Impegno
letterario, civile e politico in Carlo Levi
Anno 1992
C.
Levi - Aliano
CENNI
BIOGRAFICI
Carlo
Levi, torinese, medico per studi, pittore per innata,
prepotente, incontenibile vocazione, politico per amore di libertà,
meridionalista e letterato per caso,
è una delle
figure più rappresentative della letteratura
contemporanea per impegno e passione civile,
per profondità di pensiero, per la lucida, precisa
coscienza della
realtà che descrive, per l'analisi
degli arcaici mali del Mezzogiorno che ha saputo
fare e che ha saputo sapientemente evidenziare.
Nacque
a Torino da una agiata famiglia di origini ebree e qui trascorse
("adolescenza e la giovinezza. Insieme
alla
sorella si laureò in medicina, ma non ebbe mai
né la voglia, né l'opportunità di esercitare la professione,
se non nel periodo che trascorse, da confinato,
in Aliano, uno sperduto paesino della provincia
di Matera. La sua vera, autentica vocazione era
e rimase sempre la pittura.
A
Torino Levi ebbe l'opportunità di conoscere Piero Gobetti
ed un gruppo di giovani intellettuali antifascisti
di cui divenne amico e con i quali condivise,
negli anni futuri, l'impegno antifascista, il confino, spesso il carcere e, con i più fortunati, l'ebbrezza
della liberazione e la nascita dello Stato democratico.
Nello
stesso anno in cui consegui la laurea in medicina
espose, per la prima volta, alla
biennale di Venezia. In quel periodo
trionfava la retorica servile dell'arte
di regime il cui unico scopo era quello di osannare
scioccamente le conquiste e le megalomanie del fascismo e la falsa
modernità del futurismo che, nato piuttosto
come un connubio non risolto di stati d'animo,
di umori e di insoddisfazioni che portava i suoi
aderenti a propugnare il culto della forza, della violenza,
del dinamismo, aderì in toto ( anzi ne divenne
forza trainante) al fascino. Carlo Levi, assieme ad altri cinque pittori di Torino, affermava, in
contrasto con il futurismo, il valore dell’
espressione della libertà e
dell'individualismo in tutte le
manifestazioni artistiche. Ciò, oltre all'impegno politico successivo,
contribuì a creargli l'inimicizia del
regime che cominciò a perseguitarlo. Qualche tempo dopo, infatti, lo troviamo fra i fondatori
di Giustizia e Libertà, la formazione politica
cui aderirono Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini
i fratelli Rosselli, il siciliano Ugo La Malfa,
Giorgio Bocca e tanti altri giovani intellettuali,
molti dei quali vennero inghiottiti
Dall'esperienza
lucana nacque il suo capolavoro, quel
"Cristo si è fermato ad Eboli" che oggi viene considerato
un classico della letteratura italiana e che
tanto successo ha avuto anche all'estero. Altra
opera fondamentale del letterato piemontese è "Paura
della
libertà" del 1946, considerato la radice e la
chiave del pensiero di Levi. Seguirono poi "Le parole
sono pietre", "L'orologio", "il
futuro ha un cuore antico",
"La lunga notte dei tigli" ed, infine "Tutto il miele è
finito" del 1964 che chiuse la sua grande esperienza letteraria, anche se rimangono ancora moltissimi
scritti non pubblicati o raccolti in nuovi volumi.
Liberato
dal confino in occasione della nascita dell'Impero
e della conquista di Addis Abeba nel 1936, nel 1939 espatriò in Francia e vi
rimase fino al 1941, anno in cui fece
ritorno in Italia. Nel 1943 fu arrestato
nuovamente, ma, subito dopo lo ritroviamo nella
Resistenza in qualità di membro del Comitato Nazionale
di Liberazione. Oltre a combattere, Levi diresse
il quotidiano del Comitato "La Nazione del Popolo".
Nel 1945 dirige "Italia libera". Successivamente divenne Senatore della Repubblica.
Aliano (MT) 12 gennaio 1986 - Visita ai luoghi del confino
La
tomba
Il monumento
IL
PANORAMA CULTURALE NEI PRIMI DECENNI DEL SECOLO
Dal
punto di vista artistico e culturale il Novecento
si apre con la crisi irreversibile del positivismo
entrato, oramai, in piena dissoluzione. Ad esso
si sostituisce in un primo momento il Decadentismo del
Pascoli e del Dannunzio che si ispira ai principi
dei gruppi di avanguardia francesi che avevano
dato origine al movimento, ma che si caratterizza
per un certo provincialismo.
