La seconda guerra mondiale per il
Crotonese e i paesi dell’entroterra finisce praticamente con lo
sbarco in Sicilia nel giugno del 1943 quando l’esercito tedesco
abbandona rapidamente la Sicilia e la Calabria e gli Alleati
risalgono altrettanto rapidamente le due regioni puntando verso
nord. Il 25 luglio, che segna la caduta dell’odiato regime
fascista e l’8 settembre, giorno della firma dell’Armistizio di
Cassibile , sono date che dicono poco ai calabresi in quanto i due
avvenimenti, seppur importantissimi, incidono poco nella loro vita
reale che si stava già avviando alla normalità con l’arrivo
degli Americani e dei loro alleati. Quando giungono le truppe fino a
qualche tempo prima nemiche,
ma che ora vengono viste più come portatrici di libertà che come
occupanti, i calabresi, i contadini e i braccianti del Crotonese
capiscono che qualcosa è destinato fatalmente a cambiare, che non
solo è finita la guerra, la più immane tragedia che abbia
sconvolto il mondo dalla comparsa dell’uomo sulla terra, ma che,
nonostante la macerie disseminate per tutta l’Italia, sta
forse per iniziare, finalmente, una nuova era di pace, di sviluppo e
di prosperità, una stagione esaltante di conquiste e di progresso.
Questa volta tutto dovrà cambiare pensano i calabresi, ma anche gli
altri abitanti d’Italia; niente potrà più rimanere come prima.
Da
secoli contadini e braccianti lottavano contro gli agrari, i baroni
che avevano usurpato le terre demaniali che poi lasciavano incolte o
mal coltivate, prevalentemente a pascolo, affamando
le plebi col beneplacito dei governanti. Le lotte per la terra erano
iniziate qualche secolo prima intrecciandosi col brigantaggio che
altro non era che l’esplodere della giusta collera dei diseredati
affamati dagli usurpatori degli usi civici ed erano poi proseguite
nel XIX secolo e riprese subito dopo la Grande Guerra, ma il
latifondo del Marchesato era rimasto sostanzialmente nelle mani di
pochissimi agrari.
Già
durante il regno borbonico vi erano state numerose rivolte sedate
puntualmente dalla Guardia urbana, una sorta di polizia foraggiata
dai latifondisti o dalla gendarmeria borbonica, poi, dopo lo sbarco
di Garibaldi a Marsala i braccianti siciliani, calabresi, lucani
commisero il tragico errore di pensare che “l’angelo biondo
venuto dal nord” li avrebbe liberati dall’atavica schiavitù,
avrebbe espropriato le terre dei baroni e le avrebbe consegnate al
popolo affamato. Migliaia di picciotti, di ex soldati che avevano
combattuto con Napoleone e con Murat e di poveri “briganti”,
miserabili, diseredati che si erano dati alla macchia per sfamarsi
andarono ad ingrossare le fila delle camicie rosse dando un loro
notevole contributo alla vittoria del generale nizzardo. Altri
pensarono di anticipare i tempi e fare la loro personale rivoluzione
occupando le terre alle pendici dell’Etna e giustiziando gli
usurpatori, ma dovettero fare i conti con la ferocia di Bixio che
fucilò i rivoltosi a Bronte, Bronte, Randazzo, Castiglione,
Regalbuto, Centorbia e in altri paesi
del Catanese con una furia degna delle peggiori belve. I Bixio, i
Garibaldi, i Rosolino Pilo, i Crispi, i
Nicotera avevano ben altri progetti e intenzioni che quelli
di fare finalmente giustizia, di affrontare i nodi irrisolti della
questione sociale e i gattopardi, come ebbe a insegnarci Tomasi di
Lampedusa nella suo pregiato romanzo, erano già all’opera per “cambiare
tutto perché niente cambiasse.” La delusione più cocente per i
