Impegno letterario, civile e politico in Carlo Levi

di Giuseppe Marino

Anno 1992

    
C. Levi - Aliano

   

CENNI BIOGRAFICI

Carlo Levi, torinese, medico per studi, pittore per innata, prepotente, incontenibile vocazione, politico per amore di libertà, meridionalista e letterato per caso, è una delle figure più rappresentative della letteratura contemporanea per impegno e passione civile, per profondità di pensiero, per la lucida, precisa coscienza della realtà che descrive, per l'analisi degli arcaici mali del Mezzogiorno che ha saputo fare e che ha saputo sapientemente evidenziare.

Nacque a Torino da una agiata famiglia di origini ebree e qui trascorse ("adolescenza e la giovinezza. Insieme alla sorella si laureò in medicina, ma non ebbe mai né la voglia, né l'opportunità di esercitare la professione, se non nel periodo che trascorse, da confinato, in Aliano, uno sperduto paesino della provincia di Matera. La sua vera, autentica vocazione era e rimase sempre la pittura.

A Torino Levi ebbe l'opportunità di conoscere Piero Gobetti ed un gruppo di giovani intellettuali antifascisti di cui divenne amico e con i quali condivise, negli anni futuri, l'impegno antifascista, il confino, spesso il carcere e, con i più fortunati, l'ebbrezza della liberazione e la nascita dello Stato democratico.
       Nello stesso anno in cui consegui la laurea in medicina espose, per la prima volta, alla biennale di Venezia. In quel periodo trionfava la retorica servile dell'arte di regime il cui unico scopo era quello di osannare scioccamente le conquiste e le megalomanie del fascismo e la falsa modernità del futurismo che, nato piuttosto come un connubio non risolto di stati d'animo, di umori e di insoddisfazioni che portava i suoi aderenti a propugnare il culto della forza, della violenza, del dinamismo, aderì in toto ( anzi ne divenne forza trainante) al fascino. Carlo Levi, assieme ad altri cinque pittori di Torino, affermava, in contrasto con il futurismo, il valore dell’ espressione della libertà e dell'individualismo in tutte le manifestazioni artistiche. Ciò, oltre all'impegno politico successivo, contribuì a creargli l'inimicizia del regime che cominciò a perseguitarlo. Qualche tempo dopo, infatti, lo troviamo fra i fondatori di Giustizia e Libertà, la formazione politica cui aderirono Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini i fratelli Rosselli, il siciliano Ugo La Malfa, Giorgio Bocca e tanti altri giovani intellettuali, molti dei quali vennero inghiottiti dalla bestiale reazione fascista, dalla guerra e dalla lotta partigiana; i fratelli Nello e Carlo Rossetti morirono in Francia assassinati da sicari fascisti, Piero Gobetti, uno dei fari dell'attività antifascista, si era già spento nell'esilio di Parigi nel 1926, altri perirono combattendo sui monti contro l'occupante tedesco ed il suo servo italiano. Cominciò subito dopo il calvario degli arresti. Incarcerato ripetutamente, nel 1935 venne confinato in Lucania ove visse un'esperienza drammatica a contatto con la realtà meridionale, con la miseria e gli stenti delle popolazioni del Sud, con le loro privazioni, la loro arretratezza, con il totale disinteresse di uno Stato sempre assente o, quando presente, ostile, con l'ignoranza e la superstizione, ma con un mondo ricchissimo di umanità, di antichi valori, di calore umano, e, in molti casi, di dignità. Una realtà nella quale egli si integrò ed alla quale rimase legato per tutta la vita ed anche oltre, tanto che anche le sue spoglie oggi riposano nel minuscolo, misero cimitero di Aliano, nella nuda terra, in una sepoltura anonima e semplice il cui unico segno di riconoscimento è costituito da una semplice lapide con il solo nome e le date di nascita e di morte, quasi a voler rimarcare la sua identificazione totale con gli umili e i poveri.
           Dall'esperienza lucana nacque il suo capolavoro, quel "Cristo si è fermato ad Eboli" che oggi viene considerato un classico della letteratura italiana e che tanto successo ha avuto anche all'estero. Altra opera fondamentale del letterato piemontese è "Paura della libertà" del 1946, considerato la radice e la chiave del pensiero di Levi. Seguirono poi "Le parole sono pietre", "L'orologio", "il futuro ha un cuore antico", "La lunga notte dei tigli" ed, infine "Tutto il miele è finito" del 1964 che chiuse la sua grande esperienza letteraria, anche se rimangono ancora moltissimi scritti non pubblicati o raccolti in nuovi volumi.
            Liberato dal confino in occasione della nascita dell'Impero e della conquista di Addis Abeba nel 1936, nel 1939 espatriò in Francia e vi rimase fino al 1941, anno in cui fece ritorno in Italia. Nel 1943 fu arrestato nuovamente, ma, subito dopo lo ritroviamo nella Resistenza in qualità di membro del Comitato Nazionale di Liberazione. Oltre a combattere, Levi diresse il quotidiano del Comitato "La Nazione del Popolo". Nel 1945 dirige "Italia libera". Successivamente divenne Senatore della Repubblica.

