CI PRECEDETTERO A CACCURI

 

   In questa pagina troverete brevi biografie di persone che vissero a Caccuri prima di noi e lasciarono, in qualche misura la loro impronta nella vita sociale, economica, politica, culturale della cittadina, chi più marcata, chi meno marcata, ma contribuendo in ogni modo alla formazione del nostro patrimonio culturale: A tutti loro un grazie di cuore e un saluto deferente. 

                   

MARIA CATALANO, UNA GRANDE DONNA

    Tra le persone che ci precedettero nel nostro paese e che ricordo con stima e affetto merita un posto speciale la cara Maria Catalano (Maria 'a 'gnazia) che ci lasciò nel lontano 1984. Difficile incontrare una persona più buona, mite, umile, sorridente, discreta, rispettosa dei suoi compaesani che avevano più o meno la sua età, ma anche dei giovani e dei ragazzo. Colpiva la dolcezza con la quale si rapportava con gli altri, quel suo fare materno che mi affascinava. 
   Maria lavorò per molti anni come domestica in casa del dottor Vincenzo De Franco, medico, farmacista e segretario comunale e crebbe insieme alle figlie del luminare caccurese e con i signori De Franco rimase anche dopo la pensione come una di famiglia che tale la consideravano. Coltivava una bellissima amicizia con mia nonna e con mia madre cementata dall'affetto e dalla solidarietà. Quando si spense all'età di 91 anni lasciò in tutti un vuoto incolmabile e una struggente malinconia. Averla conosciuta e stimata ampiamente ricambiato è una delle mie grandi fortune. 

 

GIOVANNI MILITERNO MI insegnò a comiziare

 

    Il compianto amico Giovanni Militerno, che si spense il 10 febbraio del 2007 nel Policlinico S. Matteo di Pavia  e che, a distanza di più di 60 anni ricordo con grande affetto e deferenza, porta, assieme ad altri, la responsabilità e il grande merito di aver condizionato per sempre la mia vita facendomi diventare un comunista incallito. Fu lui, infatti, all’età di cinque anni, a spingermi a comiziare scimmiottando gli oratori che ascoltavo in piazza quando i miei mi portavano ai comizi scialandosela un mondo.
   Nei primi anni ’50, quando erano in corso i lavori per la costruzione della strada Caccuri – Santa Rania, alla quale mio padre lavorava come falegname e carpentiere in una baracca a Zifarelli, di fronte la mia attuale proprietà, che ospitava anche la direzione del cantiere, Giovanni era addetto alle mansioni di acquaiolo aveva cioè il compito di rifornire il cantiere di acqua potabile per dissetare gli operai e per le esigenze della cucina dello stesso cantiere. Per adempiere a questo compito faceva la spola con un asinello carico di 4 barili da 25 litri tra Zifarelli e la fontana pubblica di via Vittorio Veneto, a 20 metri da casa mia. Uno dei viaggi lo faceva verso le 11 per arrivare al locale con l’acqua fresca verso mezzogiorno, quando gli operai lasciavano il lavoro per la pausa pranzo.
   Giovanni conosceva la povertà della mia famiglia e i magri pasti che riuscivamo a mettere a tavola per cui, d’accordo con mio padre e mia madre, mi chiamava, mi metteva in groppa al somarello e mi portava a Zifarelli dove mio padre mi cedeva quasi tutta la sua razione di rancio contenuta in una vecchia gavetta militare che mio zio Vincenzo Chindamo era riuscito a portarsi a casa dal campo di prigionia tedesco dov’era stato internato.  Per strada, Giovanni, al quale ero evidentemente simpatico, mi incitava a comiziare e quando mi vedeva titubante mi suggeriva la battuta iniziale di qualche comizio che avevo ascoltato la sera prima e che ricordavo a memoria scialandosela un mondo. Una che ricordo ancora oggi era una risposta a una affermazione di don Peppino Pitaro che magnificando i tempi opulenti che ci aveva regalato De Gasperi, disse in un comizio: “Oggi nelle nostre case c’è pane e companatico” al che io avrei risposto: “Nella tua forse, non nella mia.” Insomma il caro Giovanni cominciò “a corrompermi.” Se oggi sono ancora comunista, il merito è anche della fame, del rancio del cantiere OVS e di Giovanni che mi voleva un bene dell’anima.
   Grazie, Giovanni, grazie per avermi fatto sfamare e per avermi fatto venire fame di “comunismo.” 



