella quale è possibile vedere "la mezzaluna", che non è la collina che poi prese questo nome, ma il catino turchino che la baronessa Giulia Barracco fece murare nel 1885 nello spuntone roccioso  per  servire da abbeveratoio a gli uccellini e del quale ho parlato più volte. Il catino di colore  turchino indicato nella foto dalla freccia rossa, visto dal basso sembrava davvero una mezza luna come lo ribattezzarono prontamente i nostri nonni estendendo poi il nome a tutto lo spuntone. Una fortuna che esistano foto come queste che ci aiutano a non perdere la memoria di un sublime gesto d'amore per gli animali e quella di una delle più belle formazioni arenarie dell'intera Penisola. 


                                          
RICORDI CACCURESI 

      Il cuore economico e sociale di Caccuri era, fino agli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso, il tratto di strada compreso tra la piazza (quella senza nome da non confondere con piazza Umberto) e via Misericordia (resti della casa dei Simonetta). In poco più di cento metri vi erano il forno di Salvatore Blaconà, tre bar, un’ osteria, una trattoria, due botteghe di sarto, quella di mastro Giovanni Gallo e quella di mastro Giovanni Secreto, due barbieri, zio Gennaro Parrotta e mastro Luigi Tallerico, un fabbro ferraio, zio Michele Marino, due calzolai, due negozi di generi alimentari, quello di Rosina Iacometta, vedova Fazio e quello di Angelino Secreto, due macellerie, quella di Eugenio Pitaro e quella di Luigi Iacometta,  il fruttivendolo,  un negozio di calzature, un negozio di tessuti, Maria 'a Marrucarmina (la moglie di mastro Carmine Chiodo) un negozio di elettrodomestici  e una rivendita di tabacchi.  Le osterie, i bar e i saloni erano dei veri e propri centri di aggregazione e di socializzazione dove la gente si incontrava e discuteva di tutto. Nel bar Quintieri, all'incrocio tra via Misericordia e via Portapiccola, c'era anche un bigliardo a stecca e un altoparlante collegato a una radio col grammofono che diffondeva le canzoni in voga negli anni '40 e '50. Fu da quell'altoparlante gracchiante che ascoltai da bambino le note de "Lu pecuraru de Cerenzia" e de "La donna riccia" di Modugno.  Nel piccolo slargo  davanti la casa dei signori Manfreda,  verso la metà del Novecento,  erano ubicati, fra l'altro,  l'ufficio postale che, trasferitosi poi in piazza per un breve periodo, fu ospitato nella casa di donna Lisetta Lucente alla Misericordia, e l'ambulatorio medico del dottore Vincenzo Ambrosio, di fronte casa Manfreda.   Altre attività commerciali e artigianali erano poi sparse nel resto del paese, come i negozi di alimentari di De Rose alla Iudeca, di Pignanelli in via Simonetta, l'osteria di Salvatore Lombardo all'inizio di Salita Castello, il tabacchino di Giovanni Marullo in via Chiesa, i due negozi di Alberto e Francesco Macrì (Tata) in Salita castello, le falegnamerie di mastro Peppino Pitaro e di mastro Peppino Di Rosa alla Destra e la forgia di mastro Orlando Girimonte ai Mergoli.

 

                                              LA PREVENZIONE DEL MAL DI TESTA 

   Secondo un’antica credenza popolare caccurese spuntando una ciocca di capelli il primo venerdì di marzo  ci  si liberava del mal di testa per tutto l’anno senza dover ricorrere agli analgesici.  Una medicina popolare che ricorda un po' quella di Plinio il vecchio di grande attualità in questo periodo di terrapiattisti, di scie chimiche, di falsi sbarchi sulla luna e di vaccini che provocano l'autismo che probabilmente si affermò quando si dava la caccia ai gatti, malvagie creature amiche delle streghe. 

 

                       LE FARMACIE CACCURESI DA LUISA DE MATTEIS A EMILIO SPERLI' 

 

   Il 25 aprile del 1922 il Comune di Caccuri autorizzò l’apertura di una farmacia di proprietà del dott. Vincenzo De Franco in sostituzione di quella della signora Lucia De Matteis.  Don Vincenzo, oltre che in medicina e chirurgia, era anche laureato in farmacia e i suoi prodotti galenici erano molto efficaci. Quando fu nominato segretario comunale in sostituzione del cognato dott. Vincenzo Ambrosio che divenne medico condotto, per evidente incompatibilità con l'ufficio pubblico ricoperto, dovette cedere la condotta al dottore cutrese Raffaele Piterà la cui farmacia era ubicata in uno stabile di Salvatore Durante in via Simonetta e quando anche Piterà, uomo di grande compagnia, famoso "epicureo" e gaudente  lasciò libera la condotta, questa passo al dottor Gaetano De Franco che trasferì la farmacia nell'antico palazzo  De Franco in via Buonasera. Nei primi anni '60, infine, gli subentrò il dott. Emilio Sperlì e la farmacia si trasferì in Salita Mergoli.

 

                                                                          ' A QUINNICINA 



     Poiché per le nota emergenza sanitaria quest'anno si è dovuto rinunciare anche alla Quinnicima, la secolare tradizionale dialettale preghiera delle donne caccuresi, chi volesse recitarla può farlo on line. L'importante che la tradizione venga conservata. 

Deus in adjutorium meum intende

Domine ad adjiuvandum me festina

Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo

Com’era in principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli, amen.

