Cicco Simonetta fu anche un colto mecenate
capace di farsi amare da letterati e artisti del suo tempo. Un amore
probabilmente un po’ interessato visto che il potente primo ministro e
cancelliere caccurese era all’epoca uno degli uomini più potenti
d’Italia che accoglieva e proteggeva gli uomini di cultura. Tra questi
l’umanista napoletano Porcelio Pandoni detto
il Porcellio, forse per la sua fama di sodomita che lo perseguitava, una
nomea alimentata dopo la sua morte anche
da una novella di Matteo Bandello.
Pandoni,
che visse alla corte degli Sforza mentre Cicco era il potente
cancelliere del duca, lo paragona a Publio Vedio Pollione, consigliere
economico di Augusto, mecenate e storico romano.
L’Albrigi
gli dedicò una intera raccolta poetica, il Bargellini lo definisce
“magnifico e generoso” e Piattino Piatti, umanista milanese autore
del Libellus de carcere, lo
paragona ad Atlante “Qualis Athlas caelum te rogo, Cicche potens.”
Costantino Lascaris, umanista bizantino originario di
Costantinopoli, considerato un promotore della rinascita della lingua
greca in Italia, dedicò
al segretario ducale caccurese la prima grammatica greca stampata in
Italia e Bonino Mombrizio il suo “De Vitis Sanctorum” scrivendo fra
l’altro: “Cicche, salus regnum,, Latiae moderator habenae, quique
mei tutor sine labe ducis” (Cecco, salvezza dello Stato, condottiero
dalle larghe redini, poiché sei il mio tutore, duce senza macchia.?)
Che
Cicco abbia garantito la salvezza del Ducato sforzesco, almeno fin
quando il Moro, per colpa dell’incapace duchessa madre Bona di Savoia
sua cognata non si impadronì dello stato fondato dal padre a danno del
nipote, il duchino Gian Galeazzo, figlio del fratello Galeazzo Maria,
legittimo erede, non vi sono dubbi, così come non v’è dubbio che la
sciagurata politica dell’usurpatore fu la rovina, non solo di Milano e
della Lombardia, ma “fu cagione della rovina di Italia” come
osserva Machiavelli nelle Istorie fiorentine.
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