 

Aliano (MT) 12 gennaio 1986 - Visita ai luoghi del confino

              

                                        La tomba                                                                                         Il monumento

IL PANORAMA CULTURALE NEI PRIMI DECENNI DEL SECOLO

Dal punto di vista artistico e culturale il Novecento si apre con la crisi irreversibile del positivismo entrato, oramai, in piena dissoluzione. Ad esso si sostituisce in un primo momento il Decadentismo del Pascoli e del Dannunzio che si ispira ai principi dei gruppi di avanguardia francesi che avevano dato origine al movimento, ma che si caratterizza per un certo provincialismo.

In Francia il Decadentismo era nato come espressione di stanchezza e di superamento di forme d'arte precedenti che tendevano ad una ricerca dei valori assoluti trascurando valori minimi, ma non per questo importanti, anche se esclusi dalla cultura ufficiale. Per attirare l'attenzione i circoli bohèmiens che tali atteggiamenti avevano iniziato a diffondere, facevano uso di sostanze stupefacenti, conducevano una vita disordinata e si lasciavano andare ad atteggiamenti eccentrici senza per ciò produrre risultati apprezzabili. Ma dopo il 1882 la nuova corrente cominciò a dare frutti artisticamente validi grazie a Verlaine, a Rimbmud. al Ma 11 arme e ad altri "poeti maledetti". In Italia il Decadentismo si identificò con l'opera di Dannunzio, Pascoli, Pirandello ed fu caratterizzato da una crisi i cui aspetti principali erano la smania di libertà, un individualismo esasperato, una profonda frattura tra parola ed azione, lo spirito antiborghese, l'avversione al sentimentalismo e la ricerca di un linguaggio poetico nuovo.

Fiero avversario del Decadentismo fu Benedetto Croce il quale, pur attaccando il Positivismo, criticò, anche ferocemente, la nuova corrente letteraria che al Positivismo voleva sostituirsi.
      Il Decadentismo italiano, pertanto, non mancò di produrre i suoi frutti, ma già da tempo gli avvenimenti incalzavano e le mode artistiche e letterarie si susseguivano e si accavallavano. Ed ecco affacciarsi alla ribalta il Futurismo con la sua brutalità, con il culto della violenza, della forza, della necessità della guerra e della rottura col passato. Un movimento che rappresentò, forse, più la sommatoria di stati d'animo e di aspirazioni non soddisfatte» l'ansia e l'immaturità dei ceti piccolo borghesi e più abbienti che pensavano di difendersi dai sovvertimenti che le nascenti lotte operaie facevano presupporre che non un approdo artistico e letterario cosciente e consapevole. Ciò spiega perché l'adesione al Fascismo da parte dei futuristi fu convinta e totale e perché essi divennero i più convinti propagandisti della retorica ufficiale, della falsa grandiosità delle realizzazioni fasciste e della demagogia imperante.
        Tutto ciò provocò la rivolta dapprima timida ed impacciata, poi sempre più forte ed autorevole di giovani artisti che esaltano il valore della libertà dell'arte e della sua indipendenza dal Potere. E' in questo ambiente ed in questo humus culturale che si plasma la personalità artistica e letteraria di Carlo Levi, ma anche di tanti altri giovani intellettuali italiani, molti dei quali daranno poi origine al Neorealismo e dai quali la cultura italiana riceverà nuova linfa.