Grazie Segnure, ne ngninocchjiamu alli peri vorri e ne sentimu cumpessàre tutti i peccati c’hamu fattu ‘e quannu simu nati, fino a mo. O mio amato buon Gesù, chi pe’ la redenzione ‘e ru munnu volisti nascere, patire e morire, circondato ‘e ri Jurei, ‘e Jura traditure, con nu baciu traditu, cumu agnellu attaccatu e portatu allu macellu; portato addue Anna, Erode, Pilato e Caifa, accusatu ‘e ri farsi testimoni, vattutu cu ‘na canna, ncurunatu re spine, sputatu n’faccia, abbiveratu cu’ fiele e acitu, cu tri chjovura ‘nchjiovarunu i peri e le manu e tutte l’ossa e ru corpu se meravano.  Segnure, pietà e misericordia ‘e ru cielu e re la terra, di boni e di mali.

Signor mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio  della Beata Vergine Maria, aprite le vostre sante orecchie ed ascoltatemi come ascoltaste l’Eterno Padre sul monte Calvario.

(Credo)

Signor mio  Gesù Cristo, Crocefisso, figlio della Beata Vergine Maria, aprite i vostri santi occhi e guardatemi come guadaste dall’albero della croce la vostra cara madre afflitta e addolorata Maria:                                     (Credo)

 Signor mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria, aprite la Vostra Santa Bocca e parlatemi come parlaste a San Giovanni l’Evangelista quando lo desti per figlio alla Vostra Dilettissima Madre Maria. (Credo)

 Signor mio Gesù Cristo Cocifisso, figlio della beata Vergine Maria, aprite le Vostre Sante braccia ed abbracciatemi come abbracciaste l’albero della Croce e la Vostra Cara Madre Afflitta e Addolorata Maria. (Credo)

 Signor mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria, aprite il vostro Amorosissimo cuore e in tutto ciò che vi domando esauditemi come piace alla Vostra Santa Volontà. (Credo)

Tre “Credo” in onore delle tre ore che stette il Signore in agonia.  

Oi Gesù,  oi Gesù, tutti quanti chjiamamu a Gesù, Gesù quannu me veni appressu e ra grazia  veni. Gesù mio quantu si’ bellu, Gesù mio quantu si’ caru, Gesù  mio quantu si’ riccu e nue simu poveri,  tu fannìla ‘a caritate cumu a tutte l’atre anime  chi simu unite alla preghiera, Gesù mio stenna ‘sta manu ca tutti nue facimu pace, ca ‘stu sdegnu s’alluntana, Gesù mio cumu me piaci. Oi Gesù, oi Gesù, oi San Giuvanni mio, convincialu tu,  ca tu he dichiarare ca ‘sta’anima mia si l’ha de pijare Gesù, Giuseppe e Maria. Cruce Sante ‘e ru Segnure, tu veni cu’ rigure e lu spiritu infernale mannalu cu lu male, de male e d’agonia, Cristo andate via. Fujiti, male occasioni, ‘e ra mente mia, ‘e ra casa mia, ‘e ra gente mia, ‘e ra ruga mia. Segnure pietà e misericordia du cielu e da terra, ‘e ri boni e di mali. Chi bella cosa chi va pe’ la terra, è lu Gloriosu Figliù re Maria, chillu c’ha criatu celu e terra e spargia sangu pe’ l’anima mia. O mio amato e buon Gesù, tu quannu si chjiamatu, tannu veni, alle quattro, alle sie, alle nove ure, quannu nascia la Luna e quannu chjova, veni a ‘sta casa, re ‘sta peccatura ca tutta chista casa cunsùla, apri l’ali ca cu tia mi c’aruru, te pigli l’alma e me lassi lu core. Stamattina jennu pe’ via scontai Gesù, Giuseppe e Maria. Io le fìcia ‘na vera nchinata, si mi ce vo’ a mia a ‘sta compagnia. Illa ha rispusu cu parola amata: “Figlia, si vo venire sta a tia”. Mo chi me viju re Gesù mmitàta, lassu lu munnu e vaju cu Maria, io te salutu e te ricu l’Ave Maria.

Grazie Segnure e tante benedizioni pe’ quantu anime criasti allu munnu e ra prima fina alla fine.

Grazie Segnure e tante benedizioni pe’ quantu pampine ‘e arbuli ce su’ allu munnu.

Grazie Segnure e tante benedizioni pe’ quantu cocci ‘e rina ce su’ allu munnu.

Grazie Segnure e tante benedizione pe’ quantu gucce ‘e acqua c’è su’ allu mari finu a chi ‘e benedizioni superiscianu tutti i peccati chi ce su’ 'a terra. 

                 CURIOSITA' ANAGRAFICHE CACCURESI E LA STORIA DI PANAZZU               

    Nel Cinquecento a Caccuri, figuravano, tra gli altri, anche questi cognomi: Gaita, Crissune, Accepta, Onesto, Mataxa, Santello, Maglocco, Cucchiero, Capillo, Bucchinfuso, Crescione,  Quattromani, Spolveri, Xpano, Accimbatore, Patrizio, Mingazio, tutti scomparsi da secoli. Altri cognomi presente nell'anagrafe caccurese nei successivi secoli e comunque fino alla metà del XIX secolo erano i Manfreda, i Procopio, i Montemurro, i Leonetti, i  Iesu, quest'ultimi di probabile origine ebraica. 
   A proposito dei Iesu, oltre al giovane Francesco, del quale abbiamo parlato qualche giorno fa, brigante per "legittima difesa", condannato a morte dai francesi e fucilato, Caccuri diede i natali anche al famigerato Rosario Iesu, meglio noto come Panazzu, un sanguinario bandito datosi alla macchia per avere ferito gravemente un certo Michele Aiello nel corso di una lite   al gioco della passatella (padrone e sotto). Catturato dagli squadriglieri del barone Barracco nel 1842 dopo sei anni di scorrerie e latitanza,  in una campagna tra Gallea e Furnia oggi conosciuta (da pochissimi vecchi contadini) come " 'a valle 'e Panazzu". Per molto tempo gli storici locali attribuirono a Panazzu origini casabonesi, ma sarebbe bastata una ricerca, anche superficiale presso l'Archivio di Stato di Cosenza per scovare le liste di fuorbando e gli atti del processo Panazzu e scoprire che si trattava di un caccurese. 

