LO SPOPOLAMENTO DELLA CALABRIA   E DEL CROTONESE
di G. Marino

 

     Spesso mi sorprendo a riflettere sul curioso destino della nostra terra di Calabria che, in alcuni decenni,, anche se l processo è in corso da 142 anni, si è trasformata da  terra di immigrazione in terra di emigrazione con un devastante spopolamento continuo che sta portando alla scomparsa del popolo calabrese, della sua storia, della sua cultura, della lingua, del patrimonio demoetnoantropologico e alla desertificazione delle zone interne della nostra bellissima regione, compresa la Presila crotonese.
   La nostra regione anticamente era una terra densamente popolata da popolazione autoctone. Le zone interne come Casabona, Rocca di Neto, Caccuri, erano abitate sin dal neolitico come attestano per esempio, i ritrovamenti di asce neolitiche in contrada Patia nel 1929.
  In epoche relativamente più recenti la Calabria fu abitata da una lunga serie di popoli antichi tra i quali gli Aschenazi che discenderebbero da Aschenel, pronipote di Jafet figlio di Noè, gli Ausoni,  gli Enotri (Itali che daranno il nome prima alla regione e poi all’intera penisola italiana, i Tauriani, i Morget, i Siculi), Lucani, Bruzi, Greci e Romani. Seguirono i Bizantini, i Normanni, gli Angioni, gli Aragonesi, poi, con l’Unità dì’Italia arrivarono i piemontesi.
   Gli Ausoni erano popolazioni di origine Osca; gli Enotri discendevano da Enotro, figlio di Licaone, re degli Arcadi, gli Itali o Vituli, col loto re Italo, abitavano la Calabria centrale. Per curiosità, secondo alcuni storici greci il re Itali sarebbe vissuto sedici generazioni prima di Troia. 
  Come già detto, nel corso dei millenni e fino al XIX secolo alle popolazioni autocnone si aggiungono popolazioni immigrate come gli Achei, che fondarono la Magna Graecia e città come Kroton (poi Crotone) nel 708 a. C., Rhegion (Reggio) nel 730, Locri, Sybari ed altre ancora. E’ poi la  volta di Bizantini, Basiliani e, tra il XV e il XVIII secolo, gli Albanesi che fuggivano dalla loro terra conquistata dai turchi- ottomani e che oggi costituiscono la comunità arberesch i Calabria, custodi gelosi della loro anticha lingua e delle loro antiche tradizioni, patrimoni culturali preziosi non solo per la Calabria, ma anche per la loro antica patria.
   La Calabria, comunque, anche nei secoli successivi continua ad essere terra di immigrazione, ma anche di emigrazione, anche se in questo caso si tratta di emigrazione interna, sesso stagionale dovuta all’alternarsi di alcune particolari attività agricole sul territorio come ad esempio la mietitura e la trebbiatura quando schiere di braccianti e contadini si spostano dalla Calabria meridionale nel territorio di Cutro e di Corigliano dove si coltivava moltissimo grano. Non mancava, però, anche una quota di immigrazione, anche se non molto consistente, anche da altre regioni d’Italia. Un esempio classico è quello dei potatori, lavoratori agricoli che i grandi proprietari di uliveti calabresi chiamavano soprattutto dalla Puglia molti dei quali, capitati nella nostra zona, finirono per sposare donne calabresi e accasarsi definitivamente in Calabria.   In Calabria, infatti, pur facendo la regione parte di un regno considerato povero, arretrato, mal governato e nel quale il latifondo costituiva un ostacolo oggettivo alla sviluppo economico e sociale, esistevano, diverse attività economiche che, pur non garantendo alla popolazione redditi elevati, consentivano quanto mento di sopravvivere senza bisogno di emigrare. Esempi di queste attività erano l’allevamento del baco e la produzione della seta, la pesca, l’industria laniera, la lavorazione della liquirizia, la produzione della pece, prodotto n tempo molto ricercato che la nostra regione esportava in altri paesi, l’estrazione dello zolfo ed altre piccole attività. La presenza poi, fino alla metà del XIX secolo del popolo siderurgico di Mongiana che impiegava più di 1500 operai, richiamava anche tecnici specializzati da altre regioni italiane. Altri immigrati arrivarono poi nella nostra zona anche in occasione della realizzazione degli impianti idroelettrici silani. In questo caso, scesero da noi non solo operai, ma anche tecnici e progettisti come testimonia la triste vicenda di un ingegnere serbo ,
Wladimiro Iegitch originario di Belgrado, che faceva parte del team di progettazione dei laghi e  che  morì a Caccuri, dov’è sepolto, il 9 settembre del 1919, probabilmente di spagnola.
   In ogni caso, anche se non si nuotava nell’oro e si vive di stenti, fino all’Unità d’Italia, anche per motivi storici, i calabresi non emigravano e continuavano a vivere sulla terra dei loro avi. La presenza di un modesto tessuto produttivo riusciva a offrire comunque ai nostri nonni piccole opportunità di lavoro
   L’emigrazione dei calabresi, che in pochi decenni si trasformerà in una vera e propria diaspora, ha inizio qualche anno dopo l’Unità d’Italia.