                          
PEPPE MARASCO, IL COMPAGNO BURLONE CHE COSTRUIVA MONGOLFIERE 

      Peppe Marasco non era un caccurese nel senso che non era nato a Caccuri; vi si era stabilito definitivamente, lui commerciante ambulante che girava per i vari paesi della Calabria, dopo aver sposato una donna del luogo, ma fu uno degli "immigrati" che meglio si inserirono nell'ambiente caccurese al punto che nessuno mai ebbe a consideralo un forestiero. In realtà era originario di Rogliano. 
   Di natura burlone e gaudente, è uno dei tre personaggi celebrati nella famosa canzone " 'A Caccurisella"  (C'è Marasco, Manfreda e Pasculli, tre amici e ri Pittigrilli)  che ogni vero caccurese conosce. Peppe era celebre per gli scherzi che sapeva inventarsi e che facevano ridere tutto il paese. Scherzi e facezie toccavano il culmine nel periodo di Carnevale e il martedì, " 'U jornu 'e l'Azata", indossati i panni di Quaresima, l'afflitta vedova del "filosofo epicureo", si strappava faccia e capelli per il dolore facendo sbellicare dalle risa coloro che seguivano il mesto, gioioso corteo. Una volta, lui, povero ambulante con una piccola Ape cabinata e che certamente non nuotava nell'oro, forse per far dispetto ai vecchi borghesi avversari politici caduti in disgrazia anche economicamente che stazionavano in piazza, si mise a magnificare i tempi (metà anni '50) che consentivano alle persone intelligenti di arricchirsi facilmente tanto che lui oramai i soldi non li contava più, ma li pesava essendo riuscito a stabilire con precisione il numero di biglietti da mille corrispondenti ad un chilogrammo di peso. Lo scherzo gli procurò una serie di guai quando una lettera anonima denunciò la cosa alla tributaria che volle accertare come mai, uno che aveva tanti soldi da pesarli, non pagasse una sola lira di tasse.
    Quando Peppe, nel 1957 comperò uno dei primi televisori apparsi a Caccuri si divertiva ad angariare  i fanciulli che stazionavano a frotta davanti la sua porta per guardare la TV dei ragazzi, le avventure di Rin Tin Tin o di Ivanhoe. Per farci entrare pretendeva che ci dichiarassimo "figli di buona donna" e, quando un ragazzino, alla fatidica domanda: "Tu ce si' figliu 'e puttana?", per pudore o per non offendere la propria madre, se ne stava titubante senza rispondere, lo teneva sulla corda per un po' prima di prorompere in una fragorosa risata e farlo finalmente entrare in casa, assieme ad altri 50 - 60 monelli, a guardarsi il tanto agognato programma.  
      La specialità di Peppe era la costruzione dei palloni ad aria calda che una volta all'anno, il 19 marzo, nel giorno del suo onomastico, faceva innalzare nel cielo caccurese. Ma ogni cinque anni Peppe di palloni ne lanciava due: uno il 19 marzo, l'altro il giorno dello scrutinio dopo le elezioni comunali o nazionali quando a Caccuri a vincere erano la lista della "Tromba" o i comunisti. Allora un gigantesco pallone rosso con la "Tromba" e "la falce e martello"  dal Campo dei signori Ambrosio in via Trento si librava nel cielo caccurese per la gioia dei fanciulli che assistevano al "rito sacerdotale" dell'accensione di un grosso batuffolo di pezza imbevuto di petrolio collocato alla base del pallone, al riempimento dello stesso con l'aria calda prodotta dalla combustione e alla partenza della "mongolfiera".  Forse anche per questo, noi fanciulli ci auguravano la vittoria dei comunisti, cosa che si avverò sempre fino al 1970 quando già Peppe si era trasferito definitivamente in quel di Como dove si spense qualche anno dopo. 