                                               SAMBUCO CONSERVA E SCIRUBBETTA



    L’origine del toponimo “Sambuco”, la località a ovest del paese,  potrebbe derivare dalla diffusa presenza, nella zona, della omonima  pianta la cui infiorescenza viene usata per la preparazione di decotti e sciroppi emollienti e per le gustose “pitte cu’ maju”. Il sambuco, infatti, è conosciuto da noi col nome di “maju”,  perché fiorisce a maggio. Più sicura, invece, l'origine del toponimo Conserva, dalla conserva della neve che esisteva nella zona fino ai primi decenni del Novecento. La neve, che a quei tempi cadeva abbondante anche nel territorio caccurese,  veniva conservata in una grande buca scavata nel terreno e foderata di paglia che fungeva da isolante termico. Lo strato superiore veniva ricoperto con terra. Ciò permetteva di conservare la neve fino all'estate e di poter consumare anche a luglio o ad agosto la "scirubbetta" (dall'arabo sharbet che poi è anche l'origine di sorbetto), il più antico gelato al mondo. La scirubbetta caccurese si preparava generalmente aggiungendo alla "nive ciciarusa" del mosto cotto, ma si può usare anche miele, succo d'arancia o caffè, secondo i gusti. Subito dopo la seconda guerra mondiale poi, sotto la guida del cugino Pietro De Mare, mio padre e mio zio Ercole Marino realizzarono una centrifuga che montava la neve consentendo di trasformare la scirubbetta in un gelato che si avvicinava a quelli di oggi e che vendevano durante la festa di Ferragosto e San Rocco. La neve veniva trasportata  da Conserva in paese con gli asini in contenitori anch'essi isolati termicamente con la paglia.

 

                      'U FERRU FILATU (IL PIERCING DEL MAIALE)  

   
                           

    Chi come me o come tanti altri più anziani di me ha avuto la fortuna di ritrovarsi fanciullo cinquanta – sessanta anni fa o anche prima, non può certo raccontare di essersi annoiato. A quei tempi, infatti, la vita di un fanciullo caccurese o di qualsiasi altro piccolo paese della Calabria, ma anche di altre regioni italiane, perfino di quelle che oggi hanno la puzza sotto il naso, era molto intensa e interessante e ricca di esperienza, anche se difficile.  Gli stimoli, le curiosità, le cose affascinanti da vedere non gli mancavano certamente perché viveva a stretto contatto con la natura, con gli animali, con le attività produttive, insomma con la vita reale della sua comunità. A qui tempi non esistevano fanciulli che non conoscevano la gallina, il maiale, la pecora, l’asino; difficile trovare un bambino di allora che scambiasse una busta in tetra pak per la mammella di una mucca come può capitare adesso. Vivendo con gli animali e fra gli animali si assisteva spesso gratuitamente a spettacoli impagabili, come, ad esempio, l’evirazione del maiale. Anche noi avevamo il nostro bravo sanaporcelle, figura magistralmente descritta da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, un certo zu 'Ntone 'u Petrise, che metteva la sua preziosa scienza al servizio della zootecnica “casarula” e, quando a primavera o in estate sentivano gli strilli disperati di un maialetto, accorrevamo, assieme ai gatti e ai cani del paese (ma quelli lo facevano per interesse e non per curiosità) ad assistere alla cruenta operazione.
      Un’altra operazione curiosa, un po’ meno cruenta e invadente, ma certamente dolorosa che doveva subire il povero animale era quella del “ferru filatu.” A quei tempi, infatti, il cemento scarseggiava o, comunque, se uno lo comprava cercava di utilizzarlo per mettere su quattro pietre e costruirsi una casetta, ma non poteva certo prendersi il lusso di sprecarlo per altri usi. Per questo motivo il pavimento (si fa per dire) dei porcili fabbricati con muri a secco o con quattro tavole vecchie incrociate tra loro, era quasi sempre in terra battuta. Ora i maiali avevano la simpatica abitudine di “rivullere” (rivoltare) il terreno adoperando il labbro superiore come se fosse un piccone.  Erano così abili e laboriosi che in pochissimo tempo riuscivano a scavare vere e proprie voragini che mettevano a serio rischio la stabilità del porcile e, a volte, addirittura finivano per demolirlo. Per evitare simili catastrofi i nostri nonni ricorrevano a una soluzione miracolosa: l’applicazione del “ferru filatu”. Generalmente due uomini afferravano il maialino e, mentre uno lo teneva stretto, l’altro, con una lesina da calzolaio gli praticava un grosso foro sul labbro superiore; poi vi infilava un pezzo di filo di ferro che, aiutandosi con una tronchese e una pinza,  attorcigliava in modo da non sfilarsi; quindi lo tagliava all’altezza di un paio di centimetri sopra labbro. Dopo di che l’animale, un po’ spaventato, veniva lasciato libero nel suo ambiente. La ferita generalmente cicatrizzava nel giro di tre – quattro giorni e il filo di ferro faceva così bella mostra sul labbro dell’animale che, appena si provava a scavare una buca, avvertiva una fitta al labbro che lo costringeva a desistere.
    Questa curiosa operazione mi viene in mente spesso ogni volta che mi capita di vedere in televisione o per strada un ragazzo o una ragazza col suo bravo piercing sul labbro o, addirittura, sulle palpebre o sulla lingua come se avessero scoperto gli extraterrestri, mentre i vecchi contadini quest’arte la praticavano da secoli. E poi mi vien da pensare quanto dev’essere bello per il loro partner baciarli o  accarezzarli e sentire sulle labbra o al tatto la dolcezza e il calore del metallo.

