Mi piace qui raccontare
brevemente la “storia militare” di mio padre, Eugenio Marino,
caccurese, classe 1918, soldato per caso, lui anti militarista e anti
eroe per eccellenza, sprovvisto persino del “physique du rôle”,
arruolato dopo essere stato scartato alla visita di leva solo perché
frattanto era scoppiata la più feroce guerra che l’umanità abbia mai
conosciuto e l’esercito aveva comunque bisogno di “carne” da
mandare al macello nei molti fronti aperti dalla megalomania fascista e
di braccia di utilizzare nelle attività logistiche e di supporto di cui
ha bisogno ogni esercito in guerra.
Papà fu perciò
chiamato alle armi solo dopo il 1940, a guerra oramai scoppiata. Era
bassino, minuto, pur se dotato di una forza erculea e di una resistenza
che nessuno avrebbe mai sospettato in un corpo così esile, ma qualche
decennio prima le regole e i parametri per l’arruolamento erano stati
modificati per consentire al re Vittorio Emanuele III, detto
“sciaboletta” per la sua bassa statura, di diventare soldato e capo
delle forze armate e questa fu per mio padre una vera fregatura perché,
in tempo di diluvio, arruolarono anche lui. Per fortuna non lo spedirono
al fronte, ma nell’ospedale militare di Caserta dove gli consegnarono
un tesserino di infermiere pur non distinguendo egli una
siringa da una peretta e, preso atto che nella vita civile faceva il
falegname, lo assegnarono alla falegnameria dello stesso nosocomio a
fabbricare cassette di legno per la sepoltura di arti amputati e casse
da morto. Così per quasi quattro anni fu impegnato in queste
“lugubri” attività, ma, a suo dire, furono anche tra gli anni più
belli della sua vita, nonostante la paura per i numerosi bombardamenti
che interessarono la zona.
La sua abilità di falegname
la sfruttava anche per fabbricare giocattoli per i figli degli ufficiali
e dello stesso colonnello il quale lo prese in ben volere e ne fece il
suo pupillo. Così, raccontava con orgoglio, con ironia e, probabilmente
esagerando un tantino la cosa, che non solo faceva la vita del pascià
senza alcuna privazione, ma era arrivato al punto di comandare
l’intero ospedale. Ricordo ancora gli occhi che gli sberluccicavano
quando raccontava queste “monellerie.” Curiose e degne di essere
raccontate la peripezie che lo videro protagonista subito dopo lo
sbandamento dell’esercito seguito alla fuga del re e di Badoglio il 9
settembre del 1943. Rimasti senza ordini e senza comandanti, anche i
soldati di Caserta si “auto congedarono” e si avviarono a piedi
verso casa. Tra loro mio padre e un suo carissimo amico e commilitone di
Montecorvino, un comune del Salernitano. Dopo aver lasciato l’amico a
pochi passi da casa, mio padre proseguì verso la Calabria per
raggiungere Caccuri. Aveva oramai percorso centinaia di chilometri per
impervi sentieri e oltrepassato Castrovillari quando fu beccato da una
pattuglia di soldati che, evidentemente, erano incappati in qualche
ufficiale che si era preoccupato di ricostruire un esercito dissolto dal
re e dall’inetto capo di stato maggiore. Caricato su un camion
militare fu riportato a Caserta da dove, dopo qualche giorno, fu
trasferito prima a Nicastro, poi a Casa Pasquale, una località della
Sila catanzarese a pochissimi chilometri da casa, prima di essere
definitivamente congedato nei primi mesi del 1944.
P.S.
Mio padre è il soldato al centro nella foto nell’atto di inforcare la
bicicletta.
|