LEVI AD ALIANO: ALLA SCOPERTA DI UN MONDO ARCANO

Levi giunge ad Aliano (Gagliano nel romanzo), proveniente da Grassano scortato da "due robusti servitori dello Stato e su di un'autovettura sgangherata" che percorre miracolosamente le sconnesse e polverose strade della Lucania.

Le precedenti esperienze e limitazioni della libertà ne hanno già fatto un uomo smaliziato e non certo ingenuo, pur non di meno quell' accogliente paesetto (cosi gli sembra, almeno, a prima vista), con qualche ciuffo di rassegnati, quelle donne arcane eppur dignitose, quello strano tipo di fascista del Podestà don Luigino Megaione, ritrovatosi a rivestire un ruolo più grande di lui e vittima dell'autorità delle sorelle e dell'ipocondria, quei medici cosi improbabili quanto avidi, patetici nella loro ignoranza e nel loro odio nei confronti dei contadini giustamente diffidenti, gli fanno amare quel luogo che tanta parte avrà nel suo divenire artistico e politico.
      Scaricato dall'automobile, consegnato alle Autorità dopo aver esaurito le formalità e sorbito l'immancabile predicozzo del Podestà, maestro elementare e, perciò, "uomo di cultura" come tiene a precisare al Levi, don Carlo, come viene affettuosamente ribattezzato il confinato, deve fare subito i conti con la disperazione degli umili e con l'assenza dello Stato ( Cristo ), nonostante la camicia nera di don Luigino e la divisa inamidata del brigadiere dei carabinieri.
       Non si e ancora sistemato nella casa della vedova che riceve la visita di due contadini imploranti, uno dei quali, in un momento di autentico dolore, ma, nel contempo, di autentica sincerità, arriva ad inginocchiarsi davanti a lui ed a baciargli la mano in un gesto misto di sottomissione, riconoscenza e rispetto. I due, saputo che il nuovo "est 1 iato", compera definito dal popolino il confinato, era un medico di Torino, imploravano che accorresse ai capezzale di un loro congiunto gravemente ammalato ed oramai prossimo alla morte, non osando rivolgersi ai due "medicaciucci" locali, il dottor Gibilisco ed il dottor Milillo le cui scarse nozioni mediche risalivano, oramai, a tempi lontanissimi. i contadini sono convinti che il dottore venuto da lontano, da un mondo di "cristiani", possa fare il miracolo di salvare il malcapitato oramai distrutto dalla malaria. Levi cerca di schernirsi, fa presente che non esercita la professione medica da molto tempo, non vorrebbe assolutamente, sia per motivi politici che personali, esercitare Parte, ma di fronte alla patetica insistenza, alla percezione immediata e sconvolgente dell'assenza dello Stato e della Civiltà in quella miserabile contrada, non riesce a sottrarsi al suo dovere di medico, ma anche di cittadino e si lascia convincere a tentare di salvare il malato oramai incurabile.
          Questa esperienza drammatica gli apre gli occhi e lo spinge, seppur nei limiti consentitigli dal suo stato di "soggetto pericoloso per i destini fascisti" e, perciò sottoposto ad ogni sorta di controllo e divieto, a porsi il problema di aiutare quella povera gente e di supplire alla latitanza di quello Stato demagogico e populista che cercava l'impero e lasciava morire di malaria e di inedia i suoi figli. La decisione di curare gli ammalati di Aliano fu, fortunatamente, favorita e caldeggiata dallo stesso ipocondriaco Podestà ossessionato dalla paura delle mille malattie che si inventava e cosciente della incapacità dei medici locali, uno dei quali era suo zio. L'esercizio della professione medica, pur tra mille difficoltà (spesso egli stesso doveva comperare le medicine o doveva sopperire in qualche modo alla penuria di farmaci), lo avvicina sempre di più a quel mondo di poveri, miseri, oppressi» alle loro angosce, al le loro sofferenze, ai soprusi che sono costretti a subire da parte di una classe borghese gretta, ignorante e cinica; una classe borghese i cui esponenti emblematici sono gli stessi medici del luogo, ignoranti, incapaci, inutili, anzi pericolosi per la salute pubblica eppure cinici, avari e pieni di rancore nei confronti dei contadini, il Podestà, debole, ignorante, imbelle strumento nelle mani dei parenti, eppure borioso, arrogante e vacuamente autoritario, il farmacista del paese vicino che ruba sul prezzo della medicina  che può salvare il malato ed altri signorotti del luogo.
        Contro questa miserabile ed arrogante umanità si staglia la figura di don Trajella, il sacerdote del luogo, persona coltissima, latinista insigne, uomo saggia ed antifascista sui generis, ma abbrutito dal vino, dall'odio che i concittadini nutrono nei suoi confronti e da quello che egli nutre nei confronti dei concittadini e del Podestà che, seppur ingenuo e vile, intuisce il pericolo che il religioso potrebbe costituire per il risveglio delle coscienze.