meridionali fu quella di ritrovarsi ai posti di comando, nei ranghi
della polizia, della burocrazia, come intendenti o sotto intendenti
molti funzionari borbonici, baroni, conti, marchesi che avevano
servito sotto il passato re e che
ora avevano frettolosamente e gattopardescamente abbracciato la
nuova causa e leccato i nuovi padroni conservando i loro privilegi e
le loro angherie. Così
i meridionali poveri furono traditi due volte. I nuovi padroni,
infatti, oltre a lasciare le terre ai latifondisti che non facevano
niente per migliorare i sistemi colturali e sviluppare l’agricoltura,
smantellarono anche quel po’ di industrie (le ferriere di
Mongiana, le officine di Pietrarsa, i cantieri navali, l’industria
serica) che avevano creato i borboni vanificando,
per sempre, ogni possibilità di sviluppo per la Calabria e per il
Mezzogiorno. Iniziò, così, la più grande ondata migratoria che la
storia abbia mai conosciuto. E’ stato calcolato che in mezzo
secolo emigrarono dal’ex Regno delle due Sicilie ben venti milioni
di persone per gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay,
il Paraguay ed altre terre lontane e sconosciute. Fino all’Unità
d’Italia erano stai i friulani, i piemontesi, i lombardi, i veneti
ad emigrare mentre il fenomeno al sud era pressoché sconosciuto. I
paesi, soprattutto quelli dell’entroterra si spopolarono ed il
tessuto sociale ne risultò devastato, ma, come vedremo in seguito,
la situazione era destinata ad aggravarsi ulteriormente.
La
lotta per la terra riprese vigore nel 1919 quando i reduci della
Grande guerra fondarono l’Opera Nazionale Combattenti che impose
al governo del tempo il rispetto dei patti stipulati all’inizio
della guerra con la promessa di distribuire la terra ai contadini
mandati al macello sulle pietraie del Carso, sulle Dolomiti o sul
Cadore. In ogni paese nacquero le Leghe rurali che si batterono a
volte duramente con gli agrari del posto decisi, più che mai ad
imporre il mantenimento delle promesse.
Fu quindi emanato il decreto Visocchi (da Achille Visocchi,
ministro dell’agricoltura nel governo Nitti) che
permettevano l’assegnazione delle terre incolte che l’Opera
Nazionale poi distribuiva ai contadini e ai braccianti dietro il
pagamento di una quota proporzionata all’estensione del fondo.
L’entità
delle terre concesse non consentì di risolvere il problema, ma
costituì sen’altro il primo, timido tentativo di riforma agraria.
Il problema, però non era ancora risolto e i contadini continuarono
le loro battaglie fino a quando dovettero cedere alle bastonate e
alle purghe delle squadracce fasciste. Il Fascismo, infatti, nato
proprio bloccare ogni iniziativa di riforma fondiaria in contrasto
con la politica dei
grandi meridionalisti come Guido Dorso, Luigi Sturzo e Antonio
Gramsci.
Con
l’instaurazione della feroce dittatura mussoliniana cessarono
definitivamente;anche l’aspirazione ad ottenere un pezzo di terra
da coltivare continuava a rimanere il sogno proibito della povera
gente.
Negli anni ’20,
intanto con la realizzazione dei laghi silani e la costruzione degli
impianti idroelettrici ella Sila, ebbe inizio
anche un tentativo di industrializzazione del Crotonese con
la nascita della Montecatini, una industria chimica, e
della Pertusola che, sfruttando l’energia elettrica prodotta in
loco, produceva zinco elettrolitico. Crotone divenne, quindi, una
delle città più industrializzate del Mezzogiorno, anche se ciò
non fu sufficiente a soddisfare i bisogni di lavoro e la fame delle
masse del Crotonese.