In
Francia il Decadentismo era nato come espressione di
stanchezza e di superamento di forme d'arte precedenti
che tendevano ad una ricerca dei valori assoluti trascurando valori
minimi, ma non per questo importanti, anche
se esclusi dalla cultura ufficiale. Per
attirare l'attenzione i circoli bohèmiens che tali atteggiamenti
avevano iniziato a diffondere, facevano uso di sostanze stupefacenti, conducevano una vita disordinata e
si lasciavano andare ad atteggiamenti eccentrici
senza per ciò produrre risultati apprezzabili.
Ma dopo il 1882 la nuova corrente cominciò a dare frutti artisticamente validi grazie a Verlaine, a
Rimbmud. al Ma 11 arme e ad altri "poeti maledetti". In
Italia il Decadentismo si identificò con l'opera di Dannunzio, Pascoli,
Pirandello ed fu caratterizzato da una crisi i cui aspetti principali erano la
smania di libertà, un individualismo esasperato, una profonda frattura tra parola ed azione, lo spirito antiborghese,
l'avversione al sentimentalismo e la ricerca
di un linguaggio poetico nuovo.
Fiero
avversario del Decadentismo fu Benedetto Croce il
quale, pur attaccando il Positivismo, criticò, anche ferocemente,
la nuova corrente letteraria che al Positivismo
voleva sostituirsi.
Il
Decadentismo italiano, pertanto, non mancò di produrre
i suoi frutti, ma già da tempo gli
avvenimenti incalzavano e le mode
artistiche e letterarie si susseguivano
e si accavallavano. Ed ecco affacciarsi alla
ribalta il Futurismo con la sua brutalità, con il culto
della violenza, della forza, della necessità della
guerra e della rottura col passato. Un movimento che
rappresentò, forse, più la sommatoria di stati d'animo e di aspirazioni
non soddisfatte» l'ansia e l'immaturità dei
ceti piccolo borghesi e più abbienti che pensavano di difendersi dai
sovvertimenti che le nascenti lotte
operaie facevano presupporre che non un approdo
artistico e letterario cosciente e consapevole. Ciò spiega perché l'adesione al Fascismo da parte dei futuristi
fu convinta e totale e perché essi divennero
Tutto
ciò provocò la rivolta dapprima timida ed impacciata,
poi sempre più forte ed autorevole di giovani
artisti che esaltano il valore della
libertà dell'arte e della sua
indipendenza dal Potere. E' in questo
ambiente ed in questo humus culturale che si plasma la personalità artistica e letteraria di Carlo Levi, ma anche di
tanti altri giovani intellettuali italiani,
molti dei quali daranno poi origine al Neorealismo
e dai quali la cultura italiana riceverà nuova linfa.
LEVI
AD ALIANO: ALLA SCOPERTA DI UN MONDO ARCANO
Levi
giunge ad Aliano (Gagliano nel romanzo), proveniente
da Grassano scortato da "due robusti servitori
dello Stato e su di un'autovettura sgangherata"
che percorre miracolosamente le sconnesse e
polverose strade della Lucania.
Le
precedenti esperienze e limitazioni della libertà ne hanno
già fatto un uomo smaliziato e non certo ingenuo, pur non di meno quell'
accogliente paesetto (cosi gli sembra,
almeno, a prima vista), con qualche ciuffo di rassegnati, quelle donne arcane
eppur dignitose, quello strano tipo di
fascista del Podestà don Luigino
Megaione, ritrovatosi a rivestire un ruolo più
grande di lui e vittima dell'autorità delle
sorelle e dell'ipocondria, quei
medici cosi improbabili quanto avidi,
patetici nella loro ignoranza e nel loro odio nei
confronti dei contadini giustamente diffidenti, gli
fanno amare quel luogo che tanta parte avrà nel suo divenire
artistico e politico.