"Don Cario" avverte un’immediata ed istintiva simpatia per don Trajella, cosi come 1"avverte per quel mondo di umili, di oppressi, per la loro cultura primitiva, ma forte, impregnata di saggezza e di virtù, per il loro senso di ineluttabilità della vita, per quella loro rassegnazione amara e sublime all'oppressione ed alla miseria. Ed e questa simpatia e la percezione della ricchezza e della validità, della cultura contadina che gli impedisce di cadere nella banalizzazione folkloristica tipica degli intellettuali per le società e le culture primordiali. Levi mostra, prima di tutto, un profondo rispetto per alcuni riti arcani quali la cacciata del malocchio, la preparazione dei filtri d'amore e la convinzione profonda sulla loro efficacia da parte delle "streghe" che li preparano, per le favole e le credenze sui "monachicchi", per la credenza, da parte dei contadini, che la capra abbia origini e tendenze diaboliche, insomma, per quelle ingenue quanto si vuole, ma profondamente radicate, credenze di quegli uomini che, comunque, li aiutano a vivere in quel mondo di miseria e di stenti, sopportandone con filosofia il peso.
         Egli ascolta con attenzione e con rispetto i racconti, le favole, le superstizioni locali, i racconti di incredibili episodi di magia, assiste ad episodi curiosi ed insoliti (al rito del “sanaporcelle”, cioè l'evirazione dei maiali o alla preparazione di filtri) senza mai lasciar trasparire il minimo dileggio per quel mondo semplice, anzi cogliendone l'intima essenza ed il valore culturale e questo suo accostarsi alle miserie quotidiane, questo suo porsi dalla parte degli umili lo rende amato alla gente fino a farlo considerare uno di loro.

E Levi finisce cosi per essere considerato financo dal Podestà, il benefattore, l'uomo mandato dalla Provvidenza, pio che il confinato, il nemico pericoloso e spregevole della Patria fascista, almeno fino a quando, la presentazione da parte sua, in un momento di entusiasmo e di slancio altruistico, di un piano sanitario per combattere la malaria, non insospettisce le Autorità provinciali preoccupate che un impegno sociale più accentuato da parte del "nemico dello Stato" potrebbe creare problemi al regime.