Con
la caduta del fascismo il sogno della “ terra a chi la lavora”
riprese vigore e i braccianti del Crotonese, forse per primi in
Italia, ricominciarono a occupare i fondi incolti. Già qualche
giorno dopo l’arrivo degli alleati nella zona, a
Casabona, Pasquale Poerio, giovane intellettuale comunista del posto
che diventerà successivamente uno dei più prestigiosi dirigenti
del movimento contadino, del PCI e poi senatore della Repubblica,
insieme ad altri compagni, si pose alla testa dei suoi compaesani
che occuparono alcuni fondi nei dintorni del paese. Gli agrari, come
avevano già fatto a Bronte, segnalarono al cosa agli Americani che,
preoccupati per eventuali atti ostili nel confronti delle truppe
occupanti, mandarono a Casabona un battaglione di soldati marocchini
i quali, trovandosi di fronte non insorti, ma pacifici contadini
armati di zappe, badili, aratri e intenti a lavorare la terra,
finirono per solidarizzare con loro. Altre manifestazioni per la
terra nacquero poi spontaneamente o organizzate dai partiti della
sinistra, dall’Alleanza dei contadini in molto paesi dell’interno.
In appoggio ai braccianti e ai contadini in lotta si affiancò, come
racconta Ciccio Caruso, dirigente comunista e Segretario della
Federazione del PCI negli anni ’50, anche la classe operaia di
Crotone della Pertusola, della Montecatini, della Rossi e Tranquilli
e delle miniere di San Nicola dell’Alto e di Strongoli.
Per cui la lotta per la terra acquistò maggior vigore e
visibilità politica.
Ma la resistenza
degli agrari fu ancora una volta tenace e furiosa e
appoggiata in qualche modo dal governo democristiano che si era
formato dopo il 18 aprile 1948 a seguito delle elezioni che videro
la sconfitta del fronte popolare e la vittoria del partito di De
Gasperi e Scelba. Qualche anno prima, sotto la spinta dei contadini
e dei partiti della sinistra che avevano fatto parte dei primi
governi repubblicani, erano stati approvati i Decreti Gullo, frutto
del lavoro del calabrese
Fausto Gullo, Ministro
dell’Agricoltura nel primo governo De Gasperi, dal dicembre del
1945 al luglio del 1946. Tali decreti erano rimasti, però,
praticamente inapplicati e ciò spinse i contadini ad intensificare
le lotte e le occupazioni delle terre. Fu così che si giunse, nell’ottobre
del 1949, ai drammatici fatti di Melissa con la strage di alcuni
contadini, uomini e donne, uccisi dalla polizia di Scelba mentre
occupavano un fondo incolto di proprietà del barone Berlingieri in
località Fragalà. A cadere sotto il fuoco di un reparto di polizia
giunto appositamente da Bari per porre fine all’occupazione furono
Francesco Nigro, il fondatore della sezione del Movimento Sociale di
Melissa, il giovanissimo Giovanni Zito e una donna, Angelina Mauro,
tutti colpiti alle spalle.
La strage di Melissa provocò un’ondata di sdegno e di
commozione in tutta l’Italia. Per la prima volta artisti,
intellettuali, uomini politici, dirigenti nazionali e sindacali
scesero a Melissa e a
Crotone per dar vita ad un grande movimento di lotta e di sostegno
dei contadini del Marchesato. L’interesse per lo sperduto paesino
calabrese e la solidarietà per i braccianti in lotta fu tanto e
tale che, in loro onore a molte bambine nate in quel periodo in
tutta l’Italia fu dato il nome di Melissa.
