Saverio Chindamo -
Giffone (RC) 0-7-1884 - Caccuri 8-3-1966
Devo
tantissimo a nonno Saverio,
classe
1884, "zommaru", grande lavoratore, emigrato per sette
anni negli USA a spalare carbone nel fondo di una miniera, scomparso
nel marzo del 1966. Gli devo davvero molto: da alcuni tratti
caratteriali, al gusto per il racconto, a quello
per il melodramma che lui, completamente analfabeta essendo rimasto
orfano di padre e di madre in un paesino dell'Aspromonte del 1887,
senza altri parenti all'infuori dei vecchi nonni, coltivava con
passione. Spesso mi capita di ricordare gli spassosi aneddoti
che mi raccontava da bambino e che voglio trascrivere in questa
pagina, sia come omaggio al "mio primo maestro", sia
perché, credo, vaga la pena tramandarli, anche se qualcuno,
probabilmente, sarà noto anche a qualche amico caccurese. Altri,
però, risulteranno completamente "inediti".
Nonno Saverio, infatti, spesso riportava racconti sulla vita degli
emigrati o sulla Caccuri dei primi anni del secolo scorso (paese
che, dal 1902, divenne per sempre il suo paese), ma spesso si
divertiva ad inventarne di nuovi.
Mastro Agostino cerca
lavoro
Mastro Agostino era un mastro muratore “filosofo”, come ce n’erano
tanti agli inizi del secolo scorso; bravi artigiani, ma anche teste
pensanti, nonostante il detto popolare attribuisse il cervello fino
al solo contadino.
Una volta, spinto dal bisogno dato che in
quei tempi c’era molta disoccupazione, il bravo muratore si
presentò, assieme a un suo amico, a un impresario per
chiedergli di essere assunto, anche in una mansione diversa da
quella di muratore. L’impresario, che aveva bisogno di manodopera,
ma che non voleva, come si suol dirsi, “comprare la gatta nel
sacco”, si premurò di accertarsi delle loro competenze e chiese
ai due, cominciando dall’amico, cosa sapevano fare.”
L’uomo, che sapeva appena fare il
manovale e nemmeno tanto bene, cominciò ad elencare le sue
straordinarie capacità. “So fare il muratore, rispose, il
manovale, il carpentiere, il ferraiolo, lo scalpellino, l’acquaiolo,
il maniscalco, il mulattiere, il carrettiere, il carcararo, il
fuochino, l’arrotino …...” e avrebbe continuato chissà per
quanto se l’impresario non lo avesse fermato.
Bene, disse il padrone, quindi si rivolse a
mastro Agostino: “E tu che sai fare?”, gli chiese.
“Io, si schernì il mastro filosofo, io non so fare niente, sa
fare già tutto lui.”
L’impresario, che non era uno
sciocco, dalla risposta capì immediatamente di avere a che fare con
uno che aveva talento e lo assunse immediatamente, e, ridendo sotto
i baffi, dato che era tutto sommato di buon cuore, assunse anche l’amico
del grane mastro Agostino.
Botti e
botte
Dalle parti di nonno Saverio la gente andava matta per
i fuochi pirotecnici, almeno verso la fine dell’Ottocento. Tutti
aspettavano con impazienza la festa patronale che sembrava non
arrivasse mai, non tanto per le funzioni religiose, la processione,
la banda che suonava per le vie del paese, quanto perché,
finalmente, quello era il giorno dei fuochi.
Detta così uno potrebbe pensare che quella
brava gente godesse nell’ammirare le “meteore”, i “serpentelli",
le "stelle", gli “scoppietti”, le "lance di
fuoco" che solcavano il cielo, i finali mozzafiato, le
luci, i colori; macché, niente di tutto questo! Ciò che la
interessava in modo quasi morboso e l’appassionava di più era l’intensità
dei botti, il frastuono dello scoppio, quelle bombe terrificanti che
facevano vibrare i vetri delle finestre. Infatti la bravura del
fuochista veniva misurata dalla quantità di vetri delle finestre
del paese che riusciva a rompere con quei colpi assordanti che
facevano tremare dalle fondamenta perfino le case. Poteva creare le
composizioni più fantasmagoriche, colorare magicamente il cielo,
riempirlo di migliaia di variopinte stelline infuocate che
ricadevano lievemente a terra lasciando la loro scia nel buio della
notte, disegnare margherite di fuoco, se non spaccava almeno la
metà dei vetri del paese, la gente rumoreggiava, protestava e a
volte, passava anche a vie di fatto.
