Curiosità e pillole di storia |
Nel
maggio del 1923, l’allora sindaco del paese vietò, con un’ordinanza
inviata al parroco che era un simpatizzante della Sezione dei
combattenti, l’uso della campana per chiamare a raccolta i soci.
Si trattò, evidentemente, di un episodio da Don Camillo e Peppone
ante litteram. Molti
sono i toponimi sparsi sul territorio caccurese di cui è
possibile spiegarsi l'origine; alcuni fanno riferimento a
caratteristiche del luogo, alle attività produttive, ai proprietari
che possedevano i terreni. Fra i molti segnaliamo: Conserva (il
luogo nel quale venivano ubicate le "conserve" della
neve), Munnello (luogo brullo, privo di vegetazione), Laruso
(l'aruso, terreno facilmente arabile), Manca del Rosario
(appezzamento di terreno esposto a nord e di
proprietà della Congregazione del SS. Rosario), Maladera
(Mala herede, evidentemente ereditato, un tempo, da cattivi
soggetti), Laconi (La icona, luogo presso il quale era collocata una
edicola votiva), Vignali (zona dei vigneti), Suffrara (zona ove era
ubicata una cava di zolfo). Al
Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 anche a Caccuri si
registrò un trionfo per i repubblicani che raccolsero ben 1035 voti
pari al 64,3% contro i 574 (35,7%) dei monarchici. Alle
elezioni per l’Assemblea costituente si registrò un vero e
proprio trionfo dei partiti di sinistra. Il P.C.I. ottenne 432 voti,
il P.S.I.U.P. (socialisti) 318 e il P.C.I. Int. 37. La
sera del 26 luglio 1943, quando anche a Caccuri arrivò la notizia
della caduta del fascismo, la popolazione assaltò la sede del
fascio saccheggiandola. Le suppellettili, i documenti, la biblioteca
che era stata donata al fascio dalla vedova del maestro elementare
Marco De Franco, sparirono e non ne rimase traccia. L’unica cosa
che si salvò fu il ritratto del giovane Alessandro Gigliotti, primo
caduto caccurese nella I^ Guerra mondiale, al quale il fascio
locale era stato intitolato. Fino
ai primi decenni del secolo scorso i contadini e i pastori della
nostra zona calzavano le "purcine", calzature povere,
fatte in casa con materiali di fortuna. Quelli più abbienti
utilizzavano una suola di cuoio dalla quale partivano lunghe
stringhe che avvolgevano la gamba fin quasi al ginocchio, i più
poveri sostituivano il cuoio con un pezzo di un vecchio copertone di
auto reperito chissà con quale difficoltà, in un tempo in cui le
automobili nella zona si contavano sulle dita di una mano. Le donne
calzavano anche gli zoccoli di legno fabbricati da zu Domenico Loria
soprannominato " 'u zocculàru" proprio per il mestiere
che svolgeva. Cicco
Simonetta, oltre ad essere orgoglioso delle sue origini calabresi,
aveva, dei Calabresi, anche il carattere sanguigno e indocile. A un
tale Prospero di Camogli che lo aveva disprezzato per essere nato a
Policastro (Petila Policastro; in realtà Ciccio era nato a Caccuri
e Petilia era solo il paese di origine della madre), l’illustre
caccurese rispose orgogliosamente, in una lettera inviata al suo
denigratore, che Policastro era “incomparabilmente più nobile et
più degno che non sia Camulio (Camogli).” "'A
mpanàta" è una zuppa di siero di latte, pane e un pezzetto di
ricotta appena fatta, consumata, solitamente, presso l'ovile subito
dopo il completamento del processo di lavorazione del latte per
produrre formaggio e ricotta. Un tempo consumare la "
'mpanàta" era quasi un rito sacro e c'era gente che, pur
di prendersi questo "piacere", si alzava al mattino molto
presto e raggiungeva a piedi ovili distanti anche alcuni chilometri
e pregava il pastore per avere un po' di siero e un pezzetto di
ricotta. Nel
secolo scorso quando un cacciatore uccideva un lupo riceveva il
plauso di tutto il paese, soprattutto dei pastori. La carcassa
dell'animale veniva portata in trionfo per le strade del
paese. Nella bocca si infilava un legno appuntito al quale era
stata infilzata un'arancia per tenere spalancate le fauci
dell'animale e ognuno offriva un dono a colui che aveva
liberato il paese dalla bestia feroce. L'ultimo lupo portato
in "processione" nel paese fu ucciso, sul finire degli
anni '50, dal signor Vincenzo Pasculli. Iniziano
oggi, secondo un'antica tradizione popolare, le "calende",
da non confonder con le famose calende del calendario romano.
Le calende caccuresi consistono in una sorta di previsione del tempo
a largo raggio e per il periodo di un anno. Dal 13 al 24 dicembre,
ad ogni giorno viene associato un mese dell'anno (al 13 corrisponde
gennaio, al 14 febbraio e così via, fino al 24 che corrisponde a
dicembre). Per conoscere quali saranno le condizioni meteorologiche
prevalenti nei mesi che verranno, basta osservare ed annotare il
tempo nei 12 giorni presi in considerazione. E così, se il 13
dicembre sarà un giorno molto freddo, avremo un gennaio freddo, se
il 14 pioverà avremo un febbraio piovoso, se il 15 dicembre avremo
tempo variabile significherà che anche il prossimo marzo si
presenterà all'insegna della variabilità e così via. L’orgoglio
del caccurese Cicco Simonetta e l’attaccamento alla terra natia è
testimoniato anche da una sua lettera al papa Paolo II° (Pietro
Barbo) che, al pari di alcuni nostri contemporanei ritengono i
Calabresi gente poco affidabile, nella quale il segretario ducale
scrive: “Che la prefata Santità dica che tutti li Calavresi
siano cativi, perché questo tocha as mi, respondo così, che Nel
XVI° secolo il rione Judeca era abitato dal sottoproletariato
urbano insofferente del malgoverno degli Spagnoli e di quello degli
Spinelli e simpatizzante delle gesta di Re Marcone, il
brigante Marco Berardi. Re Marcone era a capo di una banda di
migliaia di "fuorilegge" in gran parte eretici
perseguitati dall'Inquisizione e braccati dall'esercito
spagnolo e che venivano spregiativamente chiamati
"giudei". Alcuni scontri tra i briganti del Berardi e la
fanteria spagnola ebbero come teatro anche il territorio caccurese,
da qui la probabile origine del toponimo
"Scannagiudei".
Cicco Simonetta fu anche un
colto mecenate capace di farsi amare da letterati e artisti del suo
tempo; Porcellio Pandoni lo paragona a Pollione, mecenate e storico
romano, l’Albrigi gli dedicò una intera raccolta poetica, il
Bargellini lo definisce “magnifico e generoso” e Piattino Piatti
lo paragona ad Atlante “Qualis Athlas caelum te rogo, Cicche
potens.” Costantino Lascaris, dedico al segretario ducale
caccurese la prima grammatica greca stampata in Italia e Bonino
Bombrizio il suo “De Vitis Sanctorum” scrivendo fra l’altro:
“Cicche, salus regnum,, Latiae moderator habenae,
quique mei tutor sine labe ducis” (Cecco, salvezza dello
Stato, condottiero dalle larghe redini, poiché sei il mio tutore,
duce senza macchia.?) Nel
secolo XVIII° l’artigianato caccurese era particolarmente
fiorente. Nel paesino c’era un gran numero di sarti, calzolai,
falegnami, maniscalchi; c’era anche un mastro pittore, tale
Costantino Asturi originario di Catanzaro, un mastro fonditore di
campane, il mugnaio Astorino, un barilaro e numerosi cestai. Secondo
il compianto dottor Aragona, autore del pregevole volume “Cerenzia,
notizie storiche sulla città antica”, l’espressione “ ‘E
Caccuri mancu ‘u porcu!” spesso sulla bocca degli abitanti dei
paesi vicini, avrebbe origine nella nota vicenda del sequestro di
una mandria di maiali di proprietà dell’Abbazia di San Giovanni
in Fiore ad opera degli scherani del duca don Marzio Cavalcante nel
XVII° secolo. Tale ipotesi, però, non sembra suffragata da alcuna
prova, né sono stati evidenziati nessi con i fatti di quei tempi.