 

                                                  TERIGI MELE UOMO UMILE E GENEROSO

     Terigi Mele fu anch'egli una di quelle persone umili, sincere, ricche di umanità e di saggezza che ho avuto la fortuna di conoscere e di godere della loro amicizia fraterna. Era un compagno comunista, ma prima di questo era un uomo onesto, grande lavoratore, leale, generoso, solidale. Ho avuto frequenti rapporti con quest'uomo poco istruito come molti uomini e donne che ebbero la sfortuna di nascere nei primi decenni del XX secolo, durante la becera dittatura fascista, nel Mezzogiorno, ma anche in aree più fortunate della Penisola, ma in possesso di una vasta e solida cultura che aveva acquisito vivendo e operando nel mondo agro pastorale che tanti dottoroni si sognano. Ma tra le doti più belle di Terigi vi erano la generosità e l'amore per il prossimo. Era sempre pronto a dare una mano a chi ne avesse bisogno e a dividere con gli altri quel po' che aveva.
   Quando mia padre e mia madre emigrarono insieme in Svizzera nella stazione di Crotone, in una buia e fredda serata autunnale incontrarono Terigi che emigrava anch'egli in Piemonte. Per lui e per mio padre si trattava di una ripartenza, ma per mia madre era la prima volta e quando ci salutammo e io ripresi la strada per Caccuri con l'autonoleggiatore che ci aveva accompagnato a Crotone scoppiò in un pianto dirotto. Saliti sul treno, come poi mi raccontarono i miei, Terigi fece di tutto per consolarla e quando il treno si lasciò alle spalle la stazione di Cutro cominciò ad aprire borse e buste e imbandì una cena da fare impallidire quella di Trimalcione con le provviste che si era portato dietro. La vista di tutto quel ben di dio contribuì ad alleviare il dolore di mia madre e rendere un po' meno amaro il distacco dall'unico figlio e dal paese che si lasciava alle spalle per una terra straniera nella quale l'aspettavano molte incognite. 
   Terigi, come tutti quelli che bazzicarono il mondo pastorale aveva una grande abilità nel fabbricare oggetti e utensili di uso comune come gammelli (arnese per appendere il maiale per squartarlo), mestoli e cucchiai di legno, fischietti, cesti e panieri. Di alcuni di questi oggetti mi fece generosamente dono com'era nella sua natura. Ci lasciò in un giorno di febbraio del 2012 all'età di 83 anni, ma il suo ricordo rimarrà per me imperituro. 

 

                                      GIGINO BASILE il maestro delle armacere      



    Un altro piccolo, grande uomo che ho avuto la fortuna di conoscere e apprezzare per le sue doti  umane e per la sua grande professionalità fu Luigi Basile, alias Giginu 'u Zabarbaru.  Questo curioso soprannome esteso a quasi tutti i Basile di Caccuri, ha origine da una signora Barbara che era una loro  antenata. Nel nostro paese, come in tanti altri paesi del Sud, in segno di rispetto, ci si è sempre rivolti agli anziani chiamandoli zio o zia, un dialetto "zu o za" per cui l'anziana signora Barbara diventava "za Barbara" e i figli o i nipoti i figli o i nipoti " 'e za Barbara." 
   Ma tornando a Gigino era un uomo di grande ingegno, un abile costruttore in pietra a secco. La sua perizia emergeva in modo lampante nella costruzione dei muri di sostegno per i terrazzamenti o di recinzione chiamati in alcune zone della Calabria "armacera", ma anche di casette rifugio o ricoveri per gli attrezzi sparsì nelle nostre campagne e che ancora oggi sfidano il tempo e le intemperie. In molte zone, nelle quali generalmente si coltivava l'ulivo, abbondava la pietra, ma non c'era acqua per cui risultava impossibile preparare la calcina per costruire muri o casette allora si optava per la pietra a secco e ci si rivolgeva a mastro Gigino che realizzava opere perfette, indistruttibili e bellissime a vedersi. Ancora oggi girando per la campagna ci si può imbattere in questi capolavori del "maestro" caccurese. Oltre a lavorare per terzi, faceva anche il contadino e curava i propri fondi. Fra l'altro ebbe per molti anni in fitto anche il fondo di Zifarelli che poi nel 1979 divenne di mia proprietà, come mi raccontava il figlio, il mio carissimo amico Giovanni Basile, il capomastro che costruì la mia casa.
  Gigino era un uomo mite, riservato, umile e buono con uno sguardo dolce, ma penetrante. Negli ultimi anni era diventato un fedele delle Assemblee di Dio In Italia e veniva tutte le sere a casa mia per cercare di convertire nonno Saverio. Una persona veramente amabile. 

