I granai della Calabria

 

"Te viari fare tantu re lu granu
quantu ne 'mmarca Cutru e Curiglianu"

   
Alzi la mano chi non ha mai cantato questi due versi della Rrina caccurese, un capolavoro di canzone popolare con un testo introduttivo che si ripete sempre uguale e una serie di strofe improvvisate a seconda della composizione della famiglia che si sta omaggiando. Spesso la famiglia destinataria dell'omaggio era una famiglia contadina e allora cosa augurarle di meglio, dopo la salute, la lunga vita ( Chistà casa ha quattru spuntuni, quattrucent'anni campi lu patrune, a chista casa quattru spuntunere, quattrucent'anni campi la mugliere) se non un raccolto abbondante, addirittura tanto grano quanto ne esportavano assieme Cutro e Corigliano, i due  "granai della Calabria" che sfamavano non solo la nostra gente, ma anche qualche paese europeo e perfino l'America quando la marina mercantile delle Due Sicilie solcava il Mediterraneo e gli oceani.
   Le immense distese di grano del territorio cutrese e crotonese, quando ancora non esistevano le mietitrebbie, nei mesi estivi richiamavano mietitori da ogni parte della Calabria per cui le due cittadine si trasformavano in terra di emigrazione interna. Ciò favoriva anche la circolazione e lo scambio dei prodotti tipici tra le diverse aree della regione. Raccontava mio suocero che, finita la stagione della mietitura, quando rientrava a Badolato dopo alcune settimane di lavoro a Steccato di Cutro, portava al suo paese grandi quantità di radici di liquirizia, pianta diffusissima nel Crotonese , e formaggio, e, ovviamente, quando "emigrava" a Cutro si portava dietro prodotti tipici badolatesi che distribuiva ai compagni di lavoro.
    I lavori di mietitura, trebbiatura e conservazione del grano prima dell'avvento dei mezzi meccanici erano assai complessi e richiedevano il possesso di alcune importanti abilità e conoscenze. Tutto aveva inizio con la falciatura per opera dei mietitori che indossavano un grembiule di cuoio e infilavano le dita nella mano sinistra in cilindretti di canna (cannelli) per evitare
di tagliarsi accidentalmente le dita con la falce.  Ciascun mietitore, dopo averle tagliate,  legava in modo approssimativo tra loro quattro o cinque spighe a formare un fascetto chiamato "jermitu o abbauzu" che si lasciava alle spalle. Dietro di loro avanzavano altri lavoratori, prevalentemente donne, che raccoglievano i "jermiti e li legavano in fasci più grandi chiamati "gregne". Con più gregne, infine, si formavano i covoni. 
   A questo punto  iniziava il lavoro di trebbiatura ('a pisa) , ovvero la separazione dei chicchi di grano dalla pula e dalla paglia che si faceva nell'aia (aria) , uno spiazzo circolare con l'aiuto degli asini o dei muli, dopodiché si passava all'operazione più difficile e noiosa, anche perché richiedeva l'apporto di quel capriccioso fenomeno atmosferico chiamato vento, ovvero la vagliatura (ventuliare) cioè la separazione del grano, più pesante,  dagli altri prodotti della trebbiatura che il vento trasportava fuori dell'aia. Queste erano sommariamente le operazioni di produzione del grano fin quasi alla fine degli anni '50 nelle nostre contrade e nei secoli scorsi nei "granai della Calabria" che, come ho già detto, davano pane e pasta alla Calabria, all'Italia e ad altri paesi. Oggi la produzione del grano calabrese è ridotta a "pura testimonianza", mentre lo importiamo da altri  paesi extra europei come l'Ucraina o il Canada.
   Purtroppo nel Crotonese sono spariti anche i pastifici come quello di Proto dal quale ci rifornivamo negli ani '50 e '60 del secolo scorso, Spatolisano ed altri. L'unica cosa rimasta sono quei due versi della Rrina che ci ricordano gli anni d'oro del grano calabrese, assieme agli altri due (Te viari fare tantu re chill'ogliu quante pampine caccia lu trifogliu). E meno male, perché dopo il grano sta sparendo anche l'olio; almeno anche quest'anno dopo essere sparito l'anno scorso, pare a causa di un parassita che , ovviamente, nessuno ci aiuta a combattere per cui uno si chiede a che servano gli assessorati all'agricoltura.