Forse potrebbe trattarsi di una di quelle solite invettive rivolte
ai cittadini dei paesi vicini con i quali, inevitabilmente, si
creano conflitti e antipatie, come la frase “Gente ‘e San
Giuvanni né pe’ amici, né pe’ cumpagni.” Dalla
pioggia di medaglie, croci, pensioni e rendite concesse dai Borboni
alle autorità e ai cittadini che contribuirono alla cattura dei
fratelli Bandiera e dei loro sfortunati compagni nello scontro della
Stragola, furono esclusi il sindaco di Caccuri, Pasquale Montemurro
e il secondo eletto, Luigi Antonio Quintieri che pure si erano
dimostrati assai zelanti, il primo organizzando un gruppo di armati
che tentarono inutilmente di intercettare la comitiva dei patrioti
nei pressi di Laconi e il secondo fornendo ulteriori informazioni
alla gendarmeria di San Giovanni in Fiore sull’itinerario del
gruppo. Nel
1399 il feudo di Caccuri passò dai De Riso ai Ruffo, conti di
Montalto. Quando Carlo II° morì senza eredi maschi, i suoi averi
passarono alla figlia Polissena che nel 1417 ottenne, dalla regina
Giovanna II^ d’ Angiò che la considerava “affinis et socia
nostra carissima”, la concessione dell’impero su di un vasto
feudo che comprendeva anche Caccuri. Rimasta vedova del siniscalco
Giacomo de Maylly, il 23 luglio Polissena
morì due anni dopo le nozze in modo misterioso. In molti
sospettarono un avvelenamento da parte della sorella Covella che poi
ereditò il feudo portandolo in dote al conte Antonio Marzano. Dal
matrimonio con lo Sforza nacque una bambina che morì alcuni mesi
prima della stessa Polissena. Cesare
Protospataro, nipote dei Simonetta trasferitosi a Milano al servizio
degli Sforza, quando decise di tornarsene definitivamente in
Calabria ricevette in regalo, dagli zii Cicco, Giovanni e Angelo
circa cento ducati, una somma abbastanza considerevole per quei
tempi. I Protospataro e i De Gaeta
erano due illustri famiglie caccuresi imparentate i
Simonetta. Nel
1529 esisteva già a Caccuri la parrocchia di San Nicola affidata al
parroco Donato Mauro. Nello stesso anno, a seguito delle dimissioni
del sacerdote, divenne parroco don Angelo Mauro e, nel 1539, fu
affidata all’abate Salvatore Rota. Sarà questi a donare, qualche
anno dopo, la statua di Santa Maria del Soccorso al monastero
dominicano edificato qualche anno prima. Tra
i feudatari che nel periodo compreso tra il 1465 e il 1505 si
alternarono nel possesso delle terre di Caccuri troviamo fra gli
altri, Geronimo Riario, visconte di Squillace,
Geronimo Sanseverino, un tale Francesco Coppola e un nipote
del papa Alessandro VI°, Alfredo Borgia d’Aragone che fu signore
di Caccuri dal 1497 al 1505. Da quest’ultimo il feudo passò a
Giambattista Spinelli. Nel
XVIII° secolo alcune famiglie caccuresi passarono da una condizione
sociale inferiore ad una ritenuta più alta. Tra questi casati
ricordiamo i D’Ambrosio, i Leonetti, i Di Miglio, i Quintieri, i
Principato e i Riccoi. Tutte queste famiglie, immigrate da altri
paesi, sono poi scomparse dal panorama anagrafico caccurese, fatta
eccezione per i Quintieri. Nel
1561 il feudo di Caccuri, sequestrato per debiti al barone
Giambattista Cimino fu messo all’asta e comprato dai Cavalcante.
Il primo Cavalcante, il barone Antonio, morì nel 1676. Da allora il
feudo passerà di mano ad altri 6 duchi dello stesso casato fino a
quando, per il matrimonio della duchessa Marianna, passerà ai
Petra, nobili napoletani che ne conservano tuttora il titolo. Il
cardinale Giacomo Simonetta, elevato alla porpora il 20 maggio del
1535 da papa Paolo III°, era figlio del caccurese Giovanni
Simonetta, storico, autore dell’opera “Rerum gestarum Francisci
Sfortiae mediolanensium ducis” e nipote di Cicco, cancelliere
ducale degli Sforza. Il porporato morì a Roma nel 1539 all’età
di 64 anni. E’ l’autore della “Relatio de vita et miraculis B.
Francisci de Paula ad Summum Ponteficem Leonem X ad effectum
canonizationis eiusdem.” E del trattato giuridico “De
reservatione Beneficiorum” pubblicato postumo nel 1583.
Geronimo
Riario, conte di Squillace, feudatario di Caccuri dal 1479 al 1485,
era signore di Imola e nipote del papa Sisto IV°. (1) La
nobile famiglia caccurese dei De Gaeta, già imparentata con i
Simonetta, nel XVIII° secolo era imparentata anche con i
Cavalcante. Ottavio De Gaeta, fratello di monsignor Muzio,
caccurese, governatore di Loreto, era cognato del duca don Antonio
Cavalcante. Nel
mese di aprile del 1251 il conte di Crotone e di Cerenzia Stefano
Marchisorto, in qualità di capitano e giustiziere della Calabria,
intervenne contro un gruppo di cittadini caccuresi che pretendevano
di far valere diritti di proprietà siti in località Salice e Serra
dell’Antoniazzo, nei confronti dell’abbazia forense. I Caccuresi
erano Pietro e Matteo Leto, Perrecta e i fratelli Logorio. (2) Alla
morte di Covella Ruffo, sorella di Polissena, il figlio Marino
Marzano, genero del re di Napoli, ereditò i beni della madre
compresa “terram Caccurij cum jure plateatici et cum salinis Santi
Georgij que sunt in eius tenimento.” (3) La
bettola della Stragola presso la quale si fermarono i fratelli
Bandiera per rifocillarsi con pane, cipolla, formaggio e vino
locale, era gestita da un certo Giovanni Mazzei di San Giovanni in
Fiore. Pochi minuti dopo
i patrioti e i loro compagni furono assaliti dalla Guardia urbana di
San Giovanni in Fiore e catturati. Nello scontro caddero, colpiti a
morte, Miller e Tesei. Nel
1399 il feudo di Caccuri passò dai messinesi De Riso ai Ruffo,
conti di Montalto. Quando nel 1414 morì il conte Carlo II°, le
terre caccuresi furono concesse, dalla regina Giovanna II° d’Angiò,
alla primogenita del conte, Polissena. Nel 1418 Polissena, vedova
del siniscalco Giacomo de Maylly, per volere della stessa regina in
seconde nozze Francesco Sforza, futuro duca di Milano. Amministrando
questi possedimenti lo Sforza ebbe modo di conoscere i Simonetta che
volle poi al suo servizio a Milano. Una
delle più squisite leccornie che facevano la gioia dei fanciulli
caccuresi era, un tempo, il sanguinaccio, una specie di marmellata
che si preparava miscelando sangue di maiale, mosto cotto e noci.
Purtroppo, questo squisito dolce è quasi completamente scomparso
dalle tavole caccuresi e sono davvero pochissime le massaie che
saprebbero ancora prepararlo. Nel
1964 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in visita in
Calabria, passò, scortato da un nugolo di corazzieri, dal bivio di
Caccuri diretto a Cosenza. Qui sostò per qualche minuto per
ricevere l'omaggio della popolazione accorsa a salutarlo e
dell'allora vice sindaco facente funzioni Giuseppe Salvatore Falbo. Un
tempo, quando un forte temporale incuteva paura nella popolazione o
la pioggia cadeva abbondante con rischio di alluvioni, per far
cessare le intemperie, le nostre nonne mettevano fuori dell’uscio
il “tizzone benedetto”, un pezzetto di legno semi carbonizzato
residuo del focherello che si accendeva davanti la chiesa la notte
del Sabato Santo e che veniva benedetto dal sacerdote. Secondo
un’ antica credenza caccurese la donna incinta non poteva mettere
piede nel cimitero per far visita ai conginti defunti. Ciò avrebbe
comportato sicuramente la perdita del bambino. Prima
della fiaccolata dell’Epifania la cui prima edizione risale al 6
gennaio del ‘
U Rapinu era un feroce brigante caccurese del secolo XIX° celebre
per aver tentato, sull’esempio del più famoso Fra Diavolo, di
appiccare il fuoco al convento dei dominicani di Caccuri. Una volta,
in località Santo Chirico, sorprese un gruppo di donne che lavavano
panni nel ruscello e rapì una fanciulla di 14 anni che tenne
prigioniera, segregata in un capanno di ginestra, per oltre un mese,
senza però usarle alcuna violenza. I genitori dovettero pagare il
riscatto di 30 scudi e regalare al brigante un vestito di lana per
aver libera la figlia. Questa
impresa scellerata venne tramandata, secondo il maresciallo Umberto
Prete, dal farsaro Angelo Raffaele Secreto. Non esiste, purtroppo,
alcun riscontro a questa ennesima, fantasiosa storia. Secondo
un’antica credenza popolare caccurese mangiare il pane leggermente
ammuffito stimolava la ricrescita dei capelli e li rinforzava. Molto
probabilmente, però, si trattava di una trovata intelligente di
qualche astuto genitore per convincere i figli restii a consumare
anche il pane andato a male. L’inverno
del 1919 –1920 fu per i Caccuresi uno dei più difficili da
passare. Le famiglie dei reduci, private del sussidio di guerra,
vivevano nella più assoluta indigenza ed erano prive di indumenti
idonei, cibo, legna da ardere. Per questi motivi Le
ragazze caccuresi del secolo scorso cercavano, spesso, di conoscere
il loro futuro e se la fortuna sarebbe stata loro amica attraverso
riti particolari. Uno di questi veniva celebrato nel mese di giugno,
il 23, vigilia della desta di San Giovanni Battista e il 28, vigilia
della festa di San
Pietro e Paolo. Dopo aver tagliato e
bruciacchiato un fiore di cardo selvatico, lo esponevano sul
davanzale di una finestra rivolta verso il mare e recitavano la
seguente preghiera: “San Petru e San Paulu e San Giuvanni re Dio,
facitime virere si fiorisca la fortuna mia.” Se il mattino dopo il
cardo era rifiorito era presagio di grande fortuna se, viceversa,
rimaneva bruciacchiato, era segno che La
cappella De Luca, all'interno della chiesa di Santa Maria delle
Grazie, fu fatta erigere dal sacerdote caccurese don Filippo De
Luca, parroco e rettore della chiesa nel 1642. Gli
antichi caccuresi consigliavano di evitare di coricarsi o sedersi
sul letto ove era spirata una persona prima che fossero trascorse
almeno 48 ore. Se ciò fosse avvenuto lo spirito del defunto, ancora
presente su quel giaciglio, oppresso dal peso della persona che vi
si fosse sdraiata, l’avrebbe scacciata violentemente e
platealmente pungolandola e spintonandola. Nel
1876 scoppiò a Caccuri una grave epidemia che decimò la
popolazione infantile. Nel solo mese di marzo morirono 8 bambini di
età compresa tra 1 giorno e 4 mesi. Alcuni
decenni fa, quando il pane si faceva ancora in casa, le donne si
scambiavano traloro il lievito naturale (criscente). La massaia che
faceva il pane e che, a sua volta, si aveva chiesto in prestito il
lievito a quella che lo aveva fatto il giorno prima, metteva una
manciata di pasta in un piatto e ci tracciava sopra una croce col
dito. Quello era il “criscente”. Quella che doveva farlo il
giorno dopo sapeva a chi rivolgersi per avere il lievito. E così il
piatto del “crescente” circolava tra le massaie del paese. Le
ragazze caccuresi in età di marito, nel secolo scorso, avevano un
sistema infallibile per sapere in anticipo che tipo di marito era
loro destinato: quando volevano conoscere la sorte che le attendeva,
gettavano per strada una pietruzza e guardavano attentamente il
primo uomo che passava per quella strada. Se passava un contadino
quella ragazza avrebbe sposato sicuramente un contadino, se passava
un artigiano, sicuramente sarebbe stato un artigiano a portarla all’altare
e così via. Subito
dopo La
levatrice Vittoria Secreto, che aveva sostituito Elisabetta Mirandi,
morì il 4 giugno del 1876 all’età di 55 anni. Una farfalla notturna che entrava in casa nelle calde serate estive attraverso una finestra lasciata aperta era, per i vecchi caccuresi del secolo scorso, sicuramente l’anima di un familiare defunto e veniva lasciata libera circolare per casa. Ogni tentativo di scacciarla da parte di qualche “più sprovveduto” familiare era pesantemente represso e l’incauto severamente redarguito.