 

                                              Domenico Demme e Pietro Salerno 

    Continuando nella carrellata su uomini e donne che ci hanno preceduto in questo paese e ci hanno lasciato, assieme al testimone,  un vasto patrimonio culturale, aneddoti, aforismi, proverbi, tradizioni, conoscenze, abilità, ma anche esempi di solidarietà, affetti, voglio ricordarne altri due che cito in un verso di una mia vecchia poesia: Domenico Demme e Pietro Salerno, l'uomo a destra nella seconda foto.
   Domenico Demme era un contadino, un vecchio comunista che fu per molti anni consigliere comunale nelle amministrazioni Sperlì.  Abitava al Vincolato (Vico II Buonasera) dirimpetto alla casa di nonno Peppino Marino al quale era legato da grande amicizia. Si può dire che lo conobbi all'età di 4 anni quando cominciai a frequentare la casa dei nonni. Quando la sera andavamo a trovare i nonni, zu Domenico tornava a casa con l'asinello che chiudeva in una stalla a pochi metri dall'uscio di casa sua. Se zio Gennarino o zio Michele uccidevano il maiale Demme era sempre lì ad aiutare a pelarlo, mentre zio Gennarino faceva la spola tra " ' a quarara e la mailla" a trasportare l'acqua bollente con una pentola col manico lungo. La sera si festeggiava con una grande tavolata alla quale erano invitati i parenti e gli amici che avevano aiutato a uccidere e pelare l'animale e, ovviamente zu Domenico. Era allora che mi avvicinavo  alle sue spalle e osservavo la sua "pelata" che mi incuriosiva.   Da grande, quando diventai dirigente della Sezione PCI i nostri rapporti si intensificarono e crebbe l'affetto e la stima di quest'uomo anziano e arguto nei miei confronti. Di lui ricordo spassosi aneddoti e alcune fulminanti battute.
  Anche di zu Petru 'u pisciu ho dei bellissimi ricordi. Anche lui comunista di fede incrollabile e di poche parole. Era un uomo che preferiva parlare poco e ascoltare molto, ma quando apriva bocca le sue erano sempre parole sagge. Era un uomo mite e tranquillo, riservato, ma affettuoso. 

 

                                         CHE FORTUNA AVERLE CONOSCIUTE

    Credo che questa foto sia la più bella o almeno una delle più belle, che mi è capitato di scattare da quando mio padre mi portò dalla Svizzera un'Agfa Isola con la quale iniziai a coltivare, ma senza eccessiva applicazione o noiosi studi,  un hobby che ancora pratico saltuariamente. La reputo bella per le persone fotografate, i loro vestiti, i loro atteggiamenti, le attività quotidiane nelle quali erano impegnate anche mentre chiacchieravano sedute a crocchio nella ruga, il passato e il futuro rappresentato dalle diverse generazioni, il rispetto e l'affetto che si aveva a quei tempi per gli anziani testimoniato dal tenero abbraccio di nonno Saverio al piccolo Salvatore Falbo e dalla mano della sorella Teresina sulla spalla di nonno che la bimba amava come se fosse suo nonno, ma anche dal compianto Benito Tarantino alle spalle dei miei genitori.  Da non sottovalutare il valore documentale dello scatto che ci mostra za Filomena Bruno, 'a Vituzza, la donna in piedi a sinistra, e Marietta Lucente intente a dipanare una matassa, Maria Merandi, moglie del carabiniere Gaetano Tarantino che abitava con la famiglia di fronte casa mia, che lavora a maglia, mia madre che "annetta" (pulisce) un plateau di cicorie selvatiche. 
   Za Filomena Bruno era un donna sempre attiva, una specie di sergente in gonnella sempre pronta a suggerirti il da fare, a stimolarti, a farti girare come una trottola, ma di una bontà e di una generosità proverbiale, sempre pronta ad aiutare il prossimo in difficoltà. Altrettanto generosa era Marietta Lucente. Ogni giorno si recava in campagna dove raccoglieva di tutto, frutta, ortaggi, funghi, ma, pur avendo una famiglia numerosa da mantenere, non esitava a dividere il frutto del suo lavoro coni i rughitani in un periodo nel quale non era davvero facile sbarcare il lunario. Qualcuno prima di parlare a sproposito di carità, solidarietà, benefattori etc. dovrebbe farsi raccontare qualcosa di quei tempo e di quella gente. Maria Merandi, alla quale mando un caloroso e affettuoso saluto, era una delle più grandi amiche di mia madre alla quale era legata da affetto e stima, una persona davvero squisita. Infine due parole anche per la mia cara amica Teresa Falbo, dirimpettaia, praticamente una mia sorellina minore che ho visto nascere e crescere, finché anche lei, come tantissimi ragazzi e ragazze caccuresi non ha fatto la valigia por trasferirsi al nord, una ragazza splendida, solare che si mantiene ancora tale.  Che fortuna ho avuto a conoscerle e a fare un pezzo importante di strada insieme a queste stupende persone! 