“Le prime partenze dal Crotonese si registrarono, infatti, nel periodo compreso tra il 1876 e il 1880, ma si trattava, comunque, di numeri irrisori, solo 27 emigrati, soprattutto se confrontati ai 3.930 di Castrovillari o ai 3.863 di Paola. L’ondata migratoria cominciò a prendere consistenza, anche se i suoi numeri saranno sempre inferiori a quelli degli altri circondari della regione, solo a partire dal 1886-1890 quando gli emigrati risulteranno essere 2.382.

A partire dal 1891 la crescita sarà costante fino al quadriennio 1906-1910, quando in aggiunta a quelli che si sono già imbarcati per le Americhe, emigreranno altri 12.788 lavoratori del Crotonese. Nel quinquennio successivo il flusso subì una flessione, ma il numero dei lavoratori che lasciò il Marchesato e le zone interne del Circondario per cercare fortuna oltre oceano rimase comunque consistente, provocando una perdita di 9.577 unità, trasversali alle classi di lavoro. Infatti, tra il 1876 e il 1910, tra gli emigrati dalla Calabria «il 60,3% sono contadini, il 15% braccianti, l’8,9% artigiani, l’1,7% muratori, il 3,1% domestici e nutrici».

   I primi lavoratori calabresi non emigrarono, come si potrebbe credere, negli USA, ma in Australa, in Uruguay, Argentina e Brasile. Tra i orimi caccursi che lasciarono il nostro paese figurava il professore Francesco Maacrì (Tata) poi direttore delle scuole italiane in Uruguay.

“Tuttavia, nonostante il flusso migratorio in costante aumento, nello stesso periodo 1861-1911 aumentò costantemente anche la popolazione residente, che passò dai 52.021 del 1861 ai 79.657 del 1911. Un aumento che continuerà in modo costante e senza flessioni fino al 1981, quando toccherà la vetta massima di 186.671 residenti. Solo allora comincerà a diminuire con un flusso negativo altrettanto costante, scendendo fino ai 174.980 residenti nel 2018[1]
  
Negli anni 80 dl XIX secolo si sviluppò un acceso dibattito sulla questione emigrazione e sulle sue conseguenze sulla società contadina e sul destino della nostra terra al quale parteciparono pensatori come Carpi, Florenzano, Fortunato  e Nitti.  Un particolare quest’ultimo, condividendo il pensiero di Giustino Fortunato, difese il diritto ad emigrare e si contrappose alle argomentazioni di altri intellettuali che consideravano l’emigrazione una possibile causa di sfascio della società contadina e dello spopolamento del paese. Per questo motivo si battè contro il disegno di legge del 15 dicembre 1888 che voleva autorizzare il Ministero dell’ìnterno a intervenire per bloccare l’emigrazione quanto raggiungeva un dato limite ritenendo il provvedimento”una violazione aperta di ogni sentimento di libertà.” Per Nitti i malefici effetti attribuiti al fenomeno dell’emigrazione erano da ritenersi irreali e frutto di analisi sbagliate. Il politico lucano, infatti, nel ribadire che era impossibile ipotizzare uno spopolamento nazionale provocato dall’emigrazione  in quanto nel Regno d’Italia vi era un alto tasso di natalità, richiamava l’attenzione sulle condizioni di miseria dei braccanti delle provincie del Mezzogiorno che li costringeva a emigrare abbandonando il loro paese per cui l’emigrazione degli italiani meridionali era per Nitti la riposta sociale alle condizioni socio – economiche esistenti nel mezzogiorno. Se nelle regioni settentrionali l’emigrazione era un bisogno sociale, per le provincie dell’Italia meridionale era un a necessità che aveva origine nel modo in cui era distribuita la proprietà.

 

 

L’emigrazione nel Crotonese

 

Anche il Crotonese nel corso dei secoli è sempre stato un territorio di immigrazione. Si trattava, in larga misura, di un’immigrazione interna a carattere stagionale, anche se qualche lavoratore, generalmente specializzato,  proveniva anche da altre regioni del regno, per l’esecuzione di alcuni lavori agricoli come la mietitura o la potatura degli ulivi. Molto richiesti anche gli scalpellini dal vibonese soprattutto da Serra San Bruno o gli stagnini che si spostavano dal cosentino, soprattutto da Dipignano.