Nel
secolo scorso uno dei tanti espedienti per prevedere il futuro e
sapere se la fortuna era amica, consisteva nella preparazione dell’“erba
dell’Ascensione.” Nel giorno che la chiesa consacrava a questa
ricorrenza, chi era interessato appendeva ad una parete in ombra,
dopo averlo privato delle radici, un ramo di una speciale pianta
grassa, col gambo in su e l’apice rivolto verso il basso. Dopo
qualche giorno si controllava la pianta: se riprendeva a crescere
puntando verso l’alto, era segno che la fortuna era amica e la
casa sarebbe rapidamente prosperata, se, invece, rimaneva nello
stesso stato significava che sarebbe continuata, senza troppi
scossoni, la vita di prima. Nella malaugurata ipostesi che fosse
seccata c’era da avere veramente paura: l’infausto presagio
stava ad indicare che, nel volgere di poco tempo, ci sarebbe stato
un lutto in famiglia. Secondo
una delle tante superstizioni popolari caccuresi tagliarsi le unghie
di martedì e di venerdì era sconsigliato perché favoriva la
formazione di fastidiose pellicine. Anche
a Caccuri, nel secolo scorso, c’era l’abitudine, in molte
famiglie, di imporre ai figli nomi inusuali. Ecco alcuni esempi:
Aloisio, Saulle, Letterina, Terigi. Il
celebre brigante Zirricu, come tutti i capi banda dell’epoca,
aveva un debole per le belle donne. Una volta, un marito tradito,
sorprese gli amanti in località Valle del Papa, ma, non avendo il
coraggio di affrontare il tagliagliagole a viso aperto per paura
della sua reazione, si limitò a sottrargli di soppiatto i vestiti
lasciandolo completamente nudo e credendo, in tal modo, di metterlo
in serie difficoltà. E, in effetti, il bandito ebbe non poche
difficoltà a recuperare qualcosa da mettersi addosso, ma alla fine
ci riuscì con l’aiuto di un pastore. La cosa lo turbò a tal
punto che da allora aggiunse alle sue mansioni di capo banda, anche
quelle di procurare e distribuire personalmente ai suoi compagni i
capi di abbigliamento. L’episodio fu raccontato da Angelo Raffaele
Secreto (Velociu) in una farsa. Anche questa, però, è una leggenda
di cui non esistono riscontri. Gli atti processuali, viceversa,
fanno riferimento ad un tentativo di omicidio di Zirricu ai danni di
una guardia doganale con la quale la moglie lo tradiva da tempo. Per
gli antichi caccuresi il canto dell’upupa (‘a pigula), il
bellissimo uccello notturno celebrato anche dal Foscolo, nelle
vicinanze del paese, era sicuramente un presagio di morte. Il giorno
dopo, o al massimo nel giro di un paio di giorni, sicuramente
qualcuno avrebbe cessato di vivere. Stesso valore premonitore aveva
il guaire lamentoso e insistente di un cane. Nel
secolo scorso, fin quasi alla metà degli anni ’50, le spose
caccuresi, dopo il matrimonio, per una forma di pudore imposta dalle
convenzioni sociali, non uscivano di casa prima di otto giorni dalla
data del matrimonio. La prima sortita, generalmente, era quella per
andare a messa la domenica successiva o a pranzo dai suoceri. Fino
ai primi anni ’50 del XX° secolo il centro storico di Caccuri era
pavimentato in pietra di fiume (silica) poi, l’arrivo di una
devastante “modernità” indusse gli amministratori del tempo a
sostituire la vecchia pavimentazione con l’orrido cemento. Negli
ultimi decenni si è passati al porfido che è già qualcosa di
meglio rispetto al cemento, ma non certo la vecchia, cara, artistica
“silica” della
celebre “ ‘A Caccurisella.” Secondo
un’antica credenza popolare caccurese spuntando una ciocca di
capelli il primo venerdì di marzo
ci si liberava
del mal di testa per tutto l’anno senza dover ricorrere agli
analgesici. Fino
a qualche decennio fa nel comporre il cadavere di un defunto si
rispettava un antico rituale che prescriveva tutta una serie di
adempimenti che avevano origine nel culto dei morti ereditato dalla
cultura greca. In particolare si dovevano collocare nella bara 13
monetine che servivano per pagare il pedaggio a Caronte che, con la
sua barca, traghettava le anime al di là dello Stige, un pezzetto
di pane per ammansire Cerbero, guardiano dell’Ade e un moccolo di
candela per illuminare la buia strada che conduceva nel regno dei
morti. Una
delle offese più gravi che si possa fare a un caccurese è quella
di non accettare la carne di maiale o di altro animale che viene
offerta in dono. Ciò, infatti, è ritenuto foriero delle più gravi
sciagure. Chi compie un atto del genere mette in conto,
preventivamente, una inimicizia eterna col donatore. Nei
primi decenni del XX° secolo a Caccuri operavano due medici. Il
primo, il dottor Vincenzo Ambrosio, era il medico condotto del
paese, il secondo,il dottor Vincenzo De Franco, cognato del primo,
era anche segretario comunale. Il condotto morì nel 1946, mentre il
dottor De Franco si spense nel 1961. Fino
alla seconda metà del secolo scorso la grande campana della Chiesa
di Santa Maria delle Grazie, fusa nel 1578 da Angelo Rinaldi per l’Università
di Caccuri, veniva suonata a distesa facendola oscillare
pericolosamente, ogni volta che moriva un papa o che veniva eletto
il successore. Quattro robusti giovani, allora, la spingevano con
forza per alcuni minuti, pronti a imprimerle un nuovo moto quando le
oscillazioni tendevano a divenire più brevi. Una vota si staccò il
battaglio che finì su di un tetto di fronte il campanile
sfondandolo. In quelle occasioni il suono veniva udito distintamente
anche da belvedere Spinello e Altilia. L’ultima volta accadde il 2
marzo del “L’affascinu”
ovvero il malocchio, secondo i vecchi caccuresi, era il prodotto
dell’invidia degli altri per le nostre condizioni di salute o per
la nostra presunta fortuna. Spesso, però,
si poteva rimanere “affascinati”, cioè colpiti dal
malocchio, anche se il nostro prossimo gioiva della nostra fortuna e
anche se si trattava di un nostro stesso familiare. A questo punto,
quando l’evento si verificava o si riteneva si fosse verificato,
non rimaneva che ricorrere alle arti di una donna che sapeva “sfascinare”,
cioè togliere il malocchio, cosa che faceva seguendo un rituale
particolare. La prova che la jella ci aveva colpiti era fornita
dalle decine e decine di sbadigli che facevano smascellare la “fattucchiera”
la quale si caricava, in tal modo il fardello della nostra “jettatura”
per poi disfarsene a sua volta. Secondo
una antica credenza popolare bisognava fare molta attenzione,
mangiando in presenza di una donna in stato interessante. Si doveva
far si che alla donna venisse
offerto di assaggiare un po’ di tutto di quello che si stava
mangiando. Qualora chi mangiava trascurasse di offrire una qualsiasi
pietanza alla donna e questa la desiderasse senza chiederla per
discrezione, lo scortese commensale sarebbe stato colpito, senza
alcun dubbio, da un’orzaiuolo.
Silvana
Mangano, Amedeo Nazzari, Rocco D’Assunta, Luigi Pavese, Umberto
Spadaro erano gli interpreti principali del film “Il brigante
Musolino”, prodotto da Dino De Laurentis e diretto da Mario
Camerini, girato in gran parte a Caccuri nella primavera del 1950.