          L'ASSENZA DELLO STATO

Per gli Alianesi, come per tutti i meridionali, la parola cristiano ha il significato di "uomo". Cristiano è, dunque, l'uomo nella sua dignità, nei suoi diritti, nella capacita giuridica, sociale ed economica di vivere una vita da "cristiano"; cristiano e chi non e sottoposto al sopruso, alle vessazioni, alla sottomissione che deriva dalla ignoranza. Vivere da cristiano significa, perciò, per le popolazioni meridionali, vivere nella libertà e nella dignità. Cristo, insegna la religione, è venuto a liberare l'uomo dalla schiavitù del peccato, del servaggio, dell'egoismo e della meschinità e, perciò, è cristiano chi è libero.
        Nella Lucania non ci sono "cristiani"; qui Cristo non è mai giunto; la gente è oppressa dall'ignoranza, dalla miseria, dalla povertà. Non è arrivato Cristo, ma non vi è mai arrivato il tempo, la Storia, la Speranza, la Coscienza. Uomini e terra non hanno mai conosciuto la Civiltà, la Libertà, la Giustizia, la Solidarietà, il Diritto; non s'è mai visto lo Stato e, se qualche ha fatto sentire la sua presenza, lo ha fatto per opprimere e spremere. Ha imposto tributi, la leva obbligatoria, le guerre, il fascismo, ma non si * mai preoccupato di lenire il dolore di chi non ha nulla se non il fardello della propria miseria. Lo Stato è considerato dai Lucani come una calamità naturale; "c'è la grandine che distrugge il raccolto, la tempesta, il terremoto, la siccità, l'alluvione e c'è pure lo Stato", pensano i contadini. Ed è questa l'intima essenza di un meridionalismo che oggi, in tempi bui di restaurazione e di normalizzazione viene definito "straccione", ma intimamente condiviso dal Levi e che ha influenzato l'opera ed il pensiero, oltre che del Levi stesso, di tanti politici meridionali che hanno cercato di impegnare la Stato nella soluzione degli annosi problemi del Mezzogiorno. Purtroppo, motto spesso, la giusta aspirazione dei meridionali al riscatto ed allo sviluppo economico e sociale è coincisa con la logica assistenziale e clientelare dell'intervento straordinario che, lungi dal risolvere i problemi, ha sperperato immense risorse economi che e finanziarie per creare nuovi squilibri.
        E così lo Stato, ancora oggi, non ha favorito le condizioni per uno sviluppo dell'occupazione e costringe la gente ad emigrare come agli inizi del secolo e come nell'immediato dopoguerra ( "Imparate una lingua ed andate all'estero" recitava una delle pio conosciute frasi di De Gasperi ), n* ha realizzato le infrastrutture civili indispensabili al decollo economico e sociale del Mezzogiorno e, pur avendo dilapidato risorse finanziarie immense, non ha eliminato il divario tra Nord opulento e progredito e Sud arretrato e depresso. L'unica cosa che si è realizzata è qualche " cattedrale nel deserto",ovvero alcuni interventi a pioggia scoordinati e privi di una logica supportata da un razionale progetto di sviluppo. Tale situazione ha fatto si che dilagasse l'assistenzialismo ed il clientelismo finalizzato alla raccolta del consenso elettorale nel mentre i grandi nodi del Mezzogiorno rimanevano irrisolti.

Oggi, purtroppo, al danno dell'arretratezza e del degrado, del fallimento dell'intervento straordinario si aggiunge la beffa della protesta leghista contro i meridionali e le loro classi dirigenti colpevoli di aver dilapidato le risorse destinate al Sud e accusate di aver ridotto lo Stato sull'orlo della bancarotta con un debito pubblico astronomico che rischia di far escludere l'Italia dal contesto dei Paesi civili e a ridurla a paese del Terzo mondo.

Certo Levi non poteva prevedere il futuro, non poteva immaginare che anche la nuova Italia sorta dalle ceneri del vecchio stato liberale e del fascismo, l'Italia nata dalia Resistenza, avrebbe lasciato il Sud nell'atavico stato di degrado e di arretratezza < basterebbe citare l'esempio della ferrovia ionica o della statale 106 o qualche dato sull'occupazione, dello sfascio della sanità, degli ufficio pubblici e via elencando), ma i contadini, i derelitti, gli umili, gli oppressi, quelli si; quelli hanno sempre intuito, nel loro animo, l'ostilità istituzionale dello Stato e l'ineluttabilità della sua presenza.
         Questa loro convinzione profonda e, tutto sommato, giusta, questo loro disincanto che, da ultimo, li ha sottratti alle lusinghe della demagogia fascista (se si fa eccezione per gli ottusi gerarchi e per qualche sciocco loro accolito) è il frutto di una esperienza plurisecolare di soggezione, di ricatti, di soprusi e di angherie alle quali le popolazioni meridionali sono state sottoposte dai vari padroni che si sono succeduti nel dominio del Mezzogiorno.

