Le carcare e la preparazione della calce - Quando non eravamo ancora una colonia
di  Peppino Marino

 

  


     Le numerose "carcare" i cui ruderi erano visibili fino a qualche decennio fa nei dintorni di Caccuri prima che i nuovi vandali ne cancellassero ogni traccia,  erano i "cementifici" dei secoli scorsi, piccoli, modesti opifici nei quali, con immane fatica e con sudore, si produceva l'ossido di calcio, materia prima per la produzione della calcina che veniva impiegata nella costruzione delle vecchie case in muratura in pietra che costituiscono la stragrande maggioranza delle abitazioni caccuresi e calabresi.   
   Credo sia importante fare conoscere alle nuove generazioni le antiche tecniche di produzione conosciute e praticate dai nostri nonni in un mondo nel quale la grande industria del nord e dei paesi europei non erano ancora riusciti a completare  l'opera di colonizzazione e di devastazione del  tessuto sociale, economico e produttivo
della nostra terra che aveva le tecnologie, le materie prime e le maestranze  che sapevano trasformarle per ricavarne prodotti finiti. Uno stato degno di questo nome avrebbe fatto tesoro di queste risorse e avrebbe accompagnato e favorito in processo di innovazione tecnologica o la riconversione produttiva partendo dalla risorsa umana e da quella materiale per produrre ricchezza per tutta la nazione, invece si è preferito far terra bruciata al Sud e sviluppare l'industria del  nord desertificando di uomini e attività il Mezzogiorno. Ma torniamo alla produzione della calce.
   L'ossido di calcio si otteneva scaldando ad elevate temperature la pietra calcarea (carbonato di calcio) che veniva raccolta soprattutto sulla vicina Sera Grande, una delle tre colline che cingono l'abitato. Le pietre venivano fatte rotolare a valle, raccolte ed ammucchiate nei pressi della "carcara", una costruzione in muratura solitamente a forma di parallelepipedo, ma, a volte, anche cilindrica. Nel 1920 quando iniziò l’urbanizzazione del rione Croci sul fondo donato dalla baronessa Giulia Barracco al comune di Caccuri perché lo lottizzasse a favore dei reduci combattenti della Grande guerra come chiedeva la Lega degli ex combattenti, per facilitare la raccolta e il trasporto della materia prima dalla Serra Grande in paese, il poliedrico artigiano caccurese Pietro de Mare costruì una teleferica che collegava il crinale della collina con l’ex chiesa di San Marco, poi fienile di Barracco (‘A pagliera), l’attuale villa san Marco.
   Le pietre calcaree venivano disposte all'interno della "carcara" a cerchi concentrici sempre più stretti fino a formare una specie di cupola sotto la quale venivano collocate decine di fascine di frasche (sarcìne) che venivano spesso portate sul luogo dalle donne che prima raccoglievano gli sterpi e li "'nsarcinavano", cioè ne facevano delle fascine e poi se le caricavano sulla testa avendo cura di frapporre uno straccio arrotolato e avvolto a spirale ( 'a curuna) tra la fascina e il cuoio capelluto per evitare danni alla testa. Ultimate queste operazioni si dava fuoco agli sterpi badando che il fuoco non si spegnesse e rimanesse acceso ininterrottamente per ventiquattro ore. L'immane calore che si produceva favoriva la combinazione dell'ossigeno dell'aria con il carbonato che perdeva l'anidride carbonica dando luogo all'ossido di calcio. Una volta spento il fuoco le pietre, trasformate oramai in ossido, venivano scaraventate in una buca scavata nel terreno lunga 5-6 metri, larga un po’ meno, profonda un metro, un metro e mezzo e riempita di acqua. A questo punto, quando le prime pietre finivano in acqua, si sviluppava una reazione esotermica con una produzione di calore tale che l'acqua si metteva a bollire e l'ossido di calcio si trasformava in idrossido di calcio. Quando tutta la calce era stata scaraventata nella "fossa", cioè era stata spenta (astutata), si formava una pasta  (grassello) simile al sapone fatto in casa. La calce veniva quindi coperta con uno strato di un paio di centimetri di sabbia e lasciata a riposare per qualche tempo. Quando si doveva preparare la calcina se ne prendevano con una vanga tre o quattro "palate" e  si mescolavano  con sabbia e acqua servendosi di una vanga dalla forma particolare che era chiamata "zappetta". A   questo punto  la malta era pronta per l' uso.
    Gli addetti alla preparazione della calcina venivano chiamati in dialetto “minaturi ‘e cauce.” Tra gli ultimi minaturi, prima che il cemento sostituisse definitivamente la calce, ricordiamo mio nonno, Saverio Chindamo, ‘u zummaru e Antonio Pasculli alias “U Magu, alias Togliatti, il più fedele ascoltatore di Radio Mosca.” Credo sia doveroso ricordare anche queste persone umili che contribuirono, assieme a tanto bravi muratori, falegnami e carpentieri dei quali parleremo uno di questi giorni,  a dare una casa a tanti caccuresi.
   Una curiosità: durante le operazioni di cottura del calcare  chi dirigeva il lavoro era costretto spesso a urlare ordini concitati affinché l’operazione venisse fatta a regola d’arte e il lavoro non andasse a buon fine. Da qui la curiosa abitudini di definire “carcararu” una persona che parla troppo, a raffica e grida ad alta voce.