Oltre alle numerose scene esterne (l’esecuzione del sagrestano
spergiuro nel corso di una processione, la fine della povera Mara
sul sagrato della chiesa di Santa Maria delle Grazie, l’uccisione
del capo mafia per mano del brigante nel luogo, l’assassinio del
medico proprio davanti la “Conicella”) nelle quali è possibile
ammirare i paesaggi dell’epoca ancora integri, in
alcuni preziosi fotogrammi si scorgono l’interno della
Chiesa della Riforma, a quei tempi ancora ben conservata e il
chiostro del convento prima che venisse deturpato da pesanti
interventi. Nel
1919 Caccuri fu amministrata da due commissari prefettizi che
sostituirono, per un certo periodo, il sindaco dell’epoca. Il
primo, il dottor Nicola Leone, si schierò apertamente per il
partito degli agrari, primo embrione caccurese del futuro partito
fascista, il secondo. Vincenzo Costantino Barberio, originario di
San Giovanni in Fiore, militò nel Partito Popolare e fu eletto
consigliere comunale del nostro paese nelle elezioni amministrative
del 10 ottobre del 1920. Nella
prima metà del XX° secolo gli spettacoli pirotecnici della festa
di San Roco e delle altre feste che si celebravano a Caccuri erano
curati da fuochisti del
luogo, i fratelli Nicola e Vincenzo Fodero, originari di Belcastro,
ma sposati con ragazze
caccuresi e residenti nel
nostro paese da molti anni. Uno dei numeri più apprezzati dai
giovani e meno giovani del tempo era il famoso “asino
scoppiettante”, una carcassa a forma di somaro costruita con
stecche di legno e altri materiali di fortuna ed imbottita di
girandole e botti che zu Nicola si caricava sulle spalle prima di
accendere le girandole e
di mettersi a “sgroppare” di qua e di là sulla piazza in un
fantasmagorico gioco di luci e colori per la gioia dei presenti. Il
notaio caccurese Domenico Mingaccio o Mignaccio, che visse nel XVI°
secolo, fu uno dei più esperti e apprezzati notai della Calabria. A
lui si rivolgevano duchi, principi ed ecclesiastici per il rogito
dei più importanti atti di quel periodo. Molti
furono i sindaci di Caccuri originari di altri paesi e che si
trovavano nella nostra cittadina perché avevano sposato donne del
luogo. Tra questi, uno dei primi fu Pasquale Montemurro, che ebbe un
ruolo determinante nella
cattura dei fratelli Bandiera e dei loro sfortunati compagni. Nel
‘500 la popolazione di Caccuri subì un consistente aumento nel
periodo compreso tra il 1521 e il 1578, ma, già nel 1595 i fuochi
(focolare, famiglie censite ) erano passati da 325 del 1578
a soli 195. Lo spopolamento continuò fino al 1648. Nel
periodo di maggior floridezza e di massima espansione Caccuri aveva
tre parrocchie: Nei
primi decenni del XX° secolo l’unica locanda di Caccuri era
gestita da Peppino Marino (nonno dell’estensore di queste pagine),
calzolaio che gestiva anche una macelleria. Il modesto “alberghetto”
caccurese si trovava nel rione Vincolato ed era costituito da 2
camere e sei posti letto. Durante il ventennio fascista ospitò
anche alcuni confinati politici. Il
personaggio di “Addozzio” dal quale derivò la scherzosa
imprecazione “Mannàja lu core ‘e Addozziu” è realmente
esistito. Addozziu era un contadino sangiovannese che negli anni a
cavallo tra il XIX° e il XX° secolo abitava a San Vito, nella
chiusa dei signori De Franco coltivandone i terreni. Il
terreno denominato San Nicola ha questo nome perché, molto
probabilmente, apparteneva alla chiesa di San Nicola, una delle tre
parrocchie caccuresi del XVIII° secolo. Tra
i sacerdoti che ressero la parrocchia di san Pietro in Caccuri si
ricordano don Domenico De Rosa, don Agostino Chirico e don Gennaro
Lucente che fu parroco dal Per
quasi due decenni, fino ai primi
anni ’60 dello scorso secolo, titolare dell’unica
farmacia caccurese fu il dott. Gaetano De Franco, farmacista e
insegnante elementare per molti anni nella scuola dello stesso paese
insieme alla sorella Anita. La farmacia De Franco era ubicata nell’omonimo
palazzo di largo Vincenzo Ambrosio. In precedenza la farmacia di
Caccuri era gestita dal dottor Raffaele
Piterà, un professionista cutrese che si era trasferito nel nostro
paese. La farmacia Piterà era ubicata in via Simonetta (casa
Durante). L’unica
meridiana, lo strumento
che consentiva di conoscere l’ora, almeno nelle giornate di sole,
esistente a Caccuri, era collocata sulla parete sud di casa “Lucente”,
in via Misericordia che ospitò, al piano terra, per oltre 20 anni,
l’ufficio postale. Ancora oggi il vecchio “orologio
solare” è visibile sulla stessa parete, anche se illeggibile e
inutilizzabile per l’incuria e il
degrado. Fino
alla fine degli anni ’60 del secolo scorso nel territorio
caccurese esistevano ben 5 rivendite di “Sali, tabacchi e chinino
di Stato” (Putighini). Tre erano ubicate a Ponte di Neto,
Botteghelle e Santa Rania, 2 nel capoluogo (via Misericordia –
Maria Mele, vedova Dardani ) e via Chiesa (Giovanni Marullo).
Negli anni ’20 e ‘30 ve ne era una sola gestita da
Domenico Caccuri. Attualmente le rivendite si sono ridotte a due:
una a Santa Rania e una a Caccuri, ma non vendono più né sale, né
il famoso chinino di Stato. Il
clero caccurese, che pure annoverò tra le sue fila ben tre vescovi
(Carnuto, Cavalcante e De Franco), un agiografo (Cornelio Pelusio) e
numerosi altri illustri sacerdoti, fu, spesso, anche oggetto di
pesanti sanzioni e
censure per comportamenti poco rispettosi dei precetti della Santa
Sede. Alcuni preti vennero meno all’obbligo del celibato, altri
violarono disposizioni e divieti dei vari vescovi e uno,
addirittura, si macchiò di un omicidio e chiuse la sua esistenza in
carcere. Negli
anni ’40 dello scorso secolo, dopo la fine del secondo conflitto
mondiale, anche Caccuri
era meta di compagnie teatrali viaggianti che, come l’antico carro
di Tespi, giravano in lungo e in largo la penisola cercando di
sbarcare il lunario facendo dimenticare alla gente gli orrori della
recente guerra con le loro “mirabolanti” commedie. Spesso, qui
da noi, attori e capocomici erano vittime di piccole truffe e
raggiri messi in atto da non troppo onesti giovanotti che si
intrufolavano nel teatrino improvvisato (in via Parte nel garage
Ambrosio o nel palazzo De Franco) con le più furbesche trovate,
senza pagare il biglietto. Alcuni personaggi delle opere
rappresentate divennero così popolari da trasformarsi in soprannomi
di gente del luogo che, ancora oggi, se li trascina dietro. La
collina della Serra Grande, secondo gli studiosi di geologia,
avrebbe la bella età di 280 milioni di anni. Le rocce che
costituiscono l’ossatura del sistema, definite “substrato
cristallino”, risalirebbero, infatti, al paleozoico. Su questa
parte, sempre secondo gli studiosi,
si sarebbero sedimentati diversi strati dando origine a
formazioni arenarie. Le rocce, come testimoniano i resti fossili,
erano sommerse ad una profondità non superiore ai (Professori
Moretti e Sannino – Università della Calabria – Lezione all’aperto
del 6/2/1999 in via Parte.) Il
cuore economico e sociale di Caccuri era, fino alla metà degli anni
‘60 del secolo scorso, il tratto di strada compreso tra la piazza
(ancora senza nome) e via Misericordia (resti della casa dei
Simonetta). In poco più di cento metri vi erano tre bar, un’
osteria, una trattoria, due botteghe di sarto, due barbieri, un
fabbro ferraio, due calzolai, un falegname, due negozi di generi
alimentari, due macellerie, il fruttivendolo, l’edicola, un
negozio di calzature, un negozio di tessuti, un negozio di
elettrodomestici e una
rivendita di tabacchi. Le
osterie, i bar e i saloni erano dei veri e propri centri di
aggregazione e di socializzazione dove la gente si incontrava e
discuteva di tutto. Nel
corso degli ultimi decenni molti famosi cantanti e gruppi musicali
si sono esibiti a Caccuri in occasione della festa di San Rocco. Tra
i molti si ricordano Isabella Iannetti, Sonia e le Sorelle, Ombretta
Colli, Riccardo Fogli, I Dik Dik, Mino Reitano, Flavia Fortunato,
Nada e tanti altri. Fino
agli anni ’50 del secolo scorso uno dei rioni più popolosi del
paese era il Vincolato, un gruppo di case compreso tra Via
Buonasera, Via Misericordia e vico Municipio. Si calcola che in una
quindicina di case vi fossero stipate più di 150 persone.