 

                ROSUZZA 'E PETRE - PETRE

       Viveva a Caccuri a cavallo tra il XIX e il XX secolo, una povera donna di nome Rosina, ma che tutti chiamavano Rosuzza e che, purtroppo, non sono riuscito a identificare. Era una sempliciotta, analfabeta che non aveva la più pallida idea di come fosse fatto il mondo. Viveva da sola perché il marito e i figli erano da tempo emigrati in America e il sogno suo impossibile era quello di poterli un giorno raggiungere per stare con loro e vincere la solitudine.
        In paese le volevano tutti bene, giovani e anziani, ma si sa, anche se si vuol bene a qualcuno, se questo qualcuno è un debole, un sempliciotto, uno che si beve tutto e non ha malizia, finisce per diventare la vittima di scherzi e sfottò a volte anche pesanti e la povera Rosuzza non sfuggiva a questa regola.
      Ogni volta che era preda della malinconia e si sentiva più sola, Rosuzza ripeteva, a chiunque avesse vicino, il  proposito di raggiungere  i suoi negli Stati Uniti. I paesani, divertiti le chiedevano come pensava di andare in America e lei, con tutta  l’innocenza e il candore di cui sono capaci le persone semplici, rispondeva che vi sarebbe andata a piedi. Allora subentrava la seconda obiezione:  “Ma come farai, ti perderai, tu non conosci la strada come farai per arrivare in un posto così lontano?", ma anche per questo Rosuzza aveva la sua soluzione: “Addimmannannu, addimmannannu.”
      A questo punto i burlone di turno le parava davanti l’ostacolo che a suo giudizio sarebbe risultato insormontabile: “Ma non puoi andare in America a piedi; c’è il mare, come farai a camminare sull’acqua?” E Rosuzza senza scomporsi: “’E petre, ‘e petre” (passando da una pietra all'altra come quando si attraversa un rigàgnolo). 


                                L'INGLESE DI NONNO SAVERIO

   Come tanti, forse come  tutti quelli che,  emigrati in America per lavoro,  fecero ritorno in Italia, per loro volontà o perché costretti da qualche grave motivo, nonno Saverio sentì per tutta la vita una struggente nostalgia per quel paese che, anche se lo aveva sfruttato costringendolo a scavare carbone a centinaia di metri sotto terra come un dannato, gli aveva dato, per la prima volta in vita sua, un po’ di dignità, quella dignità che invece gli aveva negato il Regno d’Italia dei Savoia che era nato circa un ventennio prima di lui e, soprattutto, gli aveva consentito di mettere da parte le famose seimila lire che occorrevano, agli inizi degli anni venti a Caccuri per costruirsi un monolocale di otto metri per cinque. Così, quando nel 1958 un ictus e una conseguente paralisi lo costrinsero a starsene a casa, lui che nella vita non aveva mai avuto un attimo di riposo e che quando tornava la sera a casa con l’asino carico di legna si caricava anch’egli più della bestia,  mi faceva sedere accanto a lui e mi parlava di quel mondo “fiabesco e sconosciuto.” 
   Ricordava ancora un po’ di quell’inglese maccheronico, probabilmente infarcito da termini gergali o forse dialettali americani che, da analfabeta,  era riuscito a imparare e che pronunciava ovviamente italianizzandoli, anzi caccuresizzandoli  senza badare alla purezza della lingua e, spesso, cercava di insegnarmi qualche vocabolo. Così mi divennero familiari parole come “échis” che poi scoprii essere gli  "eggs"   e “cisu”, cheese.
    A proposito di “cisu” una volta mi raccontò la storiella di un  napoletano, che entrato in uno store per fare acquisti, non riusciva a farsi capire dal proprietario e che, persa la pazienza apostrofò il gestore con un “Pozza murì accisu!” ottenendo, finalmente l’agognato formaggio.
     Da nonno sentii per la prima volta la parola “country”, che lui pronunciava sbrigativamente “contrì” con l’accento sulla “I”,  nel contesto di una canzoncina americana che non ricordo e che parlava della nostalgia di un emigrato per il suo paese. E ogni volta che la cantava (ma forse la cantava apposta quando era incazzato con l’Italia), malediceva il “suo country” nel quale era tornato solo per portarsi dietro la moglie  e i figli in America e dal quale non era più riuscito a ripartire.
    Sempre da nonno sentii per la prima volta in vita mia un motivetto orecchiabile e accattivante in una lingua incomprensibile che scoprii poi essere la famosa It's a Long Way to Tipperary” e fu ancora nonno Saverio a parlarmi per primo di un giovanissimo attore comico che aveva avuto modo di vedere in America nel corso di uno spettacolino per minatori, un tipetto con il baffetto, la bombetta, il bastone e delle buffe scarpe, che lui chiamava a modo suo, nel suo inglese approssimativo,  “Ciaracciappa” e che era in realtà il grande Charlie Chaplin.

 

                                      FRATELLI FODERO FUOCHISTI OVVERO "I PURBERARI"

      Nella prima metà del XX° secolo gli spettacoli pirotecnici della festa di San Rocco e delle altre feste che si celebravano a Caccuri erano curati da fuochisti del luogo, i fratelli Nicola e Vincenzo Fodero, originari di Belcastro, ma sposati  con ragazze caccuresi e residenti  nel nostro paese da molti anni. Uno dei numeri più apprezzati dai giovani e meno giovani del tempo era il famoso “asino scoppiettante”, una carcassa a forma di somaro costruita con stecche di legno e altri materiali di fortuna ed imbottita di girandole e botti che zu Nicola (a destra nella foto) si caricava sulle spalle prima di accendere le girandole  e di mettersi a “sgroppare” di qua e di là sulla piazza in un fantasmagorico gioco di luci e colori per la gioia dei presenti.