Scaricato
dall'automobile, consegnato alle
Autorità dopo aver esaurito le
formalità e sorbito l'immancabile predicozzo
del Podestà, maestro elementare e, perciò, "uomo
di cultura" come tiene a precisare al Levi, don Carlo,
come viene affettuosamente ribattezzato il confinato,
deve fare subito i conti con la disperazione degli
umili e con l'assenza dello Stato ( Cristo ), nonostante
la camicia nera di don Luigino e la divisa inamidata
del brigadiere dei carabinieri.
Non
si e ancora sistemato nella casa della vedova che riceve
la visita di due contadini imploranti, uno dei quali,
in un momento di autentico dolore, ma, nel contempo,
di autentica sincerità, arriva ad inginocchiarsi davanti a lui ed a
baciargli la mano in
Questa
esperienza drammatica gli
apre gli
occhi e lo spinge, seppur nei limiti
consentitigli dal suo stato di
"soggetto pericoloso per i destini fascisti" e, perciò
sottoposto ad ogni sorta di controllo e divieto, a porsi il problema di aiutare
quella povera gente e di supplire alla
latitanza di quello Stato demagogico e populista
che cercava l'impero e lasciava morire di malaria
e di inedia i suoi figli.
La decisione di curare gli
ammalati di Aliano fu, fortunatamente, favorita
e caldeggiata dallo stesso ipocondriaco Podestà
ossessionato dalla paura delle mille
malattie che si inventava e cosciente
della incapacità dei medici locali, uno dei quali era suo zio. L'esercizio
della professione medica, pur tra mille
difficoltà (spesso egli stesso doveva
comperare le medicine o doveva
sopperire in qualche modo alla penuria
di farmaci), lo avvicina sempre di più a quel mondo
di poveri, miseri, oppressi» alle
loro angosce, al le loro sofferenze, ai soprusi che sono costretti a subire
da parte di una classe borghese gretta, ignorante
e cinica; una classe borghese i cui esponenti emblematici
sono gli
stessi medici del luogo, ignoranti,
incapaci, inutili, anzi pericolosi per la salute pubblica eppure cinici, avari e
pieni di rancore nei confronti dei
contadini, il Podestà, debole, ignorante,
imbelle strumento nelle mani dei parenti, eppure borioso, arrogante e
vacuamente autoritario, il farmacista del
paese vicino che ruba sul prezzo della
Contro
questa miserabile ed arrogante umanità si staglia
la figura di don Trajella, il sacerdote del luogo,
persona coltissima, latinista insigne, uomo saggia
ed antifascista sui generis, ma abbrutito dal vino, dall'odio che i
concittadini nutrono nei suoi confronti e da
quello che egli nutre nei confronti dei concittadini e del Podestà che,
seppur ingenuo e vile, intuisce il pericolo
che il religioso potrebbe costituire
per il risveglio delle coscienze.
"Don
Cario" avverte un’immediata ed istintiva simpatia
per don Trajella, cosi come 1"avverte per quel mondo
di umili, di oppressi, per la loro cultura primitiva,
ma forte, impregnata di saggezza e di virtù, per il loro senso di
ineluttabilità della vita, per quella loro
rassegnazione amara e sublime all'oppressione
ed alla miseria. Ed e questa simpatia e la percezione della
ricchezza e della validità, della cultura
contadina che gli
impedisce di cadere nella banalizzazione
folkloristica tipica degli intellettuali per
le società e le culture primordiali. Levi mostra, prima di tutto, un
profondo rispetto per alcuni riti arcani
quali la cacciata del malocchio, la preparazione dei
filtri
d'amore e la convinzione profonda sulla loro efficacia da parte delle "streghe" che li preparano, per
le favole e le credenze sui "monachicchi", per la credenza,
da parte dei contadini, che la capra abbia origini e tendenze diaboliche, insomma, per quelle ingenue quanto
si vuole, ma profondamente radicate, credenze di quegli uomini che, comunque, li
aiutano a vivere in quel mondo di miseria e di
stenti, sopportandone con filosofia il
peso.
Egli
ascolta con attenzione e con rispetto i racconti, le favole, le superstizioni
locali, i racconti di incredibili episodi di magia, assiste ad episodi
curiosi ed insoliti (al rito del “sanaporcelle”, cioè l'evirazione dei
maiali o alla preparazione di filtri)
senza mai lasciar trasparire il minimo
dileggio per quel mondo semplice, anzi
cogliendone l'intima essenza ed il valore culturale e questo suo
accostarsi alle miserie
quotidiane, questo suo porsi dalla parte degli umili lo rende amato alla
gente fino a farlo considerare uno di loro.