Attualmente nelle stesse case abitano stabilmente solo 5 persone. Nel
secolo scorso, fatta eccezione per la scuola dove quasi tutto il
personale insegnante era del luogo (almeno dal Il
nome di via Buonasera, secondo la tradizione,
venne dato al tratto di strada compreso tra piazza Umberto
I° e via Destra dove vivevano i ricchi del paese. Al mattino
presto, quando operai e contadini andavano a lavorare, i signori
dormivano per cui la povera gente non aveva “l’opportunità”
di augurare loro il buon giorno. Li incontravano, però, al tramonto
quando, distrutti dalla fatica, tornavano a casa. Allora erano
costretti a percorrere quel tratto con il
cappello in mano, salutando ossequiosamente i maggiorenti che
incontravano. “Buona sera”, “Buona sera”, ripetevano in
continuazione i lavoratori, fin quando non si aprivano le porte dei
loro poveri tuguri. La
casa canonica di via Chiesa fu costruita
tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60
dello scorso secolo. Uno dei primi e dei pochi sacerdoti che l’abitarono
stabilmente fu il compianto don Giovanni Greco, parroco di Caccuri
dal 1963 al 1980. Il
primo soldato caccurese caduto nella 1^ Guerra mondiale fu il
giovane Alessandro Gigliotti. Per questo motivo a lui, appartenente
a una famiglia di militanti del Partito popolare, fu intitolata,
durante il ventennio, la locale sezione del Partito Nazionale
Fascista. Nel
corso dell’ultimo secolo si sono estinte numerose antiche famiglie
caccuresi e sono scomparsi molti cognomi un tempo abbastanza
diffusi. Tra gli altri ricordiamo i Procopio, i De Carlo, i Caccuri,
i Demme, gli Urso, gli Abruzzino, i Tedesco, i De Luca, i Peluso, i
Cosenza. Nella
storia di Caccuri ci sono stati anche due segretari provinciali di
partiti politici che, vissuti in epoche lontane, risultarono
comunque schierati agli estremi. Il primo, Antonio De Franco, fu
segretario federale di Catanzaro del Partito Nazionale Fascista
negli anni ’30, il secondo, Antonio Mirandi, fu segretario della
federazione di Crotone del partito della Rifondazione comunista,
negli anni ’90. Nel
XVI° secolo il Crotonese fu teatro di scorribande della banda
di Marco Berardi, il famoso Re Marcone, un valdese al cui seguito vi
erano circa un migliaio di uomini che si batterono eroicamente
contro l’occupazione spagnola. Particolarmente efferati furono
alcuni episodi che si verificarono nel territorio di Rocca di Neto e
di Caccuri. Re Marcone fu poi trovato morto in una grotta nel
territorio caccurese e la sua banda fu sgominata
dall’esercito degli invasori. L’attuale
villa San Marco era originariamente una chiesa consacrata all’omonimo
santo. Sconsacrata e
acquistata dal barone Barracco, fu, per qualche decennio, adibita a
fienile tanto che è conosciuta dai Caccuresi come
“ ‘ A pagliera”, cioè il locale dove si depositava la
paglia. La
statua del santo in processione nella celebre scena de “Il
brigante Musolino”, il
film di Mario Camerini girata a Caccuri nella primavera del La
caserma della Guardia Nazionale mobilizzata di Caccuri, istituita
con la legge del 4 agosto 1861, era situata nei pressi della Porta
Grande (attuale piazza). Lo si desume dall’atto di morte di un
tale Bruno La manna, di anni 63, il cui decesso avvenne proprio all’interno
del posto di guardia. Come
il gobbo Quasimodo che nel romanzo di Victor Hugo “Notre Dame de
Paris” abitava nella famosa cattedrale parigina, anche nel
convento dei Dominicani di Caccuri dimorò, per alcuni anni, fino
alla metà degli anni ’50 del XX° secolo, un povero muto,
Domenico Dardani. Il
vecchio, assieme alla moglie, la pia e devota “za Maria Rosa”
Urso abitava nel campanile. I
due custodivano, con zelo e devozione, la chiesa all’epoca ancora
aperta al culto. Nel
1324 vivevano e operavano a Caccuri i sacerdoti don Giovanni
Cipriano, don Giovanni De Sabino , don Guglielmo Novello e don
Francesco Ruffo. Secondo
una relazione del 22 settembre del 1769 del vescovo mons. Francesco
Maria Trombini in quell’anno vivano a Caccuri 1174 abitanti. Molti
furono, nel corso dei secoli, gli uomini di chiesa
caccuresi, alcuni dei quali anche molto illustri. Oltre ai
vescovi Carnuto, De Franco e Cavalcante, ricordiamo il dotto
agiografo fra Cornelio Pelusio, mons. Muzio De Gaeta, governatore di
Loreto, il canonico don Giuseppe Rao che fece erigere l’omonima
cappella nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, don Antonio Maria
De Luca, don Angelo De Franco, fratello del vescovo, don Giuseppe
Ambrosio, don Gennaro Lucente, don Muzio Quintieri, don Francesco
Pasculli, Don Peppino Pitaro e, da ultimo, don Franco Lacaria. Da
ricordare, anche se non
nato a Caccuri, il
cardinale Giacomo Simonetta, figlio dello storico Giovanni e nipote
del grande Cicco, il caccurese segretario di Francesco Sforza. L’antica
abbazia di Santa Maria dei Tre Fanciulli nel secolo XVI° era nota
anche come Santa Maria Nel
1742 viveva a Caccuri ancora un maestro fonditore di campane. Si
chiamava Scipione Palmieri ed era originario di Bocchigliero.
Il
caccurese mons. Muzio De Gaeta, fratello di Ottavio, cognato del
duca don Marzio Cavalcante, nel 1696 ricopriva la carica di
governatore di Loreto. Il
luogo ove sorge attualmente l’Ufficio postale era noto nei secoli
passati come “Trempa dei cavalli” perché il dirupo sottostante
veniva utilizzato come cimitero di asini, muli e cavalli. Sull’esempio
dei Normanni e degli svevi, anche i sovrani angioini e aragonesi
furono munifici nei confronti dei florensi ai quali elargirono
sempre nuovi privilegi confermandone puntualmente gli antichi. Anche
i vari papi seguirono una politica analoga. Il
grande Cicco Simonetta, come ebbero a rilevare numerosi, autorevoli
storici, non fu immune dal vizio del nepotismo.Oltre a decine e
decine di calabresi che assunse
nella burocrazia
e nell’esercito del ducato sforzesco, il grande ministro volle con
sé e collocò nei posti più ambiti, cugini e nipoti. Uno di loro,
Cesare Protospataro fece, però, ritorno in Calabria carico di doni
elargitigli dall’illustre zio. Nelle
due guerre mondiali Caccuri pagò un altissimo tributo di sangue. I
caduti della “Grande guerra” furono
28, mentre nella seconda guerra mondiale persero la vita 22
giovani. Molti furono anche quelli che morirono per malattie
contratte in guerra e i grandi invalidi. Moltissimi
sono i soprannomi di persone o famiglie caccuresi che hanno origine
nelle arti o mestieri che esercitavano, nelle caratteristiche
fisiche o nei mestieri che esercitavano, o che fanno riferimento a
fatti o episodi curiosi della loro vita.
Eccone alcuni: Zommaru (nonno del sottoscritto, cavatore di
zomme, la radica dell’erica, legno pregiato per fabbricare pipe),
Calapizzata (signora originaria di Calopezzati), Zabarbari (nipoti
di zia Barbara), Zocculàru (fabbricante di zoccoli di legno),
Scarpalecia (scarpa leggera, piè veloce, agile), Pellettàru
(acconciatore di pelli), Rapinu (falco, rapace, soprannome di un
brigante caccurese del XIX° secolo famoso per aver tentato, sull’esempio
del più celebre Fra Diavolo, di appiccare il fuoco al convento). I
soprannomi sono anch’essi strumenti utilissimi di indagine che ci
aiutano a ricostruire la storia minore del nostro paese. Una
delle più antiche fontane pubbliche del paese è quella di
Canalaci, fatta costruire nel 1884 dal barone Barracco, sindaco del
paese. All’inizio del
XX° secolo, in seguito alla realizzazione dell’acquedotto
comunale, furono
attivate le fontane di via Destra, via Portapiccola, via Mergoli,
via Misericordia e via Salita Castello. La più vecchia fontana nel
rione Croci era situata all’imbocco
di via Vittorio Veneto dalla parte di via XXIV Maggio e fu
rimossa negli anni ’70. Nel
XIX° secolo a Caccuri, su
un territorio comunale di 57,3 kmq., il barone Barracco ne possedeva
19,60 kmq., oltre il 34,2%, Era
la percentuale più alta, dopo Cutro (50,5%) e Isola Capo Rizzuto
(49,5%). In questo caso, secondo alcuni studiosi, la
presenza del
latifondo può definirsi dominante. (M.
Petrusewicz – Latifondo . Marsilio ed. 1990 pp.66-67) Nel
1761 l’arciprete di Caccuri don Francesco Franco fu severamente
punito dal vescovo Carlo Ronchi per aver consentito a don Antonio
Cavalcante, fratello del duca di Caccuri e cavaliere dell’Ordine
di Malta, di accostarsi, in violazione di una recente disposizione
dello stesso vescovo, al sacramento dell’ eucaristia, pur vivendo
scandalosamente in concubinato con una tale Serafina Piluso, donna
maritata e già concubina dello stesso duca. Per questa colpa don
Franco fu costretto agli esercizi spirituali in un convento di
Mesoraca. L’abate
Salvatore Rota, napoletano, commendatario dell’Abbazia forense nel
XVI° secolo, mostrò, a differenza dei suoi predecessori, tutti
spagnoli che badavano soltanto a riscuotere le entrate del
monastero, molto interesse e
attaccamento all’istituzione affidatagli. Egli, infatti, restaurò
le antiche fabbriche e gli opifici e si prodigò per recuperarne i
beni. Il 23 febbraio del 1533 incontrò a Genova l’imperatore
Carlo V° al quale chiese l’autorizzazione ad intraprendere le
opportune iniziative per recuperare i beni del monastero che erano
stati usurpati. Le
mandrie dei suini dei baroni Barracco furono amministrate, per quasi
un secolo, dalla famiglia Ciampà di Caccuri. Il capostipite,
Aniceto Ciampà, assunse l’incarico nel 1813 e trasferì poi le
mansioni al figlio Giuseppe che nel 1939 divenne capo porcaro e, nel
1849, assunse l’amministrazione di tutta la produzione suina fino
al 1870, quando, alla sua morte, gli subentrò il figlio Vincenzo
che, a sua volta, fu sostituito nel 1892 dal figlio Giuseppe. Negli
anni ’50 del secolo scorso erano solo quattro le auto che
percorrevano le polverose strade di Caccuri e dintorni. Delle
quattro, due erano auto da noleggio, una Fiat 1400 Diesel di
proprietà di Luigi Pisano e una Fiat 600 del vecchio Capozza. Oltre
alle poche auto circolavano anche alcune moto
Vespa, un paio di Lambrette e due motofurgoni Ape di cui uno,
cabinato, era di proprietà del compianto Peppe Marasco. In
occasione della collocazione di una lapide su quel che resta della
casa del grande Simonetta, attualmente ricoperta da erbacce e tubi
del gas tra il disinteresse generale,
sorse una polemica alimentata da “intellettuali” del
luogo che contestavano la decisione dei promotori dell’iniziativa
di scrivere sulla lapide “Cecco” al posto di “Cicco” che, a
loro giudizio, era il vero nome del Simonetta. A parte il fatto che
il vero nome era Francesco, il grande politico, umanista e
diplomatico caccurese del XV° secolo veniva chiamato
indifferentemente, sia Cicco che Cecco. Il Machiavelli, nelle
Istorie fiorentine, scrive: “E stimavano che il popolo per la fame
dalla quale era aggravato dovesse facilmente seguirgli, perché
disegnavano dargli la casa di messer Cecco Simonetta”. E poi
ancora: “Nella quale contenzione madonna Bona, vecchia duchessa,
per il consiglio di messer Tommaso Soderini, allora per i Fiorentini
in quello stato oratore, e di messer Cecco Simonetta stato
segretario di Galeazzo ….”e, infine, “il che dispiaceva assai
a messer Cecco, uomo per prudenza e per lunga pratica
eccellentissimo.” Cecco lo chiama anche ripetutamente Pericle
Maone nel volume “Caccuri monastica e feudale” ed. A. G.