Ogni avvicendarsi di conquistatori nei regni meridionali è stato presentato come una rivoluzione in nome della giustizia, della fede, del progresso e della libertà, salvo poi a rivelarsi puntualmente un'operazione gattopardesca (il termine era ancora sconosciuto ai tempi in cui Levi scrisse il "Cristo") che lasciava tutto com’era senza risolvere alcun problema. Lo avevano capito sulla loro pelle i contadini alianesi. ma lo avevano sperimentato, ancor prima, i contadini di Brente falciati dai piombo di Bixio e, prima ancora, altri poveri cafoni meridionali. Sconfiggere nei fatti e con i fatti questa rassegnazione e questa assenza di fiducia e fare dei contadini, degli umili, dei diseredati del Mezzogiorno attori convinti e consapevoli del loro futuro di progresso e di riscatto era la scommessa che avrebbe dovuto vincere lo Stato democratico che sarebbe dovuto sorgere dalle ceneri del fascismo.

A ciò pensava Carlo Levi quando, nei limiti oggettivi impostigli dalla sua condizione di confinato e di nemico del regime, cercava di educare gli Alianesi alla acquisizione consapevole dei loro diritti e della loro dignità di uomini.

LA POETICA

Levi, pittore di vaglia, trasferisce nella prosa il talento artistico di chi è abituato a cogliere, con un semplice colpo d'occhio, gli aspetti essenziali della realtà scarnificandone fronzoli ed orpelli. Cosi come nei quadri (basti pensare al "Figlio della Parrocola" comparso sulle copertina di alcune edizioni del libro) si limita a brevi, essenziali tratti e ad una sobria tecnica cromatica riuscendo, tuttavia, a rendere vivi e palpabili i soggetti, quasi a materializzarli, anche nella prosa sa rendere tali effetti con poche, semplici parole, con un uso parco dell'aggettivazione e senza indulgere in complicate introspezioni anche laddove sente il bisogno di fornire un ritratto psicologico del personaggio. E questa sobrietà, questa capacità di mettere a nudo l'animo umano con semplicità gli consente, nello stesso tempo, quasi di estraniarsi dal mondo che sta descrivendo. Egli, infatti, mette sovente in evidenza le sue simpatie e le sue antipatie, forse anche un pizzico di rancore nei confronti dei suoi "carcerieri", dei gerarchi e dei loro tirapiedi, ma lo fa in modo distaccato, con ironia ( e, a volte, anche auto ironia) indulgendo, quasi, sui vizi, debolezze e meschinità di amici e nemici, tutti accomunati nel gran fiume della vita che scorre in tempi difficili e bui in cui Giustizia, Libertà, Amicizia, Ragione, Solidarietà sono solo parole vuote. E cosi don Luigino Megaione (il nome è leggermente modificato rispetto al vero per ovvi motivi), "il più giovane e il più fascista dei Podestà dell» Provincia di Matera", com'egli ama definirsi, nonostante rappresenti l'emblema di quel regime dittatoriale che gli ha inflitto carcere e confino, ci appare quasi simpatico* con quella sua vocetta stridula in un corpo massiccio, con le sue nevrosi, la sua ipocondria, con la malcelata soggezione all'autorità delle sorelle e, pur tuttavia, con quel perverso sottile piacere che gli deriva dal poter esercitare lui, un uomo che in altri tempi ed in altre circostanze sarebbe stato nient'altro che un inetto, un potere molto consistente. Levi lo strapazza, lo mette alla berlina, ne descrive vizi e difetti ma, nello stesso tempo, lo compatisce e non riesce ad odiarlo.

