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UN TRAGICO ANNEGAMENTO
di Peppino Marino
Da qualche anno, di fronte a fenomeni atmosferici di una certa
intensità con precipitazioni abbondanti, esondazione di fiumi e
torrenti alluvione delle città di pianura,
parliamo sempre più speso di cambiamenti climatici, bombe d'acqua,
Medicani ed altri terrificanti aggettivi dimenticandoci o ignorando che
fenomeni del genere si verificavano anche in passato, anche se una più
intelligente gestione del territorio, una minore cementificazione, la
manutenzione ordinaria di muri di sostegno, opere di consolidamento,
canali di scolo, la pulizia del greto e dell'alveo dei torrenti
riducevano notevolmente il rischi di catastrofi, danni e di perdite di
vite umani com'è successo di recente in Emilia Romagna e altre regioni
del nord e del centro, ma anche del sud. Tuttavia spaventose tragedia
dovute al maltempo non mancarono nemmeno in passato come questa
dell'autunno del 1910 nella quale perì un giovane
caccurese.
E’ una uggiosa mattinata autunnale che non siamo riusciti a
individuare con precisione. Il cielo è coperto, ma niente lascia
presagire l’apocalisse che si scatenerà nel pomeriggio.
Domenico Ardani, un ragazzo di 16 anni,
nato a Caccuri il 2
aprile del 1894 da
Vincenzo, contadino, e da Maria Teresa Cerminara, filatrice, parte
dal paese col suo asinello per recarsi a Eydo, come gli aveva comandato
il padre. Da qualche giorno sono stati “assegnati” i castagni e, una
famiglia acccurese ne ha fittati diversi, ma, non disponendo di asino,
si rivolge alla famiglia Ardani per il trasporto del prodotto.
Verso le 11 del mattino il giovane parte da Caccuri e, mezzora dopo,
raggiunge il castagneto e carica una salma di castagne. Intanto il cielo
diventa sempre più scuro, mentre nuvoloni neri come l’inchiostro si
addensano nel cielo.
Domenico sprona il somaro, anche perché i lampi
cominciano a squarciare il cielo e i tuoni, sempre più cupi, rimbombano
nell’ombrosa contrada, mentre cominciano a cadere le prime gocce di
pioggia. Quando col suo asino raggiunge la contrada Sambuco, si
aprono le cataratte del cielo. L’acqua scende giù a secchiate e il
ruscello che attraversa il Sambuco è, oramai, un torrente in piena. Il
ragazzo è terrorizzato dall’acqua e dalle folgori che colpiscono
anche qualche albero lungo la strada, ma spera di riuscire a raggiungere
Santa Filomena e, da lì, la stradina che dal Convento porta al paese.
Oramai è giunto a Conserva. Ora bisogna attraversare quell’impetuoso
torrente: si tratta di percorrere una decina di metri tagliando
trasversalmente l’acqua, poi lui e il somaro sarebbero stati al
sicuro. Terrorizzato sempre più dai fulmini che lo accecano e
dagli spaventosi tuoni, il ragazzo si lancia nell’impresa disperata,
nonostante l’asino si rifiuti ostinatamente di cacciarsi in quell’inferno.
Domenico salta in groppa alla bestia già stanca per il carico
appesantito ancor di più dall’acqua che inzuppa i sacchi di iuta e lo
sprona ferocemente colpendolo ripetutamente con un bastone e badando a
tenersi aggrappato al basto. Il povero animale, stremato dalla fatica e
dalle percosse, entra di malavoglia nel torrente, ma, evidentemente, la
stanchezza e il terreno scivoloso ne provocano una fatale caduta.
Un attimo e uomo e animale vengono travolti dalle acque limacciose e
trascinati a valle. Le due carcasse scendono tra le “rapide” da
Conserva a San Vito, precipitano nella cascata del Vallone, dove sorge
ora il mattatoio e vengono trascinate lungo il Cucinaro e passano sotto
il ponte della Parte finendo chissà dove. Asino e ragazzo non
saranno mai ritrovati, nonostante le disperate ricerche di parenti
e amici. Qualche giorno dopo, in località Cucinaro, qualche decina di
metri a monte del ponte della Parte, vennero ritrovati alcuni lembi
della camicia del giovane, segno inequivocabile della tragedia.
Alcune donne del luogo, qualche tempo dopo, assicurarono di essersi
imbattute, all’improvviso, nel luogo del ritrovamento dei brandelli di
stoffa, nel giovane e nel suo asinello che scomparvero, repentinamente,
non appena le stesse si resero conto che si trattava del ragazzo
annegato.
