Eugenio Marino soldato per caso
 di Giuseppe Marino
 

                                                                           

   Mi piace qui raccontare brevemente la “storia militare” di mio padre, Eugenio Marino, caccurese, classe 1918, soldato per caso, lui anti militarista e anti eroe per eccellenza, sprovvisto persino del “physique du rôle”, arruolato dopo essere stato scartato alla visita di leva solo perché frattanto era scoppiata la più feroce guerra che l’umanità abbia mai conosciuto e l’esercito aveva comunque bisogno di “carne” da mandare al macello nei molti fronti aperti dalla megalomania fascista e di braccia di utilizzare nelle attività logistiche e di supporto di cui ha bisogno ogni esercito in guerra.
   Papà fu perciò chiamato alle armi solo dopo il 1940, a guerra oramai scoppiata. Era bassino, minuto, pur se dotato di una forza erculea e di una resistenza che nessuno avrebbe mai sospettato in un corpo così esile, ma qualche decennio prima le regole e i parametri per l’arruolamento erano stati modificati per consentire al re Vittorio Emanuele III, detto “sciaboletta” per la sua bassa statura, di diventare soldato e capo delle forze armate e questa fu per mio padre una vera fregatura perché, in tempo di diluvio, arruolarono anche lui. Per fortuna non lo spedirono al fronte, ma nell’ospedale militare di Caserta dove gli consegnarono un tesserino di infermiere pur non distinguendo egli  una siringa da una peretta e, preso atto che nella vita civile faceva il falegname, lo assegnarono alla falegnameria dello stesso nosocomio a fabbricare cassette di legno per la sepoltura di arti amputati e casse da morto. Così per quasi quattro anni fu impegnato in queste “lugubri” attività, ma, a suo dire, furono anche tra gli anni più belli della sua vita, nonostante la paura per i numerosi bombardamenti che interessarono la zona.

    La sua abilità di falegname la sfruttava anche per fabbricare giocattoli per i figli degli ufficiali e dello stesso colonnello il quale lo prese in ben volere e ne fece il suo pupillo. Così, raccontava con orgoglio, con ironia e, probabilmente esagerando un tantino la cosa, che non solo faceva la vita del pascià senza alcuna privazione, ma era arrivato al punto di comandare l’intero ospedale. Ricordo ancora gli occhi che gli sberluccicavano quando raccontava queste “monellerie.” Curiose e degne di essere raccontate la peripezie che lo videro protagonista subito dopo lo sbandamento dell’esercito seguito alla fuga del re e di Badoglio il 9 settembre del 1943. Rimasti senza ordini e senza comandanti, anche i soldati di Caserta si “auto congedarono” e si avviarono a piedi verso casa. Tra loro mio padre e un suo carissimo amico e commilitone di Montecorvino, un comune del Salernitano. Dopo aver lasciato l’amico a pochi passi da casa, mio padre proseguì verso la Calabria per raggiungere Caccuri. Aveva oramai percorso centinaia di chilometri per impervi sentieri e oltrepassato Castrovillari quando fu beccato da una pattuglia di soldati che, evidentemente, erano incappati in qualche ufficiale che si era preoccupato di ricostruire un esercito dissolto dal re e dall’inetto capo di stato maggiore. Caricato su un camion militare fu riportato a Caserta da dove, dopo qualche giorno, fu trasferito prima a Nicastro, poi a Casa Pasquale, una località della Sila catanzarese a pochissimi chilometri da casa, prima di essere definitivamente congedato nei primi mesi del 1944.

P.S. Mio padre è il soldato al centro nella foto nell’atto di inforcare la bicicletta.