 

                     GABRIELE PERRI, UN ESEMPIO DI ONESTà E DIGNITà


    Gabriele Perri è un'altra di quelle persone speciali che ho avuto la fortuna di incrociare nella mia vita e alle quali devo tanto in termini di formazione culturale e umana una di quelle persone umili, sagge, perbene dalle quali hai sempre tanto da imparare.
    Nato negli anni 20 del secolo scorso, allo scoppio della guerra fu chiamato alle armi e mandato a combattere nella Jugoslavia dove probabilmente assistette agli orrori dell'aggressione fascista e della guerra che contribuirono a farne un comunista convinto e leale. Finché visse ebbe la tessera del PCI e a volte ci concedeva l'uso del poggiolo di casa sua in via Misericordia per i nostri comizi. Fu dai gradini di casa sua che io e il professore Mario Sperlì tenemmo il comizio per festeggiare la vittoria del referendum sul divorzio nel maggio del 1974. Tra tutte le altre virtù era molto generoso e altruista.
   Gabriele visse sempre del suo lavoro di contadino e ogni tanto faceva anche qualche lavoretto da cestaio come tafarelle, cesti o panieri. Credo sia stato l'unico italiano a rifiutare la pensione sociale non avendo mai maturato il diritto alla pensione, perché, stranamente,  gli sembrava poco onesto e si accontentava di quello che ricavava dal lavoro di contadino anche dopo i 65 anni. Un esempio di onestà cristallina e di dignità davvero esemplare. Pochi anni prima di morire mi regalò alcune vecchie banconote fuori corso che aveva portato con sé dalla Jugoslavia e che conservo gelosamente. Come si fa a non amare e a non conservare un bellissimo, imperituro ricordo di persone come lui? 

 

                         GIOVANNI E PASQUALINA, DUE GRANDI AMICI

    Fra le persone che mi hanno preceduto in questo paese per motivi anagrafici non posso non ricordate una stupenda coppia, due persone meravigliose che mi hanno gratificato della loro preziosa amicizia: Giovanni Girimonte e Pasqualina Secreti. 
   Giovanni era figlio di Domenico Girimonte (zu Ruminicu 'e Nellu), mentre Pasqualina, originaria di San Giovanni  in Fiore, fu per molti anni la collaboratrice domestica della famiglia Sperlì alla quale rimase legata fino alla morte. Erano due compagni di fede incrollabile, sempre in prima fila nelle assemblee che tenevamo nella sezione di viale del Re prima e di viale Convento negli anni 80. 
   Giovanni era un uomo mite, gentile, amato da tutti, saggio di quella saggezza tipica dei vecchi caccuresi, colto di quella cultura vera, corposa, pragmatica dei pastori, condizione sociale alla quale era fiero di appartenere e come tutti i pastori, oltre a conoscere numerose nozioni di astronomia e di cronologia, possedeva un'abilità pratica nella fabbricazione di fischietti, utensili della vita agro - pastorale, fellure, sedili in legno costruiti col culmo di una pianta particolare e altri oggetti. Era un uomo di poche parole, ma quando parlava aveva sempre qualcosa da insegnare con quell'umiltà delle persone sagge. 
   Pasqualina era una donna dolce, timida, sempre pronta a prodigarsi per il prossimo, gentile di una gentilezza più unica che rara. I due erano legati da un affetto e da una stima alla mia famiglia davvero commoventi. La loro morte, a distanza di qualche anno l'una dall'altro, fu per tutti noi, per il vicinato, per gli amici una perdita dolorosa e incolmabile. Grazie, Giovanni, grazie, Pasqualina, sarete sempre in mezzo a noi. 