E
Levi finisce cosi per essere considerato financo dal
Podestà, il benefattore, l'uomo mandato dalla Provvidenza,
pio che il confinato, il nemico pericoloso e
spregevole della Patria fascista, almeno fino a quando,
la presentazione da parte sua, in un momento di entusiasmo
e di slancio altruistico, di un piano sanitario
per combattere la malaria, non insospettisce le
Autorità provinciali preoccupate che un impegno sociale
più accentuato da parte del "nemico dello
Stato" potrebbe creare problemi
al regime.
L'ASSENZA
DELLO STATO
Per
gli
Alianesi, come per tutti i meridionali, la parola
cristiano ha il significato di "uomo". Cristiano è,
dunque, l'uomo nella sua dignità, nei suoi diritti, nella
capacita giuridica, sociale ed economica di vivere una vita da
"cristiano"; cristiano e chi non e sottoposto
al sopruso, alle
vessazioni, alla sottomissione che deriva
dalla ignoranza. Vivere da cristiano
significa, perciò, per le popolazioni meridionali,
vivere nella
libertà e nella dignità. Cristo,
insegna la religione, è venuto a liberare l'uomo
dalla schiavitù del peccato, del servaggio, dell'egoismo
e della
meschinità e, perciò, è cristiano chi
è libero.
Nella
Lucania non ci sono "cristiani"; qui Cristo non è mai giunto;
la gente è oppressa dall'ignoranza, dalla
miseria, dalla povertà. Non è arrivato Cristo, ma non vi è mai arrivato il tempo, la Storia, la Speranza, la
Coscienza. Uomini e terra non hanno mai conosciuto la
Civiltà, la Libertà, la Giustizia, la Solidarietà, il Diritto;
non s'è mai visto lo Stato e, se qualche ha fatto sentire la sua presenza, lo ha fatto per opprimere e
spremere. Ha imposto tributi, la leva obbligatoria,
le guerre, il fascismo, ma non si * mai preoccupato di lenire il dolore di chi non ha nulla se non
il fardello della propria miseria. Lo Stato è considerato
dai Lucani come una calamità naturale; "c'è la
grandine che distrugge il raccolto, la tempesta, il terremoto,
la siccità, l'alluvione e c'è pure lo Stato",
pensano i contadini. Ed è questa l'intima essenza di un meridionalismo che oggi, in tempi bui di restaurazione
e di normalizzazione viene definito "straccione",
ma intimamente condiviso dal Levi e che ha influenzato l'opera ed il pensiero,
oltre che del Levi stesso, di tanti
politici meridionali che hanno cercato
di impegnare la Stato nella soluzione degli annosi
problemi del Mezzogiorno. Purtroppo, motto spesso, la giusta aspirazione dei
meridionali al riscatto ed allo
sviluppo economico e sociale è coincisa
con la logica assistenziale e clientelare dell'intervento straordinario che, lungi dal risolvere i
problemi, ha sperperato immense risorse economi che e finanziarie
per creare nuovi squilibri.
E
così lo Stato, ancora oggi, non ha favorito le condizioni
per uno sviluppo dell'occupazione e costringe
la gente ad emigrare come agli inizi del secolo
e come nell'immediato dopoguerra ( "Imparate una lingua
ed andate all'estero" recitava una delle
pio conosciute frasi di De Gasperi ),
n* ha realizzato le infrastrutture
civili indispensabili al decollo economico
e sociale del Mezzogiorno e, pur avendo dilapidato
risorse finanziarie immense, non ha eliminato
il divario tra Nord opulento e progredito e Sud
arretrato e depresso. L'unica cosa che si è realizzata è qualche "
cattedrale nel deserto",ovvero alcuni
interventi a pioggia scoordinati e privi di una logica
supportata da un razionale progetto di sviluppo. Tale situazione ha fatto si che dilagasse l'assistenzialismo ed il clientelismo finalizzato alla
raccolta del consenso elettorale nel
mentre i grandi nodi del Mezzogiorno rimanevano irrisolti.