Mercurio – Portici 1969 alle pagine 19, 20, 21 e 52. “Cecho”
lo chiama il re di Napoli Ferdinando I° in un documento del 22
aprile del 1465: “ … tum maxime per respecto del magnifico Cecho
segretario dell’ill.mo Sig. Duca de Milano per respecto del quale
volimo che esso Hector è parente del dicto Cecho, siano favoriti et
guardative de fare lo contrario per quanto avite nostra gratia cara.”
Cecco o Cicco, infine, è il nome del più illustre dei caccuresi
anche per Il
13 gennaio del 1615 il papa Paolo V concesse alla Confraternita del
SS. Corpo di Gesù Cristo, detta anche del Santissimo Sacramento
della chiesa Matrice di Caccuri, l’indulgenza nelle feste
del SS. Corpo di Cristo, della Natività, dell’Annunciazione e
dell’Assunzione. (F. Russo – Regesto 27494) Una
curiosa trappola costruita con materiali di fortuna e molto ingegno
dai ragazzi caccuresi, era la “catrea” che serviva per catturare
vivi gli uccellini. In
un grosso cladodo (paletta) di fico d’india veniva praticata una
finestrella chiusa da una grata di legnetti. Si scavava poi una buca
nel terreno all’interno della quale veniva collocato un bastoncino
(spizzingulu) al quale si attaccava un chicco di granaglie. Il
bastoncino reggeva, in equilibrio precario, il pesante cladodo
proprio sopra la buca. Quando l’uccellino cercava di beccare il
chicco di grano la “paletta” cadeva e lo imprigionava nella buca
senza fargli male. Il ragazzo, allora, vedeva l’uccellino
attraverso la graticella, infilava la mano nella buca sollevando
delicatamente il cladodo e catturava la povera bestiola. I
terreni di proprietà del barone Barracco siti nell’agro di
Caccuri, nel periodo compreso tra il 1853 e il 1875 produssero i
seguenti redditi: anno 1854
- ducati 1870;
anno 1858 - ducati 4110;
anno 1861 – ducati 4000; anno 1870 – ducati 5035; anno 1875 –
ducati 5287. L’incremento notevole del reddito era determinato
dalle innovazioni tecnologiche che il barone introduceva nei
processi produttivi. Nel
1943 due pastori caccuresi, Vincenzo Fazio e Pietro Falese,
trovarono, nei pressi del cimitero, un residuato bellico che
scambiarono per una torcia elettrica. All’improvviso l’ordigno
esplose ferendo gravemente il Fazio che rischiò, per molto tempo,
di perdere l’uso delle gambe.
Allora fece voto al Bambino Gesù che se avesse riacquistato
l’uso degli arti inferiori avrebbe
eseguito, per tutta la vita, la
notte di Natale, il canto “Tu scendi dalle stelle” con la
cornamusa percorrendo in ginocchio il tratto compreso tra l’entrata
della chiesa di Santa Maria delle Grazie e l’altare maggiore, cosa
che fece regolarmente fino alla morte. Tra
i briganti caccuresi autori di feroci e cruente scorrerie nel nostro
territorio la tradizione popolare fa riferimento a due non meglio
identificati individui
noti con i soprannomi di “Cannello” e di “ ‘U Rapinu.” Il
primo, nella seconda decade del mese di aprile del 1861 tentò di
appiccare il fuoco al convento dei francescani, del secondo non si
hanno altre notizie.E', comunque, evidente, che si tratta di
personaggi di fantasia che non trovano alcun riscontro in atti e
fascicoli penali. Tra
le opere poco conosciute del nostro concittadino Cicco Simonetta va
annoverato il Liber Sifrorum Regule
ad extrahendum litteras ziferatas, sine exemplo ,
una guida pratica per agenti diplomatici per difendersi dai
cripto analisti, scritta nel 1474. Si trattava, in pratica, di una
serie di istruzioni per le spie del tempo per farla in barba al “controspionaggio.
In questo modo, come fu riconosciuto ampiamente a livello europeo,
il Simonetta diede un contributo notevolissimo allo sviluppo della
crittografia. Molte
furono le calamità che si abbatterono su
Caccuri nel corso dei secoli. Fra le più terribili
ricordiamo: la pestilenza del 1528, le epidemie del 1874, i
terremoti del 1638, del 1674 e del 1783, le alluvioni del 1679 e
quella del 1943 che provocò il crollo di una casa e la morte di
cinque persone, la
carestia del 1680, le grandi stragi perpetrate dai briganti nel 1861
e nel 1868. Prima
del 1950 il pane che consumavano i Caccuresi veniva cotto nei forni
a legna (frasche) di proprietà dei signori De Franco (largo V.
Ambrosio e S. Vito), Fazio (via Simonetta), Lucente (via Simonetta),
Ambrosio (via Destra) e Annunziata Lacaria (Via P. di Piemonte).
Successivamente fu aperto il forno di Salvatore Blaconà (attuale
panificio Loria) in piazza Umberto e, qualche anno dopo, quello di
Salvatore Durante in via Portapiccola. Per alcuni anni rimase aperto
anche un forno di proprietà del signor Francesco Pasculli che aveva
anche il mulino (il locale fu poi adibito
per qualche anno anche a
discoteca) presso L’origine
del sinonimo “Sambuco”, la località a ovest del paese, potrebbe
derivare dalla diffusa presenza, nella zona, della omonima
pianta la cui infiorescenza veniva usata per la preparazione
di decotti e sciroppi emollienti e per le gustose “pitte cu’
majiu”. Il sambuco, infatti, è conosciuto da noi col nome di “majiu”,
forse perché fiorisce a maggio. Fino
agli inizi degli anni ’70 le telefonate tra Caccuri e il resto del
mondo venivano smistate mediante centralino con operatore a spina. A
garantire le comunicazioni era la compianta signorina Anna Ambrosio
(Donna Ninnilla) che
passava le sue giornate a stabilire collegamenti in una stanza della
sua abitazione di via Salita Castello ove era ubicatoli centralino.
Con l’avvento del selettore automatico a disco il vetusto e
glorioso centralino fu sostituito da una fredda e anonima cabina
pubblica collocata nel bar Cimino in vico Municipio. La
"sgammia" era un curioso gioco molto in voga tra i ragazzi
caccuresi negli anni '20 e '30 del secolo scorso quando, anche tra i
fanciulli, era diffusa l'abitudine di portare il cappello. Dopo aver
fatto la conta, uno di loro era costretto a posare per terra
il cappello che veniva preso a calci da tutto il gruppo per le
vie del paese per la gioia dei cappellai. Chi sbagliava, consentendo
al legittimo proprietario di recuperare il copricapo, era
costretto a sacrificare il suo e così via fino a quando non si
stancavano e decidevano di cambiare gioco. Un
tempo, per la festa di San Rocco, i fedeli solevano preparare degli
ex voto di biscotto cosparsi di zucchero e chiara d’uovo che
venivano consumati presso il santuario. Si trattava, quasi sempre,
di particolari anatomici, braccia, gambe, teste, orecchie, nasi,
occhi un tempo ammalati e che si riteneva fossero guariti per
intercessione del santo. Una volta una signora si presentò con un
vassoio contenente un ex voto tagliato in più pezzi per rendere
impossibile l’identificazione di un imbarazzante particolare
anatomico del consorte guarito, a suo dire, dal santo patrono. Nel
XVI° secolo a Caccuri, oltre ai maestri fonditori, vivevano e
operavano anche dei bravi orafi poi trasferitisi altrove. In alcune
vecchie carte è possibile ancora rintracciare qualche labile
riferimento all’antica arte orafa caccurese. Verso
la fine degli anni ’50 venne abbattuta una gigantesca
pigna che era stata messa a dimora nel XVI° secolo da fra
Andrea da Gimigliano nei pressi del Convento dei Dominicani, mentre
erano in corso i lavori per la costruzione del monastero. La pianta,
che era oramai secca da qualche tempo, si trovava, più o meno, tra
le attuali case di Francesco e Peppino Basile. Nel
periodo compreso tra il 1836 e il 1838 il maestro intagliatore
caccurese Bruno Trocino dei Marsi fu chiamato a Strongoli per
sovrintendere alla realizzazione del Coro della Cattedrale e ai
lavori complessivi per un importo di 566,65 ducati.
I lavori furono affidati al maestro caccurese poiché a
Strongoli non vi erano artigiani in grado di realizzare l’opera.
Arcidiacono della cittadina era a quei tempi Raffaele De
Franco, caccurese, futuro vescovo di Catanzaro. (Da
“Alto Crotonese – Calabria – I monumenti e gli oggetti d’arte
di Anna Russano – aprile 2001 – Ed Gangemi) In
località Petraro, nel luogo ove sorge l’attuale campicello
scolastico (“La palestra”), venivano eseguite le sentenze di
morte per fucilazione decretate dagli ufficiali francesi nei
confronti dei briganti filo borbonici durante l’occupazione del
Regno nel periodo napoleonico. Quando
nel maggio del 1950 Amedeo Nazzari
giunse a Caccuri per girarvi alcune scene del film di Mario
Camerini “Il brigante Musolino”, rimase particolarmente colpito
dalla miseria e dalla fame dei ragazzini che, incuriositi,
bighellonavano nei dintorni del set. Poiché gli capitava, a volte
di consumare una veloce colazione all’aperto nei pressi del ponte
delle Monache, spesso divideva il pasto con gli affamati monelli. Quando
nel Nel
Fino
agli anni ’60, prima che si intensificasse il grande esodo che
portò allo spopolamento del paese, centinaia e centinaia di
Caccuresi vivevano nelle contrade di Pantane, Rìttusa, Conserva e
Laconi. Pantane era sede di un
plesso scolastico con due insegnanti, mentre a Rìttusa funzionava
una scuola sussidiata.