Nonno mi raccontava spesso l’episodio di un povero
fuochista malmenato, cacciato in malo modo dal paese e inseguito per
un bel pezzo lungo la strada che portava nella Piana, solo perché i
botti erano stati giudicati poco rumorosi alla stregua di
castagne che scoppiano mentre si fanno le caldarroste perché ci
siamo dimenticati di inciderne la buccia. Questa cosa lo infastidiva
molto e gli provocò una sorta di avversione a questo genere di
spettacolo, tanto che a distanza di più cinquant’anni, ogni
volta che per la festa patronale, col suo amico Luigi,
si recava a piedi a San Giovanni in Fiore attraverso Gimmella
per ascoltare la banda sul palco che suonava marce sinfoniche e le
overture dei migliori capolavori del melodramma italiano che erano
la sua passione, si arrabbiava di brutto quando gli spettatori, ad
una certa ora, cominciavano a rumoreggiare per costringere la banda
ad abbreviare il concerto per “dare subito la parola” ai botti.
Rosuzza 'e
petre, ''e petre
C’era una volta,
agli inizi del secolo scorso, una povera donna di nome Rosina, ma
che tutti chiamavano Rosuzza. Era una sempliciotta, analfabeta che
non aveva la più pallida idea di come fosse fatto il mondo. Viveva
da sola perché il marito e i figli erano da tempo emigrati in
America e il sogno suo impossibile era quello di poterli un giorno
raggiungere per stare con loro e vincere la solitudine.
In paese le volevano
tutti bene, giovani e anziani, ma si sa, anche se si vuol bene a
qualcuno, se questo qualcuno è un debole, un sempliciotto, uno che
si beve tutto e non ha malizia, finisce per diventare la vittima di
scherzi e sfottò a volte anche pesanti e la povera Rosuzza non
sfuggiva a questa regola.
Ogni volta che era preda della
malinconia e si sentiva più sola, Rosuzza ripeteva, con chiunque si
trovava, il suo proposito di raggiungere i suoi negli Stati
Uniti. I paesani, divertiti le chiedevano come pensava di andare in
America e lei, con tutta l’innocenza e il candore di cui
sono capaci le persone semplici, rispondeva che vi sarebbe andata a
piedi. Allora subentrava la seconda obiezione: “Ma come
farai, ti perderai, tu non conosci la strada come farai per arrivare
in un posto così lontano?", ma anche per questo Rosuzza aveva
la sua soluzione: “Addimmannannu, addimmannannu.”
A questo punto i burlone di turno le
parava davanti l’ostacolo che a suo giudizio sarebbe risultato
insormontabile: “Ma non puoi andare in America a piedi; c’è il
mare, come farai a camminare sull’acqua?” E Rosuzza senza
scomporsi: “’E petre, ‘e petre.”
L'orologio
e la catena
C’era una
volta un padre che aveva un bellissimo orologio da taschino tutto d’oro
che portava nella tasca interna della giacca alla quale era
assicurato da un’altrettanto bella catena d’oro. Sentendosi
oramai prossimo alla fine, chiamò i suoi due figli e fece loro
questo discorso.
“Ragazzi miei, sento che oramai i miei giorni stanno per
finire. Per quanto riguarda il resto delle nostre proprietà ho già
fatto testamento per cui non litigherete certamente; penserà il
notaio ad assegnare a ognuno di voi ciò che gli spetta. L’unica
proprietà che mi rimane ancora da dividere è questo orologio d’oro
con questa catena che continuerò a usare fino al mio ultimo giorno,
poi anche questo dovrà essere diviso tra voi. Siccome non
potete farlo a pezzi, uno dei due avrà l’orologio, l’altro la
catena. Ora vorrei che trovaste voi il modo di mettervi d’accordo
prima che io chiuda per sempre i miei occhi.
Il vecchio si aspettava una
discussione accesa tra i figli, una disputa feroce, magari il
ricorso a qualche arbitrato, invece il più giovane risolse
immediatamente il problema con soddisfazione piena del fratello.
“Papà, disse rivolto al genitore, siccome io sono il
secondogenito, penso sia giusto che mio fratello erediti l’orologio.
Io mi accontento della catena.”