 

                            L'INFATICABILE ZA MARIANTONA

     Mio suocero Vincenzo Larocca, che era un filosofo (la Calabria magno greca è piena di filosofi), suggeriva spesso a mia suocera l'eventuale elogio funebre che uno dei due avrebbe dovuto fare all'altro in caso di premorienza. Per lui si era riservato questo epitaffio: "Moristi ca moristi, ma pe' animu tuo 'un morivi", mentre per la moglie, alla quale intendeva così fare uno dei più bei complimenti, quest'altro: "L'acqua e ru ventu riposanu, ma tu 'un riposavi mai."
    Quest'ultima massima mi torna ogni volta alla mente quando ricordo la cara, simpatica Maria Antonia Falbo, per tutti Mariantona. amica e vicina di casa che si spense alla bella età di 100 anni e 5 mesi. 
    Za Mariantona, sposata con Pasquale Mele, abitava a 8 metri da casa mia, proprio di fronte. I figli erano tutti coetanei dei miei zii Chindamo e di mia madre, due famiglie, come capitava allora, che si fondevano praticamente in una sola. Eugenio Mele e zio Vincenzo Chindamo, "Grecuzzu" e "lu Negus", come si chiamavano reciprocamente dopo aver rinunciato ai loro nomi di battesimo,  faticavi a considerarli amici; erano più che fratelli. Che dire poi di mia madre che salva l'amica Annina condannata a morte per inedia da una diagnosi sballata, con insalate di portulaca prima, e maccheroni fatti in casa poi, che le portava di nascosto dopo averle fatto giurare che in caso di morte per congestione gastrica non l'avrebbe denunciata ai genitori e al medico? E ancora l'amicizia con Costanza che dura ancora e che mi auguro duri altri cent'anni con Maria, con Antonietta, con Teresina, con Rosina, ricordi bellissimi, incancellabili. 
   Ma per tornare a za Mariantona, era una donna iper attiva, sempre col sorriso sulle labbra e con qualcosa da fare, dai lavori domestici, a quelli agricoli, perfino a quelli di muratore. Quando proprio non aveva niente da fare, si procurava una cazzuola e un secchio per la calcina e riparava le buche delle strade intorno alla sua casa. Appunto: l'acqua e lu ventu riposavano, ma za Mariantona non riposava mai. 
  Un giorno fece impazzire uno straccivendolo che girava per il paese raccogliendo barattoli di alluminio in cambio di qualche cianfrusaglia come un pettine, uno strofìnaccio per i piatti, o cose del genere. Za Mariantona aveva raccolto una cinquantina di barattoli di latta e non voleva capire che quello non raccoglieva latta, ma alluminio. Il tira e molla andò avanti per un bel pezzo quando lo straccivendolo, preso per sfinimento, le regalò qualcosa rinunciando alle inservibili scatolette. Grande za Mariantona!

