I palmenti

    Anche i palmenti, nello  scorso secolo, erano abbastanza diffusi nella campagna caccurese dove la coltivazione della vite, seppur in misura inferiore rispetto all’ulivo, era abbastanza diffusa.

  Ruderi del palmento di Barracco

Il palmento più grande era certamente quello di proprietà del barone Barracco, proprio in mezzo al grande vigneto che, dalla località Corvi, arrivava fino a Rittusa, ma ve ne erano molti altri sparsi qua e là.

In tempi più recenti, negli anni ’40 e ’50, sempre a Rittusa, che, assieme a Pantane, era la zona più coltivata a vigneto prima della quotizzazione di Fontana, vi erano il palmento di proprietà della famiglia Catalano e quello della famiglia Marino.

  Palmento Marino

 

 Erano impianti che lavoravano tutta l’uva della zona. Poi, pian piano, molti contadini cominciarono a comprarsi il loro torchietto e a costruirsi il proprio palmento.

Anche la vita del “parmentaro” non era facile ed era molto faticosa, anche se non come quella dei “trappitari”, cioè i frantoiani.  Non essendoci ancora le moderne pigiatrici elettriche, l’uva veniva pigiata con piedi in una vasca molto grande. Il palmentaro eseguiva una specie di tarantella saltellando sull’uva fino a quando tutti i grappoli non erano completamente schiacciati. Poi il mosto e le raspe venivano lasciate a fermentare (rivotu) nella vasca per un periodo di tempo (solitamente 24 ore) per far si che il vino assumesse una colorazione scura. Trascorso questo periodo il mosto veniva prima fatto colare in un pozzo adiacente la vasca dove era stata pigiata l’uva e poi raccolto in barili di legno di 25 litri. Le raspe venivano caricate nel torchio a vite e qui spremute per farne uscire ancora del mosto che veniva aggiunto a quello già messo nei barili. Per far girare la vite del torchio si adoperava una pesante barra di ferro detta “pannula”.

 

     Interno di un palmento. Sono visibili vasca, pozzo e torchio

Infine i barili di mosto venivano caricati sull’asino o sul mulo e portati a destinazione per essere travasati nelle botti di legno collocate in cantina sul “ciollaru”.