Al fratello scintillarono gli occhi mentre si dichiarava d’accordo
e il padre, gioioso per la felice conclusione della spinosa vicenda,
non riusciva a spiegarsi la remissività del figlio minore e, quando
il fratello maggiore si fu allontanato, lo chiamò e gli chiese:
“Mi
spieghi perché ti sei subito accontentato della catena senza
pensarci nemmeno un minuto rinunciando a un bellissimo
orologio?”
“Padre, rispose il figlio, a me non interessa il valore venale
dell’oggetto, ma quello affettivo. Anche la catena mi aiuterà a
conservare per sempre il tuo caro ricordo. Ma la cosa che mi ha
spinto più di ogni altra a scegliere la catena è il fatto che l’orologio
prima o poi si romperà e servirà a ben poco, mentre la catena non
si romperà mai.”
Il padre sorrise compiaciuto per la saggezza del figlio e lo
abbracciò teneramente.
I pisci d’a Sciarretta
C’era, in un paese di cui non ricordo nome (ma
sicuramente della provincia di Reggio Calabria, visto che l’aneddoto
me lo raccontava nonno Saverio), un braccio di mare chiamato “' A
Sciarretta” molto pescoso che faceva la fortuna dei
pescatori che vivevano in quel fortunato borgo.
La sera
partivano con le loro paranze, le loro barche a remi, si
allontanavano di qualche centinano di metri dalla costa, calavano le
reti e i palamiti e al mattino tornavano a terra con le imbarcazioni
stracariche di pesce che veniva trasportato subito al vicino
mercato. Al mattino sui banchi del mercato v'era ogni ben di dio:
cozze, vongole, calamari, seppie, polipi, vope, alici, gamberi,
cicale, triglie, alose, ghiozzi, cernie, merluzzi, dentici,
insomma tutto quello che si poteva desiderare. La qualità, la
freschezza e la grande varietà del pesce di quel posto erano
proverbiali e facevano accorrere frotte di gente anche dai paesi
vicini per acquistarlo per cui il mercato si trasformava in una
bolgia infernale per la calca e per le grida dei pescatori che
reclamizzavano il loro prodotto.
“Pisci,
pisci vivu, pisci friscu e sapuritu”,
gridava uno, e l’altro;
“Accattativi u
megghju pisci d’o munnu, ‘u pisci i Pascali Scerra piscatu
friscu, friscu!”
Questione di qualche decimo di secondo e attaccava un altro:
“Ahia, ahia,
ahi chi pisci chi piscai stamatina! Ti cianci ‘u cori mu t’u
mangi tantu è bellu!”
e un altro ancora:
“Veniti, veniti
‘u viditi comu sarta ‘u pisci chi pigghiau stanotti Cicciu
Brezzi!”
“U megghiu
pisci ‘o vindu eu; veru pisci 'i mari!”,
gridava un altro.
Ma proprio quando “gli idola fori”, come le avrebbe definiti
Bacone, raggiungevano il culmine frastornando gli avevntori, un
altro pescatore che se n’era stato fino a quel momento in silenzio
cercando di vendere la sua mercanzia senza fare baccano e senza
sbruffonate, e senza rompere "i cabasisi" per dirla con
Camilleri, perdeva la pazienza e si metteva a urlare a
squarciagola:
“Su’ tutti
guali i pisci d’’a Sciarrettaaaaaaa, suì tutti guali i pisci d’’a
Sciarrettaaaaaaa!
L’inglese
di nonno Saverio
Come tanti, forse
come tutti quelli che, emigrati in America per
lavoro, fecero ritorno in Italia, per loro volontà o perché
costretti da qualche grave motivo, nonno Saverio sentì per tutta la
vita una struggente nostalgia per quel paese che, anche se lo aveva
sfruttato costringendolo a scavare carbone a centinaia di metri
sotto terra come un dannato, gli aveva dato, per la prima volta in
vita sua, un po’ di dignità, quella dignità che invece gli aveva
negato il Regno d’Italia dei Savoia che era nato circa un
ventennio prima si lui e, soprattutto, gli aveva consentito di
mettere da parte le famose seimila lire che occorrevano, agli inizi
degli anni venti a Caccuri per costruirsi un monolocale di otto
metri per cinque. Così, quando nel 1958 un ictus e una conseguente
paralisi lo costrinsero a starsene a casa, lui che nella vita non
aveva mai avuto un attimo di riposo e che quando tornava la sera a
casa con l’asino carico di legna si caricava anch’egli più
della bestia, mi faceva sedere accanto a lui e mi parlava di
quel mondo “fiabesco e sconosciuto.” Ricordava ancora un po’
di quell’inglese maccheronico, probabilmente infarcito da termini
gergali o forse dialettali americani che, da analfabeta, era
riuscito a imparare e che pronunciava ovviamente italianizzandolo,
anzi caccuresizzandolo senza badare alla purezza della lingua
e, spesso, cercava di insegnarmi qualche vocabolo. Così mi
divennero familiari parole come “échis” che poi scoprii essere
gli "eggs" e “cisu”, cheese.