Questo
stupido eccidio fu la goccia che fece traboccare il vaso. In
seguito a quei fatti il governo fu costretto a rispettare i patti e
ad avviare la riforma agraria che avrebbe dovuto trasformare
definitivamente l’antico Marchesato in una terra di sviluppo e di
progresso. L’operazione riuscì però solo in parte perché la
riforma fu snaturata e svuotata completamente dai
partiti di governo e segnatamente dalla Democrazia Cristiana. Le
terre furono infatti assegnate non solo ai contadini e ai
braccianti, ma ad artigiani, piccoli imprenditori e gente che con la
terra non aveva avuto mai niente da partire, ma che aveva magari la
tessera della DC o godeva delle simpatie dei segretari delle sezioni
democristiane dei paesi trasformati in veri e propri commissari. A
decidere, infatti, a chi assegnare le quote e l’estensione delle
stesse era, infatti, una specie di commissione con a
capo, solitamente, il segretario locale della DC, anche se
formalmente questo compito veniva assolto dall’Opera
Valorizzazione Sila, (più brevemente Opera Sila) che ha le maggiori
responsabilità nel fallimento della riforma. Il
risultato fu che si assistette ad una estrema parcellizzazione delle
fondi e i contadini si videro assegnare piccoli fazzoletti di terra
dai quali era impossibile ricavare un reddito adeguato in grado di
cambiare la vita di chi la terra era chiamato a coltivare. Inoltre
molte terre erano aride e non furono realizzate o furono realizzate
con molto ritardo le necessarie opere irrigue per rendere irrigabili
e quindi fertili i terreni. Non si cercò nemmeno di favorire la
nascita di un movimento cooperativo in grado di accorpare i fondi e
renderli più produttivi assecondando, viceversa, l’individualismo
tipico delle popolazioni meridionali. Il risultato fu quello di
sprecare una formidabile occasione di sviluppo e le condizioni
economiche di braccianti e contadini rimasero, ancora una volta,
precarie. Così le masse meridionali ripresero ad emigrare.
A Caccuri, nei primissimi anni ’50 l’emigrazione fu un po’
rallentata dai lavori di costruzione della strada di collegamento
Caccuri – Santa Rania – Coniglio realizzata con un finanziamento
della Cassa per il Mezzogiorno nei quali furono occupati un paio di
centinaia di operai per circa tre anni; poi, con il completamento
dell’opera si ripropose drammaticamente il problema della
disoccupazione.
L’emigrazione riprese massicciamente nei primi anni ’60
che coincisero con il periodo del boom economico e dello sviluppo
delle grandi fabbriche del triangolo industriale. Gran parte degli
emigrati, infatti, si trasferirono in Lombardia, in Piemonte, in
Liguria e in altre regioni del Settentrione, ma moltissimi si
trasferirono in Belgio dove stava nascendo una imponente industria
mineraria, in Germania, in Francia ed in Svizzera, mentre l’emigrazione
verso li Stati Uniti e i paesi del Sud America e in Australia fu
meno consistente e residuale. Le stazioni ferroviarie del sud furono
prese d’assalto da masse di contadini e operai disoccupati con le
loro famigerate valigie di cartone che lasciavano il loro paese in
cerca di lavoro.
Chi si recava al nord o in un paese europeo, non solo, appena
poteva, si portava dietro la famiglia, ma, spesso, faceva da tramite
per trovare un lavoro anche ai compaesani rimasti in paese. Fu così
che Caccuri, San Giovanni in Fiore, Castelsilano, Savelli, Petilia
Policastro e gli altri paesi dell’antico Marchesato si spopolarono
definitivamente senza più riuscire a riprendersi. Negli anni ’80
il fenomeno sembrò arrestarsi per riprendere di nuovo vigore nel
corso degli anni ’90.
Da qualche decennio, all’emigrazione in cerca di lavoro si
è andata sempre più sostituendo un’emigrazione per motivi di
studio con migliaia di giovani che si sono trasferiti altrove per
frequentare l’università senza mai più fare ritorno al paese di
origine e un’emigrazione alla ricerca di una migliore qualità
della vita che hanno finito per impoverire ulteriormente il
Mezzogiorno a vanificare qualsiasi speranza di sviluppo economico e
sociale di questa sfortunata zona d’Italia. Oggi si emigra non
più e non solo perché nelle nostre contrade il lavoro scarseggia
(con la crisi in atto scarseggia dappertutto), ma anche per cercare
luoghi più vivibili dal punto di vista urbanistico e paesaggistico,
o una migliore qualità della vita sociale, culturale, con una più
efficiente organizzazione dei servizi e della la sanità.
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