La strana figura di Giosafatte Talarico



   Giosafatte Talarico di Panettieri, nato probabilmente nel 1805,  fu una curiosa figura di brigante, uno dei pochi  fuorilegge calabresi del  XIX secolo morti di vecchiaia che si spense serenamente in uno dei posti più belli del mondo  e, per sovrapprezzo, godendosi una pensione dello stato concessa per premiare la sua “redenzione.”

  

La prima volta che sentii parlare di questo brigante un po’ anomalo fu all’età di undici anni, quando nel 1961 Giorgio Albertazzi portò sullo schermo la figura di Giosafatte in una serie televisiva che si intitolava “Le pecore nere”[1] che  mi affascinò e mi fece diventare un appassionato di televisione. Quelli erano ancora  tempi nei quali la televisione pubblica si preoccupava di fare cultura e proponeva lavori di grandi artisti come Albertazzi,  Sandro Bolchi o Anton Giulio Majano  che diresse  il grande Enrico Maria Salerno nell’originale televisivo “I figli di Medea”.  In quell’occasione,   mentre andava in onda lo sceneggiato, la televisione interruppe la  trasmissione per annunciare il rapimento da parte dell’attore del figlio avuto con l’attrice protagonista, un bambino bisognoso di cure urgenti, mentre il padre si rifiutava di rivelare dove lo teneva nascosto, una  burla degna dell’Orson Welles de “La guerra dei mondi”  che  terrorizzò tutti noi ragazzini e commosse gli adulti tenendoli a lungo col fiato sospeso prima che venisse svelato l’inganno.
   Ma per tornare al brigante calabrese le vicende che videro protagonista questo strano personaggio sono state in parte ricostruite dallo storico risorgimentale Alfonso Scirocco, professore emerito dell’università Federico II di Napoli nel suo libro “Briganti e società nell'Ottocento: il caso Calabria”, Capone editore, 1991.
   Il Talarico, da quanto si racconta, diventò brigante dandosi alla macchia, verso il 1820, dopo aver ucciso per onore un giovane conterraneo ricco e prepotente che aveva violentato la sorella. A quei tempi, pochi anni dopo gli sconvolgimenti provocati dall’occupazione napoleonica del Regno, dall’insediamento sul trono di Napoli di Gioacchino Murat, dalla sua caduta, dal ritorno sul trono dei Borbone e dalla restaurazione, era ancora difficile ottenere giustizia per un torto subito per cui capitava spesso che ognuno si credesse in dovere di farsi giustizia da sé.  Probabilmente proprio a causa della latitanza che il Talarico, che in passato era stato anche seminarista,  non riuscì a portare a termine gli studi di farmacia. Fu quindi un brigante colto che, anche nel corso della sua carriera brigantesca frequentava, protetto da amici influenti, paesi e città della Calabria, a volte vestito da prete, a volte da ricco borghese.
   La zona teatro delle sue gesta brigantesche fu quella compresa tra le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone, da Panettieri a Camigliatello, a Petronà, a San Giovanni in Fiore. In alcuni romanzi e siti internet è descritto come una sorta di brigante gentiluomo, feroce quando le circostanze lo rendevano necessario, ma anche generoso; giusto, ma anche spietato[2], un brigante inafferrabile forse proprio perché protetto dal popolo, ma anche dalle classi abbienti.  Alcuni lo descrivono come un “Robin Hood”, un bandito che rubava ai ricchi per dare ai poveri e comunque  un uomo a suo modo giusto, un protettore dei perseguitati, l’eroe dei contadini e degli oppressi. Strano che Alexandre Dumas padre, alla ricerca di un brigante eroico al quale ispirarsi per un suo romanzo si sia incaponito sulla figura di un bandito come Pietro Monaco per poi ripiegare deluso su Robin Hood, come racconta il mio amico Peppino Curcio autore del pregevole libro “Ciccilla”[3] e non si sia accorto di un brigante già proclamato eroe dal popolo come Giosafatte Talarico.  In ogni caso il brigante di Panettieri scorrazzò in lungo e in largo per la Sila dal 1820 al 1843 sfuggendo alla caccia della guardia urbana e della gendarmeria borbonica. 