Abbiamo cercato a lungo e inutilmente l’atto di
morte del ragazzo o, quantomeno, una dichiarazione di morte presunta.
Probabilmente questo tipo di sentenza non fu mai pronunciata per cui è
risultato impossibile stabilire il giorno esatto di una morte così
tragica.
Il crollo
di casa Rugiero
Caccuri,
12 marzo 1943
Venerdì 12 marzo del
1943 Caccuri fu teatro di una delle più spaventose tragedie della sua
storia. Da quasi cinque giorni una pioggia tambureggiante cadeva sul
paese e sui dintorni e la popolazione se ne stava rintanata nelle
povere case del centro storico. I ruscelli a nord e a sud del paese si
erano trasformati in impetuosi torrenti che trascinavano a valle ogni
cosa. La cittadina, arroccata sulla rupe, sembrava essere al sicuro
dalla furia degli elementi, anche se quel tempaccio metteva
oggettivamente paura. Il
boato dei tuoni si confondeva con lo scoppio di qualche lontana bomba
che Inglesi e Americani, nonostante le avverse condizioni atmosferiche,
sganciavano nella zona nel tentativo
di colpire gli impianti idroelettrici di Calusia e Timpagrande o i
presidi militari, in preparazione dello sbarco in Sicilia che sarebbe
avvenuto da lì a qualche mese e con i tiri della contraerea che da Casa
Pasquale e dalla Sila cercava, inutilmente, di respingere gli attacchi.
Le famiglia Rugiero era
riunita nella casa di via Murorotto, proprio a ridosso dell’Arco, una
casina col piano terra ed un piano sopraelevato,
con un’unica stanza per piano. Fuori diluviava, e
l’abitazione era rischiarata dalla tenue fiammella di una lampada a
olio. Erano da poco passate le otto di sera. Consumata una cena che, per le
ristrettezze dei tempi, non
poteva che essere frugale, la famiglie di Michele Rugiero, pensionato di
72 anni e del figlio Giovanni, si apprestavano ad andare a letto ed
alcuni membri si erano già sistemati nei loro poveri giacigli. Assieme a loro
c’era anche la figlia, Maria Rosa, sposata
con un crotonese e rifugiatasi a Caccuri per sfuggire ai bombardamenti
che martellavano Crotone.
Giovanni Rugiero, la
moglie Maria Bruno, i figli Michele (il futuro avvocato e pretore di
Savelli), Rosina, Filippo e Emilia Immacolata, si sistemarono al primo
piano, mentre il padre Michele, la madre Maria Greca Zinga, originaria
di Isola Capo Rizzato, la figlia Maria Rosa e la nipote Antonia Salerno,
si apprestavano a sistemarsi nei loro giacigli posti al piano terra.
All’improvviso, alle 20,40, si udì un sordo boato, più
forte dei tuoni, più agghiacciante delle bombe, mentre una parete della
casa, in comune con un’abitazione adiacente, cedette di schianto ed il
pavimento del primo piano di casa crollò seppellendo gli occupanti
del piano terra sotto una montagna di
detriti e provocando la
morte istantanea di quattro persone.
I
vicini, accorsi sul luogo nonostante le proibitive condizioni del tempo,
si resero immediatamente conto della gravità dell’accaduto e diedero
l’allarme. Qualcuno tentò disperatamente di mettersi a scavare a mani
nude in quell’ammasso di travi, di tegole, di fango, nel buio fitto,
mentre qualcun altro corse a dare l’allarme.
Sul posto, accorsero prontamente molti dei
120 soldati del presidio militare alloggiato nel castello di
Barracco, che, al comando del tenente Gaetano Pulzone, si misero
immediatamente al lavoro scavando fra le macerie.
I militari lavorarono alacremente sotto la pioggia battente e,
dopo qualche tempo, cominciò la triste conta dei morti che risultarono
poi essere cinque.
La prima ad essere
estratta, Emilia
Immacolata Rugiero, di
due anni, figlia di
Giovanni Antonio e di Maria Giuseppa Bruno. Pare che la bimba, sfuggita
in un primo momento alla morte, perse la vita cadendo dalle braccia
della madre svenuta a seguito delle ferite provocate dai detriti che
l’avevano colpita.
