Un
giorno di fine inverno degli anni ’20 dello
scorso secolo, Peppino Marino, un calzolaio
analfabeta, Antonio Loria, agrimensore e don Peppino Pitaro,
l’arciprete, si trovavano a Catanzaro dove si
erano recati per ottenere il rilascio di alcuni certificati catastali
per certi terreni che intendevano acquistare.
Il
viaggio era stato alquanto avventuroso, come poteva essere avventuroso,
a quei tempi, percorrere quasi centoventi
chilometri (questa era la distanza che separava lo sperduto paesino dal
capoluogo di provincia) con mezzi di fortuna, su
strade polverose e sconnesse, con i rischi e i pericoli cui si andava
incontro attraversando certe zone.
Erano entrati in
Catanzaro allo spuntar dell’alba, dopo due giorni che avevano
lasciato il paese e, alle sette del mattino, erano già davanti al
catasto dove, grazie all’intraprendenza, alle amicizie e alle astuzie
del prete, erano riusciti, nella stessa mattinata, a visurare i
registri e ad ottenere gli agognati certificati. Ora era quasi
mezzogiorno e i morsi della fame cominciavano a farsi sentire, tanto più
che i tre erano svegli dalle quattro del mattino ed avevano camminato a
lungo.
Zu Peppino e
zu ‘Ntoni, entrambi buone forchette ed eccellenti bicchieri, nonché
“uomini di mondo” sapevano che a Catanzaro era dato gustare il
migliore spezzatino che si possa preparare al mondo, “ ‘u murzeddu” (1),
piatto prediletto dagli antichi abitanti della “capitale della seta”
e non solo, per cui non vedevano l’ora di sedersi al tavolo di una
delle tante trattorie che pullulavano nella cittadina, per riempire una
bella pitta calda di quell’eccellente intingolo ed accompagnarlo con
un paio di bottiglie a testa. Anche l’arciprete, nonostante fosse
venerdì, giorno di magro, aveva più o meno le stesse intenzioni per
cui si diedero a cercare un’osteria. Purtroppo, proprio il giorno
prima, Catanzaro aveva ospitato il Duce nel giorno del famoso discorso
del “passo avanti”, quando, alle migliaia di persone accorse in
piazza ad ascoltarlo, il capo del Fascismo disse: “Calabresi,
la Calabria
dovrà uscire dal suo secolare stato di arretratezza!
Calabresi, dovete fare tutti un passo avanti!” e le migliaia di
camerati obbedienti avanzarono di un passo ondeggiando paurosamente
sulla piazza e rischiando di calpestarsi a vicenda.
Camerati, militi, avanguardisti, piccole italiane,
parassiti, saprofiti, balilla, figli della lupa, lupi in camicia nera
avevano perciò divorato tutto quello che si poteva divorare, dando
fondo alle provviste della città amata da Carlo V°. Così, quando i
tre amici riuscirono, finalmente, a trovare una bettola in grado di
poter dar loro qualcosa da mangiare, si sentirono offrire, a patto che
potessero pagare, una zuppa di cavoli Questo era tutto
ciò che il bettoliere era riuscito a preservare dalle fameliche ganasce
delle camicie nere.
“Almeno si può avere una bottiglia di vino?”, esclamò zu
Peppino seriamente preoccupato e con tono supplichevole. “Anche
due?”, aggiunse ancor più preoccupato di un eventuale rifiuto zu
‘Ntoni pensando che una sola bottiglia non sarebbe bastata nemmeno a
sciacquarsi il gargarozzo impolverato. “Il vino, per fortuna, non
manca, rispose l’oste ponendo fine alle terribili angosce dei due
amici, potete averne quanto ne volete.” La
gioia dei due amici, che in cuor loro maledivano i seguaci del Duce
che li avevano privati del “murzeddu” era evidente e l’oste si
affrettò ad eseguire la comanda. Pochi minuti
dopo mise in tavola tre piatti fumanti di zuppa di cavoli e due
bottiglie di vino che i due amici tracannarono in un baleno, tanto che
fu necessario ordinarne altre due e poi altre due ancora.
“Bene”, disse ad un certo punto zu Peppino dopo aver
tracannato l’ennesimo bicchiere, ora ci vorrebbe qualcosa per farsi la
bocca, insomma ‘n asciutta stomacu.“
“Parole sante, aggiunse zu
‘Ntoni, possibile che un cristiano non possa
mangiare da cristiano in questa maledetta città?”
“Accidenti
a chilli ‘e ru joccu (2) e alla
loro voracità!”, esclamò don Peppino riferendosi ai fascisti e alla
loro mania di portare il fez col fiocco, mentre chiamava a gran voce
l’oste. “Ma possibile non ci sia proprio più
niente da mettere sotto i denti in questa città, chiese il reverendo al
malcapitato oste, che so io, un po’ di prosciutto, una alice salata,
una crosta di formaggio, niente di niente?”
“L’unica cosa
rimasta in cucina, rispose lo sconsolato avventore, è un uovo sodo, uno
solo, posso portarvi quello.” “E vada per l’uovo sodo, rispose il
sacerdote, portaci almeno quello.”
Qualche attimo dopo l’oste mise in tavola l’uovo che i
tre guardarono con cupidigia. “Un uovo, un uovo sodo per tre persone,
sai che abbuffata!”, disse zu Peppino guardando quel misero cosino nel
piatto.
“Già,
un uovo, aggiunse zu ‘Ntoni. A parte il fatto che non sazierà nessuno
dei tre, chi lo mangerà?”
“E’ vero, osservò
don Peppino, mentre già pensava a qualche astuzia che gli consentisse
di appropriarsi dell’uovo e mangiarselo con buona pace degli amici, ho
una proposta da fare. Siccome ci troviamo in una situazione insolita e
curiosa, propongo che l’uovo vada a chi sarà in grado di inventare il
motto più arguto che si possa adattare alla situazione che stiamo
vivendo.” Era evidente che, così messa la
cosa, la vittoria nella singolare tenzone non poteva che non arridere al
sacerdote, uomo di cultura e fine latinista che avrebbe fatto polpette
dell’agrimensore e del calzolaio analfabeta e, zu ‘Ntoni, più per
stare al gioco che per tentare in qualche modo di mangiare l’uovo,
prese un abbondante pizzico di sale e lo versò
sull’uovo mentre pronunciava il motto “Sale e sapienza!”. “Cum
grano salis!”, ammonì don Peppino agitando l’indice in segno di
rimprovero verso l’amico che aveva abbondato
col sale.
A
questo punto, di fronte ad una massima così bella ed efficace, che si
adattava magnificamente alla realtà vissuta, la cosa sembrava decisa
quando zu Peppino mise repentinamente la mano nel piatto, si impadronì
dell’uovo, lo fece lestamente sparire nella bocca, lo trangugiò, si
scolò mezzo bicchiere e, pulendosi il muso con la manica della giacca, esclamò:
“Consummatus est!”, ponendo fine alla tenzone e senza dar modo alla
giuria di stabilire l’eventuale vincitore.
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