Oggi,
purtroppo, al danno dell'arretratezza e del degrado,
del fallimento dell'intervento straordinario si aggiunge la beffa della protesta leghista contro i meridionali
e le loro classi dirigenti colpevoli di aver
dilapidato le risorse destinate al Sud e accusate di
aver ridotto lo Stato sull'orlo della bancarotta con un
debito pubblico astronomico che rischia di far escludere l'Italia
dal contesto dei Paesi civili e a ridurla
a paese del Terzo mondo.
Certo
Levi non poteva prevedere il futuro, non poteva
immaginare che anche la nuova Italia sorta dalle ceneri
del vecchio stato liberale e del fascismo, l'Italia
nata dalia Resistenza, avrebbe lasciato il
Sud nell'atavico stato di degrado e di
arretratezza < basterebbe citare l'esempio della ferrovia ionica o della
statale 106 o qualche dato sull'occupazione, dello
sfascio della
sanità, degli ufficio pubblici e via
elencando), ma i contadini, i derelitti, gli
umili, gli oppressi,
quelli si; quelli hanno sempre intuito, nel loro animo, l'ostilità
istituzionale dello Stato e l'ineluttabilità
della sua presenza.
Questa
loro convinzione profonda e, tutto sommato, giusta, questo loro
disincanto che, da ultimo, li ha sottratti alle
lusinghe della demagogia fascista (se si fa eccezione per gli
ottusi gerarchi e per qualche sciocco loro accolito) è il frutto di una
esperienza plurisecolare di soggezione, di
ricatti, di soprusi e di angherie alle
quali le popolazioni meridionali sono state
sottoposte dai vari padroni che si sono succeduti nel dominio del Mezzogiorno.
Ogni
avvicendarsi di conquistatori nei regni meridionali
è stato presentato come una rivoluzione in nome
della giustizia, della fede, del progresso e della libertà,
salvo poi a rivelarsi puntualmente un'operazione
gattopardesca (il termine era ancora sconosciuto
ai tempi in cui Levi scrisse il "Cristo") che
lasciava tutto com’era senza risolvere alcun problema.
Lo avevano capito sulla loro pelle i contadini
alianesi. ma lo avevano sperimentato, ancor prima,
i contadini di Brente falciati dai piombo di Bixio
e, prima ancora, altri poveri cafoni meridionali. Sconfiggere
nei fatti e con i fatti questa rassegnazione
e questa assenza di fiducia e fare dei contadini, degli umili, dei
diseredati del Mezzogiorno attori convinti e
consapevoli del loro futuro di progresso
e di riscatto era la scommessa che avrebbe dovuto vincere lo Stato democratico
che sarebbe dovuto sorgere dalle
ceneri del fascismo.
A
ciò pensava Carlo Levi quando, nei limiti oggettivi
impostigli dalla sua condizione di confinato e
di nemico del regime, cercava di educare gli
Alianesi alla acquisizione consapevole dei loro diritti e della loro
dignità di uomini.
LA
POETICA
Levi,
pittore di vaglia, trasferisce nella prosa il talento
artistico di chi è abituato a cogliere, con un semplice
colpo d'occhio, gli
aspetti essenziali della realtà
scarnificandone fronzoli ed orpelli. Cosi
come nei quadri (basti pensare al "Figlio della Parrocola"
comparso sulle copertina di alcune edizioni del
libro) si limita a brevi, essenziali tratti e ad una
sobria tecnica cromatica riuscendo, tuttavia, a rendere
vivi e palpabili i soggetti, quasi a materializzarli,
anche nella prosa sa rendere tali effetti
con poche, semplici parole, con un uso parco dell'aggettivazione e senza indulgere in complicate introspezioni
anche laddove sente il bisogno di fornire
un ritratto psicologico del personaggio. E questa
sobrietà, questa capacità di mettere a nudo l'animo
umano con semplicità gli
consente, nello stesso tempo, quasi di
estraniarsi dal mondo che sta descrivendo.
Egli, infatti, mette sovente in evidenza le sue simpatie e le sue antipatie,
forse anche un pizzico di rancore nei
confronti dei suoi "carcerieri", dei gerarchi e dei loro
tirapiedi, ma lo fa in modo distaccato, con ironia ( e, a volte, anche auto
ironia) indulgendo, quasi, sui vizi,
debolezze e meschinità di amici e
nemici, tutti accomunati nel gran fiume della
Altro
personaggio curioso * il brigadiere dei carabinieri.