 

                                               'E CACCURI MANCU 'U PORCU



    Secondo il compianto dottor Aragona, autore del pregevole volume “Cerenzia, notizie storiche sulla città antica”, l’espressione “ ‘E Caccuri mancu ‘u porcu!” spesso sulla bocca degli abitanti dei paesi vicini, avrebbe origine nella nota vicenda del sequestro di una mandria di maiali di proprietà dell’Abbazia di San Giovanni in Fiore ad opera dai dipendenti del duca don Marzio Cavalcante nel XVII° secolo, "condotti prigionieri" a  Caccuri a bastonate. Tale ipotesi, però, non sembra suffragata da alcuna prova, né sono stati evidenziati nessi con i fatti di quei tempi. Forse potrebbe trattarsi di una di quelle solite invettive rivolte ai cittadini dei paesi vicini con i quali, inevitabilmente, si creano conflitti e antipatie, come la frase “Gente ‘e San Giuvanni né pe’ amici, né pe’ cumpagni.”

   

                     IL TEATRO VIAGGIANTE NEL SECONDO DOPOGUERRA

 

      Negli anni ’40 dello scorso secolo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, anche  Caccuri era meta di compagnie teatrali viaggianti sui carri di Tespi che giravano in lungo e in largo la penisola cercando di sbarcare il lunario facendo dimenticare alla gente gli orrori della recente guerra con le loro “mirabolanti” commedie. Spesso, qui da noi, attori e capocomici erano vittime di piccole truffe e raggiri messi in atto da non troppo onesti giovanotti che si intrufolavano nel teatrino improvvisato (in via Parte nel garage Ambrosio o nel palazzo De Franco) con le più furbesche trovate, senza pagare il biglietto. Alcuni personaggi delle opere rappresentate divennero così popolari da trasformarsi in soprannomi di gente del luogo come "Famiglio", soprannome del compianto, carissimo compare Rocco Parrotta.

                                                                   A MARIETTA MORRONE LOPEZ
                                                                          di Umberto Lafortuna

 

      Riordinando i miei archivi mi è capitata tra le mani la fotocopia di questa stupenda ode del poeta Umberto Lafortuna dedicata alla signora Marietta Morrone Lopez che mi sembra degna di essere tramandata ai posteri per la bellezza dei versi e quella di due persone come la signora Morrone e l'illustre maestro caccurese che, oltre all'amica in questione, celebrò con il suo canto anche alltri amici come Ernesto Benincasa e Vincenzo Guzzo mettendo in luce tutta la sua grandezza, non solo di poeta per l'infanzia e vernacoliere. 

     Trascrivo questo capolavoro per chi non avese dimistichezza con la grafia di un tempo.

A Marietta Morrone Lopez con sincera, devota amicizia.

Diana nella caccia ebbe fortuna
Perché inseguì gli uccelli con la luna,
Ma tu, senza la luna e senza stelle,
Ai buoni colpi alterni le padelle.

Ma se la dea ti vinse per bravura
Nel giusto tiro, non te ne turbare
Quell'era zitellona e niuna cura
alla famiglia la potea legare.

Invece sposa, madre assai virtuosa
Conforto, luce, amor della famiglia,
Più di Diana tu sei preziosa
Sei rara perla nella tua conchiglia.

Caccuri 27-12-1929
Umberto Lafortuna

                                                                   TACCE E POSTE

 

 

    Chi ha meno di quarant'anni difficilmente avrà mai visto una "posta o una taccia", ma chi ha la mia età le ricorda benissimo perché gli capitava di vederle quotidianamente. Le poste si trovano ancora negli allevamenti di equini o in qualche scuderia, ma le tacce sono sparite da decenni cancellate dalla tecnologia come le macchine da scrivere, il calamaio, il lume a petrolio, perfino il flop disk. 
    Le tacce erano piccoli chiodi con la testa schiacciata a forma di ottagono che servivano per chiodare le scarpe dei contadini come misura antiscivolo, ma anche e soprattutto per preservare la suola e farla durare più a lungo. Erano quegli scarponi sporchi di terra che la sera il contadino puliva accuratamente e spalmava di sego (sivu), grasso di equini o di bovini, ma che i nostri nonni più poveri prelevavano dalla "vissica", la vesciga di grasso di maiale, praticamente strutto. L'operazione aveva lo scopo di ammorbidire la tomaia e proteggerla dalla terra e dagli agenti atmosferici per evitare che si tagliuzzasse.  Per molti le scarpe con le tacce, oltre che essere adoperate in campagna, erano anche le calzature per le feste e per i ricevimenti, tanto allora, almeno da noi, non ci si imbatteva in un pavimento con le piastrelle di ceramica o in marmo, al massimo ricoperto di vecchi mattoni cotti in uno dei mattonifici della zona come quelli di San Lorenzo o di Cerenzia. Le poste, invece, erano i chiodi con i quali i maniscalchi fermavano il ferro di cavallo, di asino o di bovino sullo zoccolo dopo averlo spianato accuratamente spianato con la "rosula", un particolare scalpello. Dopo aver posizionato il ferro e fissato le "poste", il maniscalco le spuntava con una tronchesi e la cavalcatura era pronta per il lavoro.  
 