Nel
corso della sua visita in Calabria nel 1964, il Presidente della
Repubblica Giuseppe Saragat sostò per alcuni minuti al bivio di
Caccuri per salutare gli abitanti della cittadina che erano accorsi
a rendergli omaggio. Ad accogliere il Presidente in forma ufficiale,
con la fascia tricolore al collo, fu il vice sindaco Salvatore
Giuseppe Falbo accompagnato dall’assessore Vincenzo Sellaro. I
giganteschi corazzieri faticarono non poco a tenere a bada i
ragazzini che incuriositi, si avvicinavano al Capo dello Stato.
Negli anni ’50 l’autobus di linea per Crotone passava da Caccuri alle quattro del mattino, nel buio più pesto. Per questo motivo i Caccuresi l’avevano simpaticamente ribattezzata “ ‘a zagarogna”, la civetta, che, come è noto, è un uccello notturno.
Un
forte spopolamento di
Caccuri si ebbe nel secolo XVI°, probabilmente per il malgoverno
degli Spinelli e dei loro successori. In quel tempo molti caccurese
lasciarono la cittadina e si trasferirono nella vicina San Giovanni
in Fiore. I fuochi
(focolari di 4 persone presi a base per il censimento) scesero
rapidamente da Subito
dopo Il
grande Cicco Simonetta, il più illustre dei caccuresi, si era
laureato, probabilmente a Napoli, in diritto civile e canonico.
Conosceva, oltre all’italiano e al latino, il greco, l’ebraico,
lo spagnolo, il francese e il tedesco. Scrisse, oltre ai diari e
altri libri sulla crittografia, anche le “Costitutiones et ordines”
della Cancelleria, opera con la quale pose le basi della burocrazia
del Ducato. Il
mattatoio di San Vito, a poche decine di metri dall’abitato del
rione Croci, fu costruito nei primi anni ’60 e rimase in esercizio
per quasi 30 anni. Prima
della costruzione del palazzo del municipio, agli inizi degli anni
’60, gli uffici del
comune erano ospitati, da alcuni anni, in due aule al primo
superiore dell’edificio scolastico. Il precedenza il Municipio era
alloggiato nel palazzo De Franco, nel centro storico. A
testimonianza di ciò v’è ancora il nome di Vico Municipio che
designa il tratto di strada tra largo Vincenzo Ambrosio e via
Misericordia. Nel
1621 la popolazione di Caccuri era scesa a 800 abitanti, ma il
numero dei sacerdoti era salito a 18. Ai preti si aggiungevano due
monaci che abitavano il convento dei Dominicani e un terzo frate che
abitava nell’Abbazia di San Bernardo (Giacchetta), commendata a
Redolfo Ridolfi.
(da una
relazione di mons. Maurizio Ricci) La
vecchia strada che collegava la strada statale 107 (un tempo
Nazionale 61) con l’abitato di Caccuri, pur essendo stata
realizzata sul finire del XIX° secolo, fu asfaltata solo nel 1964,
venti anni prima che venisse realizzata la variante. Per quasi 90
anni carri, birocci e autovetture percorsero la strada polverosa e
sconnessa per raggiungere o lasciare il paese, con tutti i disagi
che ne derivavano. Eydo,
il nome della contrada dell’agro di Caccuri a nord ovest del
paese, è anche il nome di una cittadina spagnola. E’ probabile
che l’origine del toponimo sia da rintracciare proprio nella
dominazione spagnola delle nostre contrade. Nel 1362 ebbe luogo una lunga controversia tra il barone di Caccuri Squarcia De Riso che pretendeva di “avere la servitù di pascere e tagliare alberi nei territori prope castrum Caccurii” e l’abate forense, ma il viceré di Calabria diede torto al De Riso che dovette rinunciare alle sue pretese. Fra
i tanti toponimi curiosi che costellano il territorio caccurese, uno
ricorda una città lombarda: Pavia. Si tratta di un piccolo lembo di
terra nei pressi del depuratore di contrada Campo. Nella
seconda metà del XIX° secolo le levatrici caccuresi erano due.
Una, Maria Teresa Quintieri, nacque il 29 settembre del 1842 e morì
il 20 novembre del 1932 alla bella età di 90 anni, l’altra,
Elisabetta Mirandi, svolgeva
la sua professione nel perido 1865. Per
effetto di un decreto legge del 26 gennaio 1911 si sarebbe dovuto
costruire un tronco di ferrovia a scartamento ridotto Caccuri –
Petilia. La linea, sempre secondo il decreto, sarebbe entrata in
esercizio entro il 31 dicembre del 1922 però, come tante promesse
dei governanti, i lavori non ebbero mai inizio. Nel
1927 il maestro Peppino
Gigliotti, valente fabbro, autodidatta, già dirigente della Sezione
Combattenti di Caccuri , collocatore comunale e vice segretario del
fascio locale, ebbe l’onore di
ferrare il cavallo del signor Domenico Lopez, possidente
sangiovannese, che portò in groppa il re Vittorio Emanuele III° in
visita a Cotronei per l’inaugurazione della centrale idroelettrica
di Timpagrande. Dopo l’evento,
nel corso del quale andò tutto benissimo,
il Lopez gli mandò una lettera di ringraziamenti e l’elogio
del sovrano. Secondo
una leggenda ripresa dallo scrittore sangiovannese Saverio Basile,
il palazzo del Bordò, di proprietà dei signori Lopez, era abitato
dal fantasma di un maresciallo borbonico ucciso da un marito geloso
che lo aveva sorpreso con la propria moglie. Il folletto, conosciuto
come “Manachellu”,“alto non più di sei palmi, si divertiva a
infastidire gli abitanti del palazzo finché non ne fu scacciato da
un prete esorcista mandato dal vescovo di Cariati. Nella
seconda metà del XVIII° secolo
viveva e operava a Caccuri il notaio Domenico D’Ambrosio
che continuava la tradizione e l’opera dei notai caccuresi fra i
quali, il più famoso fu Domenico Mingazio o Mignaccio vissuto nel
XVI° secolo. Un altro notaio caccurese, Francesco Antonio Ambrosio,
morì all’età di 42 anni il 21 agosto del 1823. La
famosa donazione dell’ottobre del 1195 con la quale l’imperatore
Enrico VI° concesse al Monastero florense dell’abate Gioacchino
un vastissimo territorio appartenuto fino a quel tempo ai monaci
basiliani del Monastero dei Tre fanciulli, non fu l’unico regalo
del monarca al monaco di Celico. Già nel marzo dello stesso anno,
infatti, il sovrano svevo aveva assegnato ai florensi 50 bizantini d’oro
da pagare in occasione della festa di San Giovanni Battista, da
prelevare dalla rendita della salina del Neto. Nel
1947 si disputò una memorabile partita di calcio tra i giovani
simpatizzanti delle due liste civiche che si contendevano il comune,
quella di centro sinistra “ Nel
1650 il monastero dei Tre Fanciulli era abitato da tre soli frati:
Gregorio Ricciuto e Michelangelo Prospero di Mesoraca e Giovanni
Pietro Ricciuto di Altilia. La chiesa era lunga e larga 58 palmi. Il
monastero aveva 5 stanze a piano terra, di cui una scoperchiata,
adibite a cucina, forno, “ciollaro, magazzino e stalla e 4 stanze
al piano superiore. Era circondato da mura.
(Relazione Riciuto e Prospero del 20-3-1650) Secondo
G. Boca nel volume “Luoghi sismici della Calabria”, pag. 211
Caccuri, in occasione del terremoto del 1638 subì pochi danni
perché “era devastato dal tempo, però vi era stato poco danno
perché poche erano le abitazioni e le genti.” In effetti in
quegli anni la popolazione era scesa al di sotto dei 1000 abitanti. “’A
notte ‘e ra Patia” è una espressione caccurese per indicare un
evento drammatico. Questo modo di dire trae origine da un fatto di
cronaca verificatosi nei primi decenni del secolo scorso quando
Caccuresi e Sangiovannesi vennero violentemente alle mani durante la
veglia notturna per la festa della Madonna dei Tre Fanciulli (Patia)
che si celebrava l’8 settembre di ogni anno. I Sangiovannesi
ebbero la peggio e, nell’occasione, i Caccuresi aggredirono e
malmenarono anche i carabinieri accorsi a sedare i tumulti
costringendoli a battere in ritirata. Solo il giorno dopo, l’arrivo
di numerosi rinforzi, consentirono ai tutori dell’ordine di
arrestare i facinorosi e portarli in carcere. Alle
elezioni amministrative del 10 ottobre del 1920
i capi partito delle due liste in lizza si accordarono per
consentire agli elettori di esprimere il voto anche senza entrare
nella cabina elettorale. “Chi va nella cabina è un traditore”
era lo slogan degli agrari che vinsero con 65 voti di scarto.
Il
significato originario del toponimo “Laruso”, la località
caccurese famosa anche per la presenza di una fontanina dalla quale
sgorga un’acqua purissima, è “l’ haruso”, (con la h, come
è scritto in alcuni documenti antichi), cioè terreno arabile, che
può essere arato facilmente.
Prima della donazione di Enrico VI° a favore dell’abate Gioacchino il territorio di Caccuri era uno dei più estesi della Calabria e comprendeva anche l’attuale territorio dei comuni di San Giovanni in Fiore, Savelli e Castelsilano.