Sempre impomatato ed imbrillantinato, stretto
nella sua attillata divisa e preoccupato soltanto
di tenere a bada i confinati e di correre, appena
possibile, fra le braccia dell'amante, la levatrice,
è il simbolo della fatuità del potere, di una frivolezza che alligna nelle
alte sfere che don Luigino ed il
brigadiere scimmiottano e che porterà, di li
a qualche anno, il Paese nella più completa rovina. Levi
sembra percepire la drammaticità e l'epos grottesco
di tali personaggi e pur biasimandoli, tutto sommato
li assolve.
La stessa
indulgenza, anzi, in questo caso, grande simpatia mostra nei confronti di don
Trajella (anche questo un nome
modificato), il prete abbrutito dall'alcol
e dall'odio dei compaesani. Qui ci troviamo in
presenza di un uomo che ebbe, oltre che cultura, gusto
estetico, amore per il sapere, anche saggezza, un uomo
che in altri tempi, altri luoghi ed altre circostanze avrebbe potuto
senz'altro assolvere il suo ruolo di
sacerdote e di educatore con zelo, competenza, amore
e carità, ma che le alterne vicende della vita, il dovere di occuparsi della
vecchia madre, una sorta di destino ineluttabile, riportano tra le
miserie e le meschinità di quel borgo. Don
Trajella reagisce al suo destino, alle
miserie che lo circondano, all'arroganza ed alla
tracotanza di un potere ottuso e, nel contempo, inetto
e meschino nel modo peggiore, lasciandosi abbrutire
sempre più dall'alcol, dall'odio per i compaesani e
dall'inazione. In tale situazione * gioco facile per don Luigino accusarlo delle peggiori nefandezze
e scagliargli contro 1 paesani incanagliti
Levi
intuisce il dramma di quest'uomo, la sua antica virtù
e saggezza, le cause che lo hanno ridotto in una situazione
cosi penosa e prova per lui istintiva e sincera
simpatia, una simpatia che, in parte, riscatta il
povero prete, anche se non riesce a salvarlo dall'ira
di don Luigino che riuscirà alla
fine, a farlo trasferire nella frazione.
L'autore
e, quindi, indulgente con tutti e di tutti è
pronto a comprendere il dramma collettivo ed individuale,
a giustificare colpe e vizi. Prova, viceversa
rancore e repulsione solo per gli
sciacalli, per quei due suoi col leghi (anche se a volte si coglie qualche
lampo di simpatia per Milillo) ignoranti, tanto da
meritarsi da parte dei contadini il titolo di "medicaciucci",
incapaci eppure avidi, esosi, attaccati morbosamente al denaro e per questo
pieni di livore nei confronti degli
improbabili clienti. Raramente, infatti,
i contadini ricorrono alle
loro cure ritenendoli incapaci
e,quel le poche volte che lo hanno fatto,
sono stati avidamente salassati con scarsi risultati
per la salute. Nessuna pietà perciò per q
uesti figuri (specialmente per Gibilisco) che altro non
rappresentano se non una ulteriore calamità per gli
abitanti di Aliano.
Sono
queste le pochissime figure di cui non si sforza di nascondere
l'antipatia; tutte le altre, don Cosimino, il
simpatico ufficiale postale la Santarcangiolese,
le varie "streghe" alle
quali cerca di carpire i filtri, i ragazzi che gli cantano la serenata
augurale al suono dei "cupi, cupi", i tanti poveri, ma
dignitosi contadini, sono figure positive, ricche
di una loro umanità, di una loro carica di simpatia
di cui lo scrittore si impadronisce e si serve per
farle risaltare quasi plasticamente.
La Santarc angiolese
Complessivamente,
quindi, la "somma algebrica" dei vizi e
delle
virtù dei vari personaggi fa emergere un mondo ancora primordiale, ma ricco di valori, di umanità e di
Attenzione!
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2 http://s5.histats.com/stats/r.php?371533&100&59&urlr=&www.webalice.it/giuseppe.marino50/RECENSIONI/Levi/Levi.htm