P.S.
Il maniscalco nella foto era il compianto mastro Pietro Di Rosa, mentre il proprietario del mulo era zu Rosario Pasculli (Rusaruzzu 'u muletterri dei Barracco).

 

                                          SANTA RUMINICA

       Fino alla metà del secolo scorso quando un cacciatore uccideva un lupo riceveva il plauso di tutto il paese, soprattutto dei pastori ai quali la povera bestia ogni tanto scannava qualche pecora. La carcassa dell'animale  veniva portata in trionfo per le strade del paese seguita da una folla festante. Nella bocca si infilava un legno appuntito al quale era stata  infilzata un'arancia per tenere spalancate le fauci dell'animale e ognuno offriva un dono a colui  che aveva liberato il paese dalla bestia feroce. Una curiosità: il lupo ucciso con l'arancia in bocca veniva chiamato "Santa Ruminica" (Santa Domenica), forse perché, in ricordo del rispetto dei leoni nei confronti della santa che si rifiutarono di sbranarla quando fu condannata al martirio per cui i carnefici dovettero decapitarla, era considerata anche la patrona del lupo. I lupi venivano anche scherzosamente definiti dai nostri nonni "vacaturi", sfaccendati, nemici del lavoro. 
    L'ultimo lupo portato in "processione" nel paese fu ucciso, sul finire degli anni '50, dal signor Vincenzo Pasculli, impiegato comunale che praticala come hobby la caccia. 

                                                 CIAVULE (taccola, corvus monedula)

   "Che fine hanno fatto 'e ciavule?" è la domanda che ci poniamo in molti dopo la scomparsa di questi socievoli animali che  fino agli inizi degli anni '90   vivevano nei fori per impalcatura (grupi 'e nnàita)  del castello, nonostante la caccia spietata che gli davano i ragazzi con le loro frecce (fionde) da non confondere con i dardi  che scagliavamo con  l'arco (freccia a spizzìnguli dove 'u spizzìngulu era appunto il dardo). Per evitare equivoci  dirò  che, oltre che i dardi, con il sostantivo spizzingulu indichiamo anche la parte della tagliola per gli uccelli dove viene collocata l'esca.
   Ogni anno, nel periodo della nidificazione, quando nascevano i piccoli, decine e decine di ragazzi stazionavano nella villa comunale, ai piedi del castello sul lato nord e con le loro fionde tenevano lontane le madri che cercavano disperatamente di portare cibo ai figlioletti. Quando i piccoli, affamati si affacciavano dal foro in cerca della loro madre che tardava, spesso cadevano di sotto ed erano facile preda dei monelli, altre volte venivano colpiti dalle pietre scagliate dalla fionde finendo comunque a terra. Allora, purtroppo,  erano altri tempi e non c'erano ancora o perlomeno non operavano nella nostra zona le associazioni per la protezione degli animali come la Lipu per cui nessuno si premurava di far finire quel gioco crudele.  D'altra parte anche adesso, nonostante siano state approvate diverse leggi per proteggere gli animali, non si riesce ancora a vincere la battaglia contro la caccia. "Bisogna pazientà fino ar momento che quarche legge nun distinguerà chi ce fucila pe' necessità da chi ci ammazza pe' divertimento" scriveva  Trilussa, ma quel momento non è ancora arrivato. Comunque, nonostante quella spietata, barbara usanza, le ciavule non hano mai abbandonato il nostro paese e ci facevano tanta compagfnia; lo hanno fatto invece, stranamente, quando quella stupida caccia era cessata da oltre vent'anni. Chissà perchè? 

                                                                     ‘U RRUMMULU 

    Prima di parlare del gioco bisogna premettere che, per il 90%,  i "rrummuli" dei fanciulli caccuresi, erano fabbricati dagli stessi, spesso mettendo a repentaglio le mani esposte, pericolosamente, alle asce o alle raspe. Ma si trattava, quasi sempre, di veri e propri gioielli. I migliori erano quelli di "ilice" (elce, leccio), un legno molto duro che preservava " ' u rumulu" dai danni di cui parleremo in seguito. Le trottole che si compravano nei negozi, colorate e con la parte inferiore rigata, venivano disprezzate dai ragazzi che le chiamano spregiativamente "tavulonzi" (tavoloni, pezzi di legno molliccio).  Il gioco consisteva nel lanciare la trottola, attorno alla quale si attorcigliava un lungo spago,  cercando di colpire con la punta, quella del malcapitato di turno che era costretto a "parare", cioè a lasciare la propria trottola per terra alla mercè degli spietati compagni. Ovviamente le punte delle altre trottole lasciavano il segno, soprattutto se quella "parata" era un "tavulonzo". Se non la si colpiva direttamente, il lanciatore aveva la possibilità di prendere sul palmo della mano la propria trottola mentre ancora girava, accostarsi a quella "parata" e colpirla con la propria ancora in movimento. Se il lanciatore non riusciva a colpire la trottola direttamente o nemmeno  con la sua prendendola sul palmo della mano mentre ancora girava o, addirittura, non riusciva a fare girare la propria, doveva rassegnarsi a "parare" a sua volta "il suo rrummulu"  e assistere ai generosi tentativi di disintegrarglielo.
   Per stabilire a chi "toccava l'onore" di "parare" per primo, si tracciavano per terra dei cerchi concentrici (bersaglio) e si lanciavano le trottole. Chi colpiva più lontano dal centro o non riusciva a far girare la trottola, doveva rassegnarsi a fare da prima vittima.
    Per lanciare la trottola (minàre 'u rrummulu) c'erano due modi: " a mazza" e a "tira lazzu". Il primo era la tecnica che usavano quelli bravi, i campioni, il secondo quello delle schiappe come me. Per lanciarlo "a mazza" si avvolgeva la cordicella alla trottola, si portava la mano destra più o meno all'altezza dell'orecchio destro e si faceva roteare il braccio dall'alto verso il basso.  In questo modo si imprimeva al giocattolo una quantità di energia molto forte e la trottola girava molto più a lungo. Nel secondo caso, invece, la si portava all'altezza del petto e la si lanciava in avanti quasi parallela al terreno imprimendole una quantità di energia molto minore. 
   Anche di questo gioco esisteva una variante detta della "fossarella" (la buca). Tracciato il bersaglio, si scavava una piccola buca nel terreno alla distanza di una decina di metri. Stabilito col sistema del bersaglio  chi doveva "parare" la prima trottola, si stabiliva anche il numero delle "pernate", cioè dei colpi che ogni singolo giocatore   poteva infliggere alla trottola che finiva nella buca,  col perno metallico del suo "rrumulu". Allora il malcapitato di turno posava la sua trottola al centro del bersaglio e gli altri lanciavano il loro "rrummulu" cercando di colpire quello dell'avversario e infliggergli il primo danno. Poi prendeva la sua trottola sul palmo della mano mentre ancora girava, si avvicinava a quella posta a terra e gliela lanciava contro cercando di spingerla verso la buca. Questa operazione poteva essere ripetuta, dallo stesso giocatore, fin quando la sua trottola girava. Se sbagliava doveva depositare, a sua volta, la sua, nello stesso identico punto nel quale si trovava quella non colpita. Alla fine una delle trottole finiva nella buca e tutti i giocatori, a turno, le assestavano il numero delle "pernate" prestabilito tra le lacrime del povero proprietario. A volte, per evitare l'onta e i terribili danni al proprio "rrummulu", il poveraccio, lo afferrava di colpo e se la dava a gambe e allora erano botte da orbi.
  Per dovere di cronaca va detto che il più grande giocatore di "rrumulu" che io abbia mai conosciuto era il mio carissimo amico e coetaneo Antonio Mercuri che saluto con affetto.