 

                                    I "GIGGI" LA MIA SECONDA FAMIGLIA

   Luigi Covello e Maria Oliverio, 'u Giggiu e la Giggia, abitavano a 6 metri da casa mia, il che, in un'epoca nella quale l'amicizia, la solidarietà, il legame tra "rughitani", ovvero gli abitanti di una comunità sociale che coincideva con una stradina, con un piccolo rione valeva più della parentela, significava appartenere quasi alla stessa famiglia. Fra l'altro zu Giggiu e nonno Saverio, emigrati a qualche anno di distanza l'uno dall'altro, si erano ritrovati per caso, quasi per uno  strano disegno del destino, nello stesso paesino di uno stato vastissimo come gli Stati Uniti a scavare carbone in una miniera e a condividere esperienze, sofferenze, successi e insuccessi e a mettere da parte l'equivalente in dollari di quelle fatidiche 6.000 che la cooperativa di muratori ex combattenti della Grande Guerra chiedeva per costruire una casina di un piano di 8 metri per 5 nel nuovo rione Croci il cui terreno la baronessa Giulia Barracco aveva donato al comune per lottizzarlo a favore dei reduci. Il segnale del destino era inequivocabile: voi due, le vostre famiglie, dovete rimanere amici, fratelli per tutta la vita. E così fu. 
   Za Maria 'a Giggia, ovvero la moglie di Giggiu, ( Gigi, Luigi) e nonna Guglielma si scambiavano di tutto: dal criscente (il lievito naturale) al sale, allo zucchero, all'olio, al pane quando una delle due lo finiva per primo, agli ortaggi;  dividevano le fatiche, i dolori, le poche gioie. La casa dell'una era la casa dell'altra. Analogamente facevano zu Giggiu e nonno Saverio. Quando poi "i Giggi" comprarono uno dei primi televisori della ruga  e i grandi sceneggiati, Lascia o raddoppia, Studio uno, Rin tin tin e Ivanhoe sostituirono i romanzi a puntate raccontati davanti al caminetto del brigadiere Nesci, la sera ci trasferivamo tutti da loro. 
   Un saluto commosso e deferente a zu Giuggiu e a za Maria. 

 

                                       GIOVANNI GALLO FILOSOFO EPICUREO


   Un altro caccurese che ricordo con affetto e nostalgia e al quale devo molto, anche per quanto riguarda la mia formazione culturale, è Giovanni Gallo, alias zu Giuvanni 'e Rizzeri, un pastore probabilmente analfabeta che si spense nei primi mesi del 1966 di grande intelligenza, arguto e scaltro. 
   Zu Giuvanni era molto amico dei miei nonni; di nonno Peppino col quale era solito gozzovigliare e di nonno Saverio, con quest'ultimo soprattutto negli ultimi anni
della loro vita, quando nonno, paralitico del 1958 non usciva più di casa. Zu Giuvanni, infatti, veniva tutte le sere a "spostare", come si dice con un bellissimo verbo  caccurese, cioè a passare piacevolmente la serata a casa nostra per fare compagnia a nonno e così io avevo la fortuna di ascoltare quest'uomo arguto, questo filosofo epicureo raccontare aneddoti spassosissimi, aforismi, racconti di guerra e fatti accaduti in anni lontani nel nostro paese, cose delle quali ho sempre fatto tesoro. Ma la cosa più importante che ho appreso da lui è l'eudemonismo, la ricerca del piacere; i piaceri della carne, quelli delle "carni" e anche dei formaggi che non mancavano mai alla sua tavola e l'inutilità della paura della morte. 
   Zu Giuvanni non aveva la più pallida idea di cosa fosse la Grecia e dove si trovasse, figuriamoci di Epicuro e della sua filosofia che non conosceva, ma la sapeva, come avrebbe detto di lui Aldo Moro. La frase che ripeteva scherzosamente come un mantra a ogni ora del giorno era: "Quannu moru io moru mortu", più o meno "Quando morirò lo farò da morto" per cui certamente non incontrerò la negra parca della quale mi faccio beffe. 
   E' stato questo grande filosofo caccurese a ispirarmi la commedia "Zu Giuvanni e la Morte",  la storia di un uomo che si fa più volte beffe della morte  che non riesce mai a ghermirlo mandando in bestia Caronte, come zu Giuvanni 'e Rizzeri che la sfotteva in ogni occasione. Grazie, zu Giuvà. 