Ancora nei primi decenni del Novecento, assieme a un esodo massiccio esodo soprattutto nei paesi oltre atlantico e, comunque, inferiore a quello di altre zone della Calabria, si assisteva ancora a una interessante immigrazione, soprattutto dopo l’apertura della Montecatini, uno stabilimento chimico, e della Pertusola che produceva zinco elettrolitico, due grandi aziende nate a Crotone a seguito della realizzazione degli impianti idroelettrici silani e della opportunità di poter fruire di energia elettrica a buon mercato. Qualche immigrato trovò lavoro anche nelle miniere di zolfo del Comero, di Santa Maria del Comero e di Santa Domenica nei territori di Melissa, Strangoli, Casabona e San Nicola dell'Alto e nell’indotto nato attorno alle due grandi fabbriche crotonesi e nel latifondo dei Barracco, nobile famiglia di origini francesi radicatasi poi a Napoli e a Cosenza, imprenditori che introdussero numerose innovazioni colturali e nella trasformazione dei prodotti agricoli e, soprattutto, nuove macchine olearie, per la lavorazione della liquirizia, e per altre pratiche agricole il cui uso richiedeva addetti specializzati e tecnici per la loro manutenzione. Molti di questi lavoratori provenivano dalle altre regioni del Regno, soprattutto dalla Puglia e dalla Sicilia, ma qualcuno perfino dalle lontane regioni del nord.

La presenza di questo modesto tessuto produttivo non riusciva, comunque a offrire grandi opportunità di lavoro alle masse del Crotonese, soprattutto dei paesi interni, ai margini del Marchesato che, dopo l’unità d'Italia cominciarono a emigrare.

A partire dal 1891 la crescita sarà costante fino al quadriennio 1906 –1910, in aggiunta a quelli che si sono imbarcati per le Americhe, emigreranno 12.788 lavoratori della nostra zona.

A emigrare erano soprattutto braccianti e contadini che finivano generalmente a scavare carbone nelle miniere del West Virginia di qualche altro stato americano come il giovane caccurese Francesco Loria e decine di lavoratori di San Giovanni in Fiore che troveranno la morte nella terribile sciagura mineraria di Monongah del dicembre el 1907 o le loro mogli e figlie impiegate come domestiche nelle case dei facoltosi americani.

 

              L’EMIGRAZIONE NEL SECONDO DOPO GUERRA

 

   Nel secondo dopoguerra i flussi migratori cominciarono a orientarsi verso alcuni paesi europei come in Belgio, grazie all’accordo firmato dal governo De Gasperi (imparate le lingue e andate all’estero) con quel paese  “Manodopera  contro carbone”, la Germania e la Francia.

Negi anni 60 centinaia di migliaia di calabresi cominciarono a partire anche per la Svizzera e i nostri paesi, complice anche un comprensibile calo della natalità, cominciarono inesorabilmente a spopolarsi.

Negli ultimi anni, infine, il problema è diventato ancora più grave: oggi, infatti, non emigrano più braccianti e contadini o manodopera scarsamente qualificata della quale avremmo in ogni caso un grande bisogno, ma cervelli, giovani laureati, lavoratori altamente specializzati, ingegneri, medici, ricercatori formati nelle nostre università on notevoli sacrifici econimici e finanziai, un valore aggiunto del quale beneficiano altre regioni italiane ed europee ma sul quale noi non potremo mai contare per la rinascita della nostra terra.

 

                           I NOSTRI PAESI MUOIONO

 

 

 

 

 

I nostri paesi interni, sempre più spopolati, rischiano ormai di sparire anche dalla carata geografica. Mettendo a confronto i dati Istat relativi al 2001 e al 2023, risulta che in 22 anni il Crotonese, con l’inclusione anche del comune di Sa Giovanni in Fiore, perde 10.024. abitanti.

La situazione appare drammatica soprattutto nei comuni di Carfizzi che passa da 868 a 521 abitanti, Pallagorio, da 1617 a 947, Savelli, da 1577 a 1029, ma anche Caccuri con -240 abitanti passando da 1777 a 1537.

In queste condizioni diventa sempre più difficile organizzare e garantire servizi, anche di primissima necessità, a cominciare dall’anagrafe, passando per quelli socio - sanitari, postali trasporti etc, per cui si dovrebbe pensare seriamente a una possibile fusione tra paesi viciniori o quantomeno a consorziare alcuni servizi , ma disperiamo che in un futuro, almeno prossimo, si possa arrivare a una soluzione del genere stante le incomprensibili resistenze di alcuni settori.



[1] E. Marino _ Rapporto sugli italiani nel mndo 2019 (Fondazione Migrantes.

 

                                                                                          

 

 

 

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