   Ferdinando I, Francesco I e, soprattutto Ferdinando II fecero di tutto per sconfiggere il brigantaggio e riportare  l’ordine regno avvalendosi dell’opera del Del Carretto e del commendatore  Giuseppe De Liguoro, intendente in varie province del Regno, che nel 1832 – 1834. Quest’ultimo nella sua qualità  intendente della Provincia della Seconda Calabria Ulteriore ( Catanzaro ) si prodigò per la ricostruzione della stessa Catanzaro e dei paesi del Marchesato di Crotone distrutti dal terribile sisma dell’8 marzo 1832.
  L’azione spietata del marchese Del Carretto e quella altrettanto efficace dell’intendente De Liguoro, pur riuscendo a mitigare in parte un fenomeno endemico alimentato continuamente dalla fame atavica dei contadini  che si davano alla macchia non avendo altra alternativa se non quella di morire di fame sottoposti com’erano alle angherie dei ricchi proprietari, usurpatore degli usi civici e di un clero altrettanto famelico, non riuscirono ad estirparlo del tutto e, soprattutto, non riuscirono ad assicurare alla giustizia l’imprendibile Giosafatte Talarico.  A dargli invano la caccia a lungo furono il colonnello Zola, comandante della piazza d’armi di Cosenza,  lo stesso che riunì la corte marziale per processare i Bandiera, e il maggiore Giovanni Salzano che ritroveremo poi col grado di generale nella battaglia del Garigliano. Così nel 1844, l’anno del tentativo eversivo dei fratelli Bandiera, Ferdinando II, su suggerimento  del ministro Del Carretto intavolò una trattativa segreta col famoso  brigante offrendogli, in cambio della resa, una pensione di  sei ducati e una modesta dimora nell’Isola d’Ischia che il brigante accettò a patto che anche alcuni suoi compagni fossero perdonati e trattati allo stesso modo. Ciò pose fine alla sue gesta ed egli poté ritirarsi nel suo esilio dorato.  La cosa, però, non andò a genio a Luigi Settembrini, il “patriota” anti borbonico che poi finì per accusare Ferdinando II di non averlo fatto impiccare quando si batteva per l’Unità d’Italia, che se la prese con il Del Carretto per essere sceso a patti con un brigante e di “dar cuore agli altri di divenire celebri briganti.”[4] Dopo l’Unità, poi,  un deputato napoletano del nuovo Regno d’Italia, un certo Mariani,  in una interrogazione parlamentare giudicò ingiusto continuare a erogare una pensione a un ex brigante che, intanto, si era sposato e aveva avuto una figlia, ma la presa di posizione del solerte onorevole non sortì alcun effetto e l’antico brigante poté ancora godersi per pochi anni la rendita prima di spegnersi nel 1866. Evidentemente né l’uno, né l’altro erano mai arrivati a capire quello che poi fu scritto a chiare lettere nella relazione di Giuseppe Massari, presidente della Commissione parlamentare sul brigantaggio nella quale si sottolineava come la causa principale del brigantaggio era da ricercare nella miseria e nell’arretratezza nelle quali erano costretti a vivere i contadini, sia prima, sia soprattutto dopo l’unità d’Italia.
   Di Giosafatte Talarico lo scrittore calabrese Nicola Misasi ebbe a dire: “Il certo è questo, che il suo nome, nome di malfattori, qui da noi è ricordato con lode più che con biasimo, come quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il forte”.[5] Di lui si racconta anche che fu devoto della Madonna e che una volta  si spinse fin sulle montagne di Pentone per far visita alla  Madonna di Termine. [6]  



[1] http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=51251 (In questo sito il Talarico viene definito “brigante siciliano)

  [2] U. Marchianò, Il brigante Giosafatte Talarico, il re della Sila, Tipolitografia Grafica cosentina, Cosenza 2205, pp. 11-21

[3] Peppino Curcio, Ciccilla, Luigi Pellegrini editore, Cosenza 2010, pag. 15

[4]  L Settembrini, Protesta del popolo delle Due Sicilie, Napoli, 1847.

[5] Nicola Misasi,  Giosafatte Tallarico, a cura di F. Spezzano, Milano 1950