A proposito di “cisu” una volta mi raccontò
la storiella di un napoletano, che entrato in uno store per
fare acquisti, non riusciva a farsi capire dal proprietario e che,
persa la pazienza apostrofò il gestore con un “Pozza murì
accisu!” ottenendo, finalmente l’agognato formaggio.
Da nonno sentii per la prima volta la
parola “country”, che lui pronunciava sbrigativamente “contrì”
con l’accento sulla “I”, nel contesto di una canzoncina
americana che non ricordo e che parlava della nostalgia di un
emigrato per il suo paese. E ogni volta che la cantava (ma forse la
cantava apposta quando era incazzato con l’Italia), malediceva il
“suo country” nel quale era tornato solo per portarsi dietro la
moglie e i figli in America e dal quale non era più riuscito
a ripartire.
Sempre da nonno sentii per la prima volta in vita
mia un motivetto orecchiabile e accattivante in una lingua
incomprensibile che scoprii poi essere la famosa It's a Long Way to
Tipperary” e fu ancora nonno Saverio a parlarmi per primo di un
giovanissimo attore comico che aveva avuto modo di vedere in America
nel corso di uno spettacolino per minatori, un tipetto con il
baffetto, la bombetta, il bastone e delle buffe scarpe, che lui
chiamava a modo suo, nel suo inglese approssimativo, “Ciaracciappa”
e che era in realtà il grande Charlie Chaplin.
Mr.
Donkey
Una volta, agli inizi del 900 un poveraccio, che era immigrato da
clandestino negli Stati Uniti, si presentò in un cantiere americano
nel quale lavoravano parecchi italiani con la speranza di riuscire a
trovare un lavoro. I connazionali gli fecero una buona accoglienza, ma
presto tornarono al lavoro per non incorrere nelle ire dei capi
squadra. Uno di loro, però, si rivolse al nuovo venuto e gli disse:
“Paisà, che sei venuto a fare qui?” e quando il poveraccio gli
spiegò che cercava lavoro, ma non sapeva come fare, la canaglia
gli rispose: “Non ti preoccupare, vai dal quel tipo robusto con le
mai ai fianchi che sta in mezzo a quel gruppo là in fondo e gli dici
così: Good morning, Mr. Donkey, there is work for me” e vedrai che
ti darà il lavoro.
Il povero clandestino stentava a ripetere quella
tiritera in quella lingua stranissima, ma il marpione lo istruì alla
perfezione e quando si rese conto che, nonostante una pronuncia
mostruosa la frase risultava abbastanza comprensibile, lo lasciò
andare.
Avvicinatosi al boss, l’aspirante
lavoratore, gli ripeté la frase in un improbabile americano. Il boss,
sentendosi dare del somaro, strabuzzò gli occhi, divenne paonazzo e
stava per afferrare per il collo il malcapitato per strozzarlo, ma fu
solo questione di un attimo. Dall’accento con il quale aveva
pronunciato la frase, si rese immediatamente conto che non poteva
essere farina del suo sacco e che era stato istruito da qualcuno in
vena di facezie per cui si ricompose e, con grande affabilità, gli
chiese con l’aiuto di un altro suo compaesano che faceva da
traduttore, chi gli aveva insegnato quella frase.
Il poverino, che non si rendeva conto di
niente, glielo indicò e il boss lo fece chiamare immediatamente.
“Tu, gli disse in americano quando si
ritrovò davanti lo spiritoso, lascia immediatamente gli attrezzi di
lavoro, passa dal’ufficio, ritira la paga che ti spetta e lascia
immediatamente il cantiere”, poi si rivolse affabilmente al nuovo
venuto “ E tu, prendi i suo attrezzi e vai a continuare il
lavoro che stava facendo lui; da questo momento sei assunto.”
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