Fu
poi la volta di Maria
Rugiero di anni 45,
zia della bambina, del padre di quest’ultima, Michele,
della moglie, Maria
Greca Zinga, di 66 anni e
di Antonia Grazia
Salerno, una
ragazza di 16 anni, nipote di Michele Rugiero, figlia della
figlia Maria Saveria e di Vito Cesare Salerno. Alcune salme, appena recuperate
furono, in un primo momento deposte nella casa di quest’ultimo, mentre
il corpicino della piccola Emilia Immacolata veniva trasportato nella
casa della zia materna, Filomena, in via Misericordia.
Subito dopo iniziava il mesto pellegrinaggio di una popolazione
affranta e, nel contempo, terrorizzata
dall’accaduto. Nessuno in paese ricordava una sciagura così
spaventosa paragonabile solo
a quelle provocate dai terremoti del 1638 e del 1783.
Qualche giorno dopo il
paese partecipò commosso ai funerali delle cinque vittime, nella Chiesa di
Santa Maria delle Grazie. Il mesto corteo era aperto dalla bara della
piccola Emilia Immacolata e chiuso da quella del patriarca, Michele. A
dare l’addio alle povere vittime c’erano anche i soccorritori, quei
soldati e il loro comandante che avevano scavato alacremente in quell’ammasso
di detriti nel vano tentativo di strappare alla morte quelle sventurate
creature.
Giuseppe Marino
Ringrazio l'Avv. Prof. Michele
Rugiero per avermi fornito alcune preziose notizie.
Una
tragedia, fortunatamente solo sfiorata
In una notte d’inverno del 1940, Giuseppe
De Carlo e la moglie, Margherita Allevato,
dormono, in una “casella” sulle pendici della Serra Grande presa in
fitto dal signor Pisano. Nella stessa abitazione, una sola stanza di
pochi metri quadrati, dorme anche una loro figlioletta. A qualche
metro dall’uscio, davanti la casupola, c’è una porcile nel quale la
famiglia alleva un maiale che, da lì a qualche giorno, sarà ucciso per
ricavarne salsicce, prosciutti, soppressate, strutto, insomma tutto ciò
di cui la famigliola ha bisogno. Fuori piove a dirotto e il vento
mugola rabbioso.
All’improvviso
i coniugi vengono svegliati da uno spaventoso rumore, una specie di
tuono prolungato, mentre il letto comincia a tremare come per un forte
terremoto. Sono attimi di terrore, poi, si ode un qualcosa che fa
pensare ad forte esplosione: All’improvviso un enorme oggetto
sfonda il tetto piomba in casa sfiorando il letto matrimoniale e
sfondando la parete anteriore, prima di proseguire la sua folle corsa.
Contemporaneamente un torrente di acqua penetra nel tugurio inzuppando
ogni cosa. I due, terrorizzati, prendono in braccio la figlioletta e si
precipitano fuori invocando un aiuto che in quel momento nessuno può
dare loro, poi si avviano verso il vicino rione Parte dove bussano alla
porta di una casa e si fanno ospitare.
Al
mattino molti curiosi, assieme ai carabinieri e alle guardie
municipali si recano sul luogo per rendersi conto dell’accaduto. Ai
loro occhi si presenta una scena apocalittica. Il tetto della casetta è
quasi completamente sfondato, così come la parete anteriore. Il
porcile è distrutto e il povero maiale è stato ridotto in poltiglia da
un enorme masso che si è staccato dal costone roccioso sovrastante e
che, solo per un miracolo, non ha investito le tre persone all’interno
della casa, pur avendole sfiorate.
Quel
maledetto fulmine
Alle 4 del mattino di quel venerdì 12 luglio del 1912 in Sila
l'aria era abbastanza fresca, nonostante si fosse oramai in estate
inoltrata. Salvatore Gigliotti, contadino caccurese di 39 anni, si
sarebbe avviato, da lì a poco, in groppa
all'asinello, dall'altopiano silano alla volta di Caccuri. Mentre sellava
l'asino, la
capra, che lo avrebbe accompagnato nel lungo viaggio
verso il paese di residenza, ne approfittava, per brucare,
pur nell'oscurità, sterpi e rovi. Dopo lunghi giorni di permanenza in Sila, dove
era accordato come pastore, tornava per qualche giorno a Caccuri per assistere
al battesimo del suo ultimo figlio, nato quattro giorni prima. La gioia di rivedere la sua
famiglia, la moglie Maria, i tre figlioletti, ma soprattutto l'ultimo che
non aveva ancora visto, gli facevano accelerare i
preparativi della partenza. Non era stato facile convincere il
"caporale" ad accordargli il permesso di assentarsi per qualche
giorno, ma, dopo tante suppliche, c'era finalmente riuscito. Ora
davvero non vedeva l'ora di mettersi in viaggio. Verso le 4,30 Salvatore, incitato l'asino,
si avviò verso San Giovanni in Fiore. Lasciatasi alle spalle la
cittadina silana, attraverso l'Olivaro, si enerpicò per l'erta di
Gimmella. Spesso doveva fermarsi per incitare la capra che preferiva
brucare tutto ciò che le capitava a tiro e anche per riposarsi e far
riposare l'asino che approfittava delle soste per abbeverarsi nei ruscelli
che incontravano lungo il cammino. Verso le 11,30 raggiunse il passo di
Gimmella dove consumò un pasto frugale a base di pane e formaggio, prima
di ripartire alla volta del paese.
