La
storia della strada di collegamento del centro abitato della cittadina
con la frazione di Santa Rania ebbe inizio il 13 novembre del 1913
quando il consiglio comunale, presieduto dal sindaco del tempo, Domenico
Ambrosio, votò la delibera numero 57 con la quale chiedeva al governo
di procedere alla realizzazione di quest’importante arteria.
A quel tempo il paese era raggiungibile solo percorrendo a dorso
d’asino una tortuosa mulattiera che attraversava le contrade di San
Nicola, Rittusa, Zifarelli, Caria, Battinderi e la Serra del Bosco di
Casalinuovo.
La copia dell’atto deliberativo fu inviata a Giovanni Giolitti,
capo del governo e agli onorevoli Luigi Fera, cosentino che qualche anno
dopo ritroveremo ministro delle poste nei governi Boselli e Orlando e
ministro della Giustizia nel quinto governo Giolitti, Nicola Lombardo,
socialista di Mileto che fu sottosegretario nel governo Badoglio, e
Gaspare Colosimo, monarchico di Colosimi, anch’egli più volte
ministro e sottosegretario, ma né il Presidente del Consiglio, né gli
illustri politici calabresi trovarono il tempo di occuparsene. Nemmeno
il regime fascista, impegnato a costruite strade in Libia e nelle
petraie dell’ Etiopia per “dare un posto al sole” agli italiani,
trovò il tempo e la voglia di occuparsi dell’isolamento di Santa
Rania. I disagi erano particolarmente gravi quando c’era da curare
qualche ammalato grave o quando moriva qualche abitante della frazione
la cui salma doveva essere traslata nel cimitero del capoluogo a dorso
di mulo. Fu solo con l’avvento della Repubblica, agli inizi degli anni
’50 del XX secolo che Cassa per il Mezzogiorno finanziò la
costruzione dell’arteria i cui lavori iniziarono intorno nel 1953.
La realizzazione dell’opera fu affidata alla ditta Marsico di
Cosenza e la direzione dei lavori all’ing. Luigi Mancina. A
sovrintendere sul cantiere c’era anche un assistente contrario
dell’Opera Sila, l’ente concessionario, di nome Spina.
I lavori partirono da Caccuri, dalla via XXIV Maggio, nei pressi
della “pagliera”, l’ex chiesa di San Marco poi sconsacrata e
trasformata dai Barracco in fienile, praticamente dall’inizio di viale
Convento. Come sempre, nella realizzazione di opere pubbliche, gli
interessi dei privati prevalsero su quello pubblico per cui già in
partenza il tracciato fu deviato fino a sfiorare il campanile della
chiesa di Santa Maria del Soccorso annessa al convento dei domenicani
nascondendone in parte la facciata e realizzando una semicurva che si
sarebbe potuta evitare.
A quel tempo i lavori di scavo venivano realizzati a mano, senza
l’ausilio di ruspe o di escavatori, con piccone, pala e scalpelli e i
materiali trasportati su carriole di legno con la ruota di ferro per
cui, non solo ci si doveva avvalere dell’opera di molti manovali,
scalpellini, minatori e muratori, ma anche di fabbri che appuntivano e
tempravano quotidianamente centinaia di picconi e scalpelli, ma anche di
falegnami per riparare le carriole, i manici degli attrezzi e realizzare
cassaforme in legno. Per far ciò furono allestite una forgia e una
falegnameria, all’inizio dei lavori rispettivamente in via XXIV Maggio
e in viale Convento, poi lungo il percorso stradale man mano che il
tracciato si allontanava dall’abitato di Caccuri e procedeva verso
Zifarelli, Caria, Battinderi. Nella forgia lavoravano come fabbri
Vincenzo Rotundo, un savellese che si era stabilito a Caccuri avendo
sposato una signora del luogo, Michele Marino, Orlando Girimonte e Mario
Guzzo che poi emigrò in Svizzera, mentre tra i falegnami figuravano
Eugenio Marino (mio padre) e Alfredo Rao.