 

                                                                             ‘A JOCCA  

" Me para ca se vo' parare jocca" esclamava mia madre quando una gallina cominciava a crocchiare e col un comportamento insolito, manifestava il suo "desiderio di maternità".  Allora la mamma prendeva una cesta di vimini, qualche straccio e si affrettava a prepararle il nido contenente un discreto numero di uova, sempre, chissà per quale arcano mistero, in numero dispari, che la chioccia si affrettava pazientemente a covare. Allora anche per noi fanciulli iniziava un'attesa impaziente che durava fino a quando le uova non cominciavano a schiudersi e i pulcini completavano l'opera liberandosi completamene dal guscio. Qualche volta capitava che fra le uova ve ne fosse uno "cuvatusu" cioè non fecondato dallo sperma del gallo, destinato fatalmente a marcire sotto la chioccia per cui dovevamo sorbirci il suo pestilenziale odore.  Ogni volta che la chioccia si prendeva una breve pausa allontanandosi per qualche attimo dal nido correvamo a esaminare attentamente le uova nella speranza di scorgere  qualche segno di vita.  Poi, quando nascevano i pulcini  e la covata cominciava a razzolare nel cortile, la seguivamo a prudente distanza perché la chioccia, temendo che volessimo far male ai piccoli, centuplicava la sua aggressività. Oggi anche da noi è difficile trovare qualcuno che allevi ancora galline e chi lo fa le compra già quasi adulte, di quelle nate nelle incubatrici.  Insomma una sorta di fecondazione assistita. Per le galline non si applica la legge 40 e la chiesa non è contraria alla riproduzione dei polli con metodi artificiali. Almeno per ora.  Addio vecchia, nevrotica, amata jocca!

 

                                                              ‘U RIOLU

    L’orzaiolo è una fastidiosa infezione di alcune ghiandole dell’occhio che si manifesta con una leggera tumefazione della palpebra, un malanno non molto grave che di solito guarisce da solo senza problemi, ma che comunque è bene non sottovalutare.
        La causa dell’orzaiolo, in dialetto “riolu”, secondo i nostri nonni aveva un’origine curiosa.  Insegnavano in fatti i nostri antenati che bisognava fare molta attenzione, quando si mangiava in presenza di una donna in stato interessante e e invitarla ad assaggiare un po’ di tutto di quello che si stava mangiando. Qualora chi mangiava trascurasse di farlo per maleducazione o semplicemente per sbadataggine  e la donna desiderasse assaggiare una qualsiasi pietanza, magari senza chiederlo per discrezione, lo scortese commensale sarebbe stato colpito, senza alcun dubbio, da un’orzaiuolo, ‘nu riolu, appuntu, mentre il bambino sarebbe sicuramente nato con una voglia.  Che dire, ragazzi, anche se oggi nei nostri paesi è sempre più improbabile imbattersi in una donna incinta vista lo spaventoso decremento demografico e se le occasioni per mangiare in compagnia praticamente non esistono più, stative accorti, non si sa mai.

 

                                                      ‘U PUTIGHINU (IL TABACCHINO)

   Fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso nel territorio caccurese esistevano ben 5 rivendite di “Sali, tabacchi e chinino di Stato” (Putighini). Tre erano ubicate a Ponte di Neto, Botteghelle e Santa Rania, 2 nel capoluogo (via Misericordia – Maria Mele, vedova Dardani ) e via Chiesa (Giovanni Marullo).  Negli anni ’20 e ‘30 ve ne era una sola gestita da Domenico Caccuri (Micuzzu Caccuri).
   Nei vecchi “putighini”, a partire dal 1895, si poteva comprare, oltre al tabacco e al sale generi del monopolo di Stato, anche il chinino, il famoso alcaloide che serviva per curare la malaria, una malattia diffusa in tutta l’Italia post unitaria, un medicinale prodotto dagli inglesi che ne avevano il monopolio e venduto a caro prezzo il che condannava i poveri a rinunciare alle cure. Per risolvere il problema, grazie all’interessamento del deputato e glottologo Federico Garlanda, fu approvata una legge con la quale lo Stato acquistava grandi quantitativi di chinino per rivenderlo a prezzi popolari nelle farmacie e nelle tabaccherie.