Per strada
fantasticava su come lo avrebbero accolto in famiglia, su cosa gli
avrebbero detto i figlioletti, Fortunato e Pietro, sulla festa di
battesimo che si sarebbe celebrata l'indomani. L'asino ora sentiva la fatica
del viaggio e il caldo
infernale che gli tagliava le gambe e anche la capra evitava di saltellare
di qua e di là, limitandosi a brucare, con poca convinzione, i cespugli
lungo i margini del sentiero. Quando l'uomo e gli animali iniziarono la discesa verso le Canalette, il cielo cominciò a
coprirsi di minacciosi nuvoloni. Si preparava il classico temporale
estivo e Salvatore, che aveva esperienza di queste cose, cominciò a
preoccuparsi. Sapeva che in quei frangenti il cielo era capace di
scaricare torrenti d'acqua sulla terra riarsa e che una torrida giornata
estiva poteva trasformarsi in una sorta di diluvio universale. Già
cominciavano a saettare i primi fulmini e il rombo dei tuoni incuteva
terrore. Allora saltò in groppa all'asino che nella lunga
discesa aveva ripreso un po' di fiato e cercò di accelerare l'andatura.
Cominciavano già a cadere le prime gocce e il terreno mandava un odore
acre, quasi irrespirabile, mentre i fulmini saettavano sempre più
frequenti e sempre più vicini. Ora il cielo aveva il colore
dell'inchiostro accentuando il bagliore dei lampi che lo squarciavano
paurosamente.
Alle ore 13,10 Salvatore giunse in località Parpusa, proprio nel punto dove ora si
incrociano la provinciale Caccuri - Acquafredda - San Giovanni in Fiore e
la strada che porta a Ombraleone - Eydo per scendere poi fino a San
Vito e, quindi, ai Croci e, quando già aveva imboccato quest'ultimo sentiero, si vide una
grande fiammata salire dal terreno verso il cielo, mentre un lampo spaventoso
investi l'uomo e l'asino fulminandoli all'istante. La capretta,
attardatasi e rimasta un po' più indietro, fu l'unico superstite di questa dolorosa
tragedia. La furia degli elementi durò, come quasi sempre in queste
occasioni, per una ventina di minuti circa, poi si placò e tornò a
splendere il sole. Un pastore, che aveva il gregge lì vicino e che
aveva trovato rifugio in un pagliaio a qualche centinaio di metri, fu il
primo a rendersi conto dell'accaduto e corse a dare l'allarme a Caccuri
gettando nel più profondo dolore la famiglia dello sventurato
contadino. Di colpo la tragedia più crudele investì una famiglia
che solo qualche giorno prima, aveva conosciuto l'immensa gioia
della nascita di una nuova vita e che ora subiva l'orrore di una morte
atroce e crudele. Esattamente un'ora dopo, alle ore 14,10, l'ostetrica
Maria Teresa Quintieri, si recò in Comune a dichiarare la nascita del
bambino al quale, quasi a voler esorcizzare la morte, venne dato il nome del defunto padre che non avrebbe mai
conosciuto, mentre, contemporaneamente, veniva registrato l'atto di morte
dello sfortunato pastore che non aveva ancora conosciuto il suo terzo
figliolo. Ancora una volta, la vita e la morte avevano crudelmente
duellato nella lunga vicenda di una sventurata Umanità da sempre
sottoposta agli odiosi capricci di queste due misteriose entità.
Parpusa - Il teatro
della tragedia. Il punto rosso indica dov'era collocata, fino a qualche
anno fa, una minuscola croce di ferro a ricordo della tragedia.
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