                                        
GENNARO PARROTTA, 'U VARBERI

   Mio zio Gennaro Parrotta è uno dei vecchi caccuresi che ho più amato per la sua mitezza, la sua pazienza, i modi garbati con i quali si rapportava con suoi compaesani, oltre che per l'affetto che nasceva dal fatto che aveva sposato zia Eugenia, la sorella di mio padre.
   Zio Gennarino aveva il suo salone, una botteguccia di una ventina di metri quadrati scarsi, in piazza Umberto (quella vera) proprio all'inizio della discesa che porta al Trabucco, sotto la casa dei signori Lacaria. Chi ha meno di 60 anni lo ricorderà come uno dei due barbieri caccuresi, ma fino all'inizio degli anni 60 oltre che barbiere, nello stesso locale praticava anche il mestiere di ciabattino, Nel dopo guerra, infatti, la vita degli artigiani era grama come quella dei contadini e dei braccianti per cui quasi tutti i "mastri" dei paesini della Calabria sbarcavano il lunario e "campavano" la famiglia praticando appunto due mestieri: barbiere e calzolaio a Caccuri, barbiere e sarto in altri paesi. Zio Gennarino aveva scelto i due primi, il barbiere e il calzolaio che era poi anche il mestiere del suocero, nonno Peppino Marino che scarpe, scarponi e stivali di cuoio li fabbricava su misura e che erano indistruttibili. Altro che Nike e Valleverde! 

 

                                  GIOVANNI MUTO (VATTICORE)


   Giovanni Muto fu un altro dei tanti splendidi caccuresi che ebbi la fortuna di conoscere. Era una persona buona, umile, mite, discreta, un uomo che parlava pochissimo e ascoltava moltissimo e che per questo era stimato e rispettato da tutti. Era un cattolico fervente. Nelle tante processioni religiose che fino alla metà degli anni 60 attraversavano le strade di Caccuri, lo si trovava sempre in prima fila, assieme a un altro cattolico fervente, Giovanni Falbo, che portava la croce di penitenza come si vede in questa sbiadita foto del 1962, ma, nello stesso tempo, era un comunista di fede incrollabile che non avrebbe tradito il suo partito, così come non avrebbe tradito la sua fede religiosa, nemmeno sotto tortura. D'altra parte chi avrebbe mai potuto, non dico torturare, ma finanche rimbrottare una persona perbene come Giovanni. Quando verso la fine degli anni '60 cominciai a occuparmi del tesseramento, una delle primissime tessere che compilavo fu la sua. Un saluto commosso a quest'uomo umile nella sua grandezza. 

 


                                                          LUIGI PIZZUTI



     Luigi Pizzuti, ex dipendente del barone Barracco, era il padre, degli impresari edili Francesco e Amedeo che si trasferirono poi a Crotone nei primi anni 50 del secolo scorso. Viveva nella sua casa, all'incrocio tra via Adua e via Principessa di Piemonte con la moglie, Antonietta di origini cerentinesi, e la madre Teresa che mori ultra novantenne alla fine degli anni '50. Aveva un negozio di generi alimentari in via XXIV Maggio (attuale macelleria Ferrarelli) in un locale del genero Gigino Pasculli. La sorella Angela Maria sposò Amedeo Macrì il padre dell'indimenticabile dott. Francesco, medico condotto di Caccuri fino al dicembre del 1973.

                                                   Mio nonno Luigi
                                       di Francesco Mario Blaconà

   Luigi Pizzuto nasce in Caccuri da Teresa Leonetti e da Francesco nati entrambi a San Benedetto una frazione di San Pietro in Guarano. Capitarono a Caccuri per volontà della baronessa Giulia Barracco che prese a cuore il loro contrastato amore, lei era figlia di un mugnaio lui di una famiglia che aveva l'arciprete in casa animatore del partito popolare di Sturzo. Per allontanarlo dalla giovane il giovane Francesco fu mandato a Isola capo Rizzuto dove prese la malaria, fu portato a Caccuri e fu ricoverato presso la foresteria del castello assistito e curato dalla giovane amante. Dopo la guarigione si sposarono con il permesso della baronessa, ché nel contempo aveva preso a suo servizio la giovane e destinò come casa per la coppia le stanze entrando a destra e li ebbero i figli Rocco, Luigi, Alfonso, Amedeo e Angela Maria la mamma di Alberto Macrì. Mio nonno dopo aver partecipato alla grande guerra, dove fu decorato con medaglia di argento, entrò al servizio dei Barracco gestendo il trappito e il fondo di Lupia.