La prima sede della forgia e della falegnameria era nei pressi
del convento, ma quando l’avanzamento raggiunse la contrada Ielandaro,
le due officine si trasferirono a Zifarelli in una baracca di legno
nella proprietà del pastore evangelico Antonio Campise. Nella stessa
località fu allestita anche una cucina da campo per preparare il rancio
che veniva distribuito agli operai.
Tra le tante mansioni che venivano affidate agli operai vi era
anche quella dell’acquaiolo che era addetto a rifornire il cantiere di
acqua potabile sia per la cucina, sia per dissetare i lavoratori. A
questa incombenza provvedeva il signor Giovanni Militerno che faceva la
spola col suo asino carico di barili tra la fontana di via Vittorio
Veneto ( ‘u canale) e Zifarelli, Caria e Battinderi. Spesso Giovanni,
che era molto amico di mio padre col quale condivideva anche la fede
politica, mi caricava sul basto in mezzo ai barili e mi portava a
Zifarelli dove potevo anch’io mangiare i rancio dalla gavetta di mio
padre, cosa che mi faceva immensamente piacere perché a quell’età,
quel rancio consumato a Zifarelli, nel fondo che poi 25 anni dopo
sarebbe diventato mio, aveva un sapore divino, probabilmente perché
condito con la fame. Giovanni ebbe anche la colpa di avermi iniziato
alla politica istigandomi a comiziare già all’età di 4 anni.
Uno dei più impegnativi problemi da risolvere per progettisti e
maestranze fu lo sbancamento di una collina arenaria in località
Conicella, un toponimo che prendeva il nome da una piccola edicola
votiva posta sulla collinetta, sulla destra andando verso Santa Rania
all’altezza dell’attuale casa del signor Peppino Rizzuto. Bisognava
fare uno scavo di una ottantina di metri di lunghezza per la profondità
di otto in un terreno compatto e difficile da picconare. Un lavoro duro
che impegnò una squadra di minatori guidata da Gregorio Sganga, un
bravo scalpellino e capomastro, per circa sei mesi.
Aperto il varco di Conicella i lavori procedettero più spediti
e, dopo la costruzione del ponte di Ielandaro, la strada sbucò a
Zifarelli per proseguire verso la Guardiola. In questa località,
proprio alla fine del rettifilo di Zifarelli, si verificò un grave
incidente sul lavoro col ferimento di due operai, Luigi Longo, minatore
che rimase cieco e con una mano gravemente danneggiata, e Saverio Guzzo.
I due stavano caricando una mina quando, per cause sconosciute si
verifico una tremenda esplosione della polvere pressata nel fornello.
La pietra per costruire i muri di sostegno a faccia vista ancora
visibili, i ponti e le altre opere d’arte veniva fornita
dall’impresa di Vincenzo Drago e figli che la estraevano da una cava
in contrada Praci e la intagliavano sul posto, mentre quella usata per
il sottofondo, un granito in decomposizione facilmente reperibile in
località Scoglituro, tra Caria e Santa Rania, veniva “sminuzzata”
da un vecchio scalpellino, Gregorio Battigaglia, suocero di Enrico
Aggazio.
I lavori durarono circa tre anni e, in quel periodo,
nell’immediato dopoguerra, oltre a risolvere, anche se non
completamente i problemi del collegamento con Santa Rania, costituirono
una notevole boccata di ossigeno per un paese nel quale, nonostante gran
parte della popolazione fosse stata decimata dall’emigrazione e dalla
guerra, la disoccupazione era ancora altissima. Quasi in contemporanea
furono eseguiti, sempre con i fondi Casmez, anche i lavori di
completamento del campanile della chiesa della Riforma o di Santa Maria
del Soccorso che i monaci domenicani prima e francescani poi non erano
mai riusciti a completare con le esigue entrate del convento appena
sufficienti al loro sostentamento.
La nuova strada, ricoperta di brecciame, senza asfalto e senza
nemmeno un po’di aggregante, per alcuni anni, risultò quasi
impercorribile, soprattutto ai motocicli. Ci vollero gli inizi degli
anni ’60, quando furono asfaltati per la prima volta anche la strada
di collegamento Caccuri – strada statale 107 e il tratto della
provinciale Caccuri San Giovanni in Fiore, dal bivio di Rittusa ad
Acquafredda perché vi venisse finalmente steso uno strato di bitume.
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