                                                                                  'A ZAGAROGNA

    Negli anni ’50 la vecchia corriera  per Crotone passava da Caccuri alle quattro del mattino, nel buio più pesto. Per questo motivo i Caccuresi l’avevano simpaticamente ribattezzata “ ‘a zagarogna”, il barbagianni, che, come è noto, è un uccello notturno.  A quei tempi un viaggio a Crotone o a Catanzaro poteva a volte trasformarsi in un'avventura, se non un incubo. Non era infrequente, infatti che la vecchia corriera forasse o l'acqua del radiatore andasse in ebollizione il che costringeva lo "chafferro", come lo chiamavano i nostri nonni, a un supplemento di fatica pe riparare il guasto. Fra l'altro doveva percorrere la tortuosa e a tratti sconnessa 106 per cui, per raggiungere da Caccuri la "città di Milone" impiegava oltre un'ora quando tutto andava bene. Verso la metà di quel decennio, oltre al pullman della ditta Romano, erano in servizio due noleggiatori, Luigi Pisano, con una Fiat Diesel 1400 e l'anziano Domenico Capozza con una delle prime Fiat 600.

 

                                          QUANDO SE 'MMIAVA LA CAMPANA

    Fino a quasi la seconda metà del secolo scorso la grande campana della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, fusa nel 1578 da Angelo Rinaldi per l’Università di Caccuri, veniva suonata a distesa ( 'mmiata) facendola oscillare pericolosamente  nel giorno in cui veniva eletto un nuovo papa. Quattro robusti giovani la spingevano con forza per imprimerle un moto oscillatorio. La cosa si ripeteva per alcuni minuti per comunicare l' "habemus papam" ai contadini sparsi per le campagne caccuresi. Il suono era così forte, assicuravano i vecchi caccuresi, che i rintocchi raggiungevano Altilia e Belvedere di Spinello. Il 2 marzo del 1939 in occasione dell’elezione al soglio pontificio di Eugenio Pacelli, papa Pio XII°, dopo qualche oscillazione all'improvviso si staccò il battaglio che finì su di un tetto di una casa di fronte il campanile sfondandolo. Da allora, per motivi di sicurezza, si pose fine a questa antichissima tradizione, ma il suono armonioso delle campane di Santa Maria delle Grazie, suonate magistralmente dal compianto Alfredo Rao, sagrestano della parrocchia, o da altri maestri campanari, specialmente in ocacsione di festività solenni, fu udito fino agli ultimi decenni del secolo scorso. 

 

                              FARFALLE E UPUPA NEL CULTO DEI MORTI CACCURESI

                                                 

  
Fra i nostri antenati, almeno quelli caccuresi, erano diffuse alcune curiose superstizioni che, ancora fino a qualche decennio fa, ci complicavano la vita e, spesso, creavano conflitti generazionali. Una era particolarmente stravagante. Una farfalla notturna che entrava in casa nelle calde serate estive attraverso una finestra lasciata aperta era, per i vecchi caccuresi del secolo scorso, sicuramente l’anima di un familiare defunto e veniva lasciata libera di circolare per casa. Ogni tentativo di scacciarla da parte di qualche “più sprovveduto” giovane componente della famiglia era pesantemente represso e l’incauto severamente redarguito.
  Altra superstizione sul tema della morte era  il canto dell’ùpupa (‘a pigula), il bellissimo uccello notturno celebrato anche dal Foscolo (l'ùpupa, e svolazzar su per le croci | sparse per la funerea campagna), nelle vicinanze del paese, era sicuramente un presagio di morte. Il giorno dopo, o al massimo nel giro di un paio di giorni, sicuramente qualcuno avrebbe cessato di vivere. Stesso valore premonitore aveva il guaire lamentoso e insistente di un cane.

 

                                         MATRIMONI E VISCUVATI RE LU CELU SU' CALATI

 

    Si sa, "Matrimoni e vIscuvati re lu celu su' calati", ma  le ragazze caccuresi in età di marito, nei secoli scorsi, avevano un sistema infallibile per sapere in anticipo che tipo di marito era loro destinato: quando volevano conoscere la sorte nuziale che le attendeva, gettavano  per strada una pietruzza e, dalla "meza porta"  guardavano attentamente il primo uomo che passava. Se era un contadino quella ragazza avrebbe sposato sicuramente un contadino, se passava un artigiano, sicuramente sarebbe stato un artigiano a portarla all’altare e così via.
    Per conoscere il loro futuro e se la fortuna sarebbe stata loro amica, ricorrevano, invece, a un oracolo originale, un rito particolare che veniva celebrato nel mese di giugno, il 23, vigilia della festa di San Giovanni Battista e il 28, vigilia della festa di San Pietro e Paolo. Dopo aver tagliato e bruciacchiato un fiore di cardo selvatico, lo esponevano sul davanzale di una finestra rivolta verso il mare e recitavano la seguente preghiera: “San Petru e San Paulu e San Giuvanni re Dio, facitime virere si fiorisca la fortuna mia.” Se il mattino dopo il cardo era rifiorito era presagio di grande fortuna se, viceversa, rimaneva bruciacchiato, era segno che la Dea bendata non era amica.