Altro personaggio curioso * il brigadiere dei carabinieri. Sempre impomatato ed imbrillantinato, stretto nella sua attillata divisa e preoccupato soltanto di tenere a bada i confinati e di correre, appena possibile, fra le braccia dell'amante, la levatrice, è il simbolo della fatuità del potere, di una frivolezza che alligna nelle alte sfere che don Luigino ed il brigadiere scimmiottano e che porterà, di li a qualche anno, il Paese nella più completa rovina. Levi sembra percepire la drammaticità e l'epos grottesco di tali personaggi e pur biasimandoli, tutto sommato li assolve.
     La stessa indulgenza, anzi, in questo caso, grande simpatia mostra nei confronti di don Trajella (anche questo un nome modificato), il prete abbrutito dall'alcol e dall'odio dei compaesani. Qui ci troviamo in presenza di un uomo che ebbe, oltre che cultura, gusto estetico, amore per il sapere, anche saggezza, un uomo che in altri tempi, altri luoghi ed altre circostanze avrebbe potuto senz'altro assolvere il suo ruolo di sacerdote e di educatore con zelo, competenza, amore e carità, ma che le alterne vicende della vita, il dovere di occuparsi della vecchia madre, una sorta di destino ineluttabile, riportano tra le miserie e le meschinità di quel borgo. Don Trajella reagisce al suo destino, alle miserie che lo circondano, all'arroganza ed alla tracotanza di un potere ottuso e, nel contempo, inetto e meschino nel modo peggiore, lasciandosi abbrutire sempre più dall'alcol, dall'odio per i compaesani e dall'inazione. In tale situazione * gioco facile per don Luigino accusarlo delle peggiori nefandezze e scagliargli contro 1 paesani incanagliti dalla loro miseria e dal 1"oppressione e che non rinunciano al sottile, vigliacco piacere di esorcizzare i loro guai infierendo su di un altro misero. povero essere (perfino i monelli lo prendono a sassate) perdippiù perseguitato dai potenti.

Levi intuisce il dramma di quest'uomo, la sua antica virtù e saggezza, le cause che lo hanno ridotto in una situazione cosi penosa e prova per lui istintiva e sincera simpatia, una simpatia che, in parte, riscatta il povero prete, anche se non riesce a salvarlo dall'ira di don Luigino che riuscirà alla fine, a farlo trasferire nella frazione.
       L'autore e, quindi, indulgente con tutti e di tutti è pronto a comprendere il dramma collettivo ed individuale, a giustificare colpe e vizi. Prova, viceversa rancore e repulsione solo per gli sciacalli, per quei due suoi col leghi (anche se a volte si coglie qualche lampo di simpatia per Milillo) ignoranti, tanto da meritarsi da parte dei contadini il titolo di "medicaciucci", incapaci eppure avidi, esosi, attaccati morbosamente al denaro e per questo pieni di livore nei confronti degli improbabili clienti. Raramente, infatti, i contadini ricorrono alle loro cure ritenendoli incapaci e,quel le poche volte che lo hanno fatto, sono stati avidamente salassati con scarsi risultati per la salute. Nessuna pietà perciò per q uesti figuri (specialmente per Gibilisco) che altro non rappresentano se non una ulteriore calamità per gli abitanti di Aliano.    Che dire, infine, di quel farmacista di un paese vicino che, approfittando di una povera donna analfabeta, si fa pagare alcune fiale il doppio di quello che costano e, siccome la donna ha i soldi contati, le da la metà delle fiale necessarie alla cura costringendo il Levi ad una impresa disperata per salvare un ammalato che, comunque, riesce a strappare alla morte.
         Sono queste le pochissime figure di cui non si sforza di nascondere l'antipatia; tutte le altre, don Cosimino, il simpatico ufficiale postale la Santarcangiolese, le varie "streghe" alle quali cerca di carpire i filtri, i ragazzi che gli cantano la serenata augurale al suono dei "cupi, cupi", i tanti poveri, ma dignitosi contadini, sono figure positive, ricche di una loro umanità, di una loro carica di simpatia di cui lo scrittore si impadronisce e si serve per farle risaltare quasi plasticamente.

La Santarc angiolese

 

Complessivamente, quindi, la "somma algebrica" dei vizi e delle virtù dei vari personaggi fa emergere un mondo ancora primordiale, ma ricco di valori, di umanità e di cultura di cui, proprio per l'estrema semplificazione delle passioni, è facile cogliere a prima vista l'autenticità, la dignità e l'onesta, ovvero, un grandissimo patrimonio da utilizzare e da spendere nel nuovo Stato democratico.


         Attenzione!

 

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2 http://s5.histats.com/stats/r.php?371533&100&59&urlr=&www.webalice.it/giuseppe.marino50/RECENSIONI/Levi/Levi.htm

 

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