In Toscana, nella diocesi di Lucca, vi è un monastero che ricorda Caccuri. Si tratta del Monastero di San Cassiano in Caccurio concesso ai Forensi nel 1237 da Papa Gregorio IX°. (P. Maone – Caccuri monastica e feudale - A.G. Mercurio – Portici 1969, pp. 6)
Negli
anni ’20 l’artigiano caccurese Pietro De Mare costruì una
teleferica che consentiva l’agevole trasporto di pietra calcarea
dalla Serra Grande al fienile del barone Barracco (l’attuale villa
S. Marco.) La pietra veniva utilizzata per ricavarne calcina per
costruire le case del rione Croci che nasceva proprio in quel tempo.
Ecco
qui di seguito alcuni curiosi toponimi dell’agro di Caccuri,
alcuni dei quali, seppur lievemente modificati, esistono ancora:
Canalagi, Cangemi, Sautante, Biamonti, Lenzana, Acqua di Lepori,
Gradia, Misocampo, Homo morto, Jemmella, Lo Funaro, Fontanelle,
Passo de lo salice, Simigadi, Arcovadia, Lo Perdice.
Le
acque sulfuree di Bruciarello furono analizzate già nel 1840 dallo
Scacchi che ebbe modo di constatare che, nelle diverse sorgenti,
rivelavano temperature di 27, 34 e
Quando
nel 1927 il re Vittorio Emanuele III° inaugurò la centrale
idroelettrica di Timpagrande, il professor Francesco Pasculli, ex
sacerdote, già tenente degli arditi, legionario fiumano con
Dannunzio e fervente
fascista, gli fece pervenire una calorosa lettera di saluto nella
quale definiva “fascisti anche i nostri monti che oggi, e non
prima, sprigionano dalle loro viscere l’immensa energia
(autarchica) che muoverà ferrovie, motori e braccia “affasciandoli”
nella santità del lavoro.
La vecchia strada di accesso a Caccuri, compreso il ponte delle Monache, vene realizzata dall’impresa Luigi De Grasi. L’opera venne a costare 25.000 lire del tempo.
Il marchese Ceva Grimaldi di Pietracatella, capo del governo borbonico nel 1843, possedeva alcuni terreni a Caccuri che rivendette poi a Luigi Barracco.
Per molti anni Caccuri ospitò una caserma della Guardia di finanza alloggiata nel vecchio convento dei Dominicani. I finanzieri, che lasciarono il paese nel 1937, davano la caccia ai contrabbandieri di sale che riaprivano illegalmente le saline della zona.
Nel
gennaio del 1807 il brigante filo borbonico Giacomo Pedace, detto
Francatrippa, alla testa di ben 2.000 uomini, occupò le alture di
Gimmella nel tentativo di espugnare San Giovanni in Fiore. Tra loro
moltissimi briganti caccuresi.
Nella prima metà del secolo scorso, nei periodi più brutti del primo dopoguerra e dell’autarchia fascista, i nostri vecchi, che non trovavano o non avevano la possibilità di comprare tabacco, fumavano, nelle loro pipe di terracotta, dal cannello di canna, foglie di patate essiccate e cosparse di estratto di tabacco.
Nel
La
torre cilindrica merlata del castello, che farebbe pensare a una
costruzione medioevale, è, in effetti frutto di un artificio, un
espediente per mascherare il serbatoio di acqua che alimentava l’abitazione
del barone. Essa fu realizzata nel 1885 dall’architetto napoletano
Adolfo Mastrogli.
Nel 1742 viveva e operava a Caccuri un maestro fonditore di campane che si chiamava Scipione Calmieri. Un altro celebre maestro fonditore caccurese del XVI° secolo fu, invece, Angelo Rinaldi che nel 1578, su commissione dell’Università di Caccuri, fuse la campana della chiesa di Santa Maria delle Grazie.
In occasione delle elezioni amministrative del 28 giugno del 1914 la casa comunale di Caccuri venne completamente illuminata a gas acetilene. L’opera, realizzata dall’artigiano caccurese Pietro De Mare, costò 20 lire.
Nel
1915 la corrispondenza partita da Crotone,
arrivava a Caccuri solo il giorno dopo. Ciò perché la
corriera partiva tardi
da Crotone e non riusciva a raggiungere, entro la sera Caccuri (a
Il
nome Conserva, con il quale si indica la località a ovest del
paese, deriva dal fatto che nei secoli scorsi vi era stata ubicata
una conserva per la neve che veniva poi utilizzata nei mesi estivi.
La neve veniva conservata sotto terra coprendola con teli e
utilizzando come isolante termico la paglia.
I
Fuochi (Focolare di 4 persone) che costituivano la base censuaria e
fiscale nei secoli scorsi con i quali è stata censita la
popolazione caccurese nel XVI° e XVII° secolo furono i seguenti:
122 nel 1532, 314 nel 1545, 325 nel 1561, 325 nel 1578, 195 nel
1595, 85 nel 1648, 84 nel 1669. Sarebbe sbagliato, comunque, cercare
di determinare il numero di abitanti eseguendo una semplice
moltiplicazione in quanto il censimento per fuochi aveva solo scopi
fiscali. (22/12/01)
La centrale idroelettrica di Calusia, in territorio di Caccuri, fu inaugurata nel 1931 dal principe Umberto di Savoia, il futuro “Re di Maggio”. Quattro anni prima, nel 1927, il padre Vittorio Emanuele III° aveva inaugurato quella di Timpagrande.
Nel 1742 l’Università di Caccuri era amministrata dai seguenti signori: Diego Guarascio, sindaco, Giacomo de Miglio, eletto, Tommaso Aloisio, eletto, Aloisio De Rose, cancelliere (segretario). (27/12/01)
Racconta
una vecchia storiella che quando Vittorio Emanuele III°, nel 1927,
venne ad inaugurare la centrale idroelettrica di Timpagrande, un
sempliciotto sangiovannese, deluso dalla
bassa statura del re ed essendosi formato nella sua mente
chissà quale idea di un re, vedendolo esclamò: “ ‘U re, ‘u
re, ‘u re e tena la
capu ‘e ru cristianu” cioè,
“Si parla tanto di questo re e poi scopri che anche
ha la testa identica a quella di un uomo qualunque”. La
massima, impregnata di saggia ovvietà, non sfuggì ai Caccuresi che
presero a sfottere per molti anni quel il poveraccio.
Ecco di seguito l’elenco di alcune calamità che colpirono, nei secoli, Caccuri e gli altri paesi della zona: peste negli 1528 (decimò soprattutto Cerenzia), 1581, 1592, 1593; Siccità nel 1590; carestia nel 1591; terremoti nel 1544, 1549, 1560, 1599, 1638 , (catastrofico), 1832.
Nel 1742 i sacerdoti caccuresi erano ben 7: l’arciprete don Francesco Abate, il parroco don Gennaro Lucente e i sacerdoti don Domenico De Luca, don Domenico Antonio Abate, don Giacomo Clausi, don Giovanni Leto e don Giovanni Francesco Magliaro. I 7 religiosi curavano appena 1031 anime.
I De Gaeta e i Protospataro, illustri famiglie di patrizi caccuresi, erano parenti dei Simonetta forse per parte materna. La madre di Cicco, Margherita, era probabilmente originaria di Policastro.
Descrizione
del terremoto del 1638:
“Dirò, dunque, che
al 27 di marzo, l’hora tra 21 e 22, giorno del sabato delle Palme
dell’anno 1638, sotto il pontificato di Urbano VIII°,
d’horribile e fiero terremoto fu scossa la terra in questa
regione delle due Calavrie, per lo spazio di Eran
trascorsi 2 mesi e 12 giorni senza altro danno nella provincia,
malgrado fosse scossa da continui terremoti quando , agli 8 di
giugno 1638, verso l’otto ore del giorno, si sentì un terribile
terremoto dalla parte di tramontana che apportò grandissimo timore,
ma non danno. Alle
ore 15 del giorno stesso che fu di martedì, con maggiore impeto,
per lo spazio di mezzo quarto d’ora, rinforzò quel furore.
Intraprese in molte parti gli edifici, palagi, templi, case, torri,
tetti. A quest’ultimo avviso funesto ciascuno abbandonò le
proprie stanze e si ritirò in aperta campagna: e fu celestiale voce
e favore divino. Infatti la notte seguente, verso le cinque in sei
ore, da più terribile terremoto furono abbattute alcune città,
terre e castelli, intraperta la terra; molti luoghi furono offesi da
profonde voragini e la parte verso il fiume di Nefari e Neto che
fino a quel giorno era spettatrice pietosa delle miserie altrui,
divenne spettacolo lacrimoso delle sue lacere membra e da quella
parte del fiume Neto, Rocca di Neto, S.Severina, Altilia, Belvedere,
Cerenzia, Zinga, Casabona, Caccuri, San Giovanni in Fiore. I danni
furono gravissimi, ma i morti furono pochi e a Casabona solamente;
ad Altilia si aprì una profonda voragine tale che, fatte scendere
alcune funi, non fu possibile trovare il fine della profondità; a
S. Severina s’aprì il famoso monte Plinio detto Elibano, or fu
Vesardo e dentro la medesima città si fece una lunga fessura; a San
Giovanni in Fiore s’aprì la terra per una larghezza di due palmi
e per una lunghezza di molte miglia verso
Secondo la tradizione popolare, ripresa fortunatamente dal nostro concittadino maresciallo Prete, l’autore dei versi e della musica della “Rina”, la tradizionale serenata augurale che si canta tra Capodanno e l’Epifania per le strade del paese, sarebbe un certo “Saveriu ‘u scritture” che avrebbe composto il pezzo nel 1835. Da
quasi 45 anni a Caccuri non si registrano fatti di sangue. L’ultimo
omicidio (uno dei pochissimi in tutto il XX° secolo) risale al
lontano 1958 con la morte di individui. (1)
G.
Aragona Cerenzia -
Pubblisfera 1998 pag. 185 (2)
P. De
Leo – Reliquie forensi pag. 394 -395 (3) G. Aragona op.cit. pag. 185
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