Francesco Macrì



    Voglio qui riproporre qualche breve nota biografica relativa al dott.  Francesco  Macrì, ma, soprattutto un ritratto del "medico del sorriso" come venne ribattezzato dai caccuresi,  basato sui miei ricordi. ricordi di un uomo che, assieme al professore Mario Sperlì, mio primo maestro delle elementari e poi mio superiore per una decina di anni, fu per me un secondo padre, oltre che il medico della mia famiglia fino al quel tragico 15 dicembre del 1973 quando ci lasciò improvvisamente. Non dimenticherò mai tutte le sue cure, tutte le sue premure, tutta la stima per me che egli non nascose mai e che io e la mia famiglia ricambiammo sempre. Credo che se fosse vissuto ancora avrebbe mostrato lo stesso affetto e la stessa stima che mostrava per me, coetaneo e compagno di scuola del figlio Amedeo (Dino), anche per mio figlio che "don Ciccio" aveva ribattezzato "il diavoletto di Cartesio."  

 “Francesco Macrì, detto "don Ciccio ”, fu uno uno dei caccuresi i più amati dai propri concittadini per tutto ciò che egli fece per loro e per come seppe sacrificarsi per curare, tra mille difficoltà, la propria gente alleviandone, per quanto possibile, il dolore e la sofferenza. Don Ciccio ci lasciò improvvisamente, oserei dire discretamente, uscendo dal mondo in punta di piedi, così come ci era sempre vissuto, in una triste mattinata di trent’anni fa. Era il 15 dicembre del 1973 e il paese si preparava alle imminenti feste natalizie. Improvvisamente il dramma. La notizia della sua scomparsa si diffuse in paese come un fulmine a ciel sereno. La gente appariva sbigottita e addolorata, sconcertata, incredula. Costernazione e dolore furono i sentimenti prevalenti per una perdita così grave e repentina. I compaesani nutrivano un stima profonda e un affetto sincero per il loro medico, un uomo profondamente attaccato suo lavoro, al paese, agli assistiti tanto da trascurare la sua stessa salute fino all’estremo sacrificio.
   Il vero nome era Francesco Carmine Domenico Macrì ed era nato a Caccuri il 14 aprile del 1915 da Amedeo, falegname, e da Angela Maria Pizzuti. Don Ciccio, che era il primo dei fratelli (il secondo era l'indimenticabile professore Albertino) , conseguì la laurea in medicina e chirurgia e, agli inizi degli anni ’50, divenne medico condotto e ufficiale sanitario del paese. Subito dopo la laurea, allo scoppio della seconda guerra mondiale fu chiamato alle armi e servì la patria da ufficiale medico. Catturato dai tedeschi fu internato in un campo di prigionia, probabilmente a Legnica ( Liegnitz).
   La professione medica, negli anni '50 e '60 era molto faticosa perché il condotto doveva sopperire alle carenze sanitarie. Non c’erano ancora guardie mediche, non c'erano infermieri, spesso le farmacie erano perfino sprovviste dei medicinali indispensabili alla cura di gravi malattie. Il medico doveva davvero sapersela cavare, sia per diagnosticare efficacemente centinaia di malattie senza poter leggere un’ecografia, un esame del sangue, un elettrocardiogramma, sia per trovare rimedi efficaci in assenza di farmaci. “Don Ciccio”, dapprima a cavallo di una Vespa, poi col una vecchia Topolino, di notte, di giorno, con la pioggia, con la neve, col caldo torrido, accorreva al capezzale dei suoi malati per curare coliche, accessi di terzana.
   Spesso, nel corso della notte, il medico “del sorriso” com’era stato affettuosamente ribattezzato dai compaesani, veniva svegliato più volte per raggiungere la frazione di Santa Rania o qualche sperduto casolare nella campagna caccurese per visitare un ammalato, per far nascere un bambino, per applicare un catetere. Dopo aver visitato il paziente, fatta la diagnosi, avviata la terapia, “don Ciccio Macrì” tornava a casa e si infilava nel letto per essere, magari svegliato un quarto d’ora dopo per un'altra chiamata. A volte la chiamata era solo frutto di fissazioni di soggetti ipocondriaci, ma “don Ciccio” non se la prendeva e, col sorriso sulle labbra, armato di infinita pazienza e con alto senso del dovere e spirito di sacrificio, accorreva al capezzale dell’ammalato, vero o presunto, per prestare le cure necessarie, senza badare se avesse la mutua e se la prestazione gli sarebbe stata pagata o meno. A quei tempi il povero condotto doveva recarsi a casa dell’ammalato, magari anche per praticare una semplice iniezione, dal momento che non c’erano infermieri nei nostri paesini, ma non c’erano nemmeno dentisti, chirurghi, ortopedici, pediatri e don Ciccio praticava le iniezioni, cavava i denti, componeva, quando era possibile, piccole fratture, curava i bambini con competenza, zelo e spirito di abnegazione.
   Francesco Macrì non era solo un grande medico, ma era anche un uomo di cultura, un umanista che coltivava le buone letture e che, fino al giorno della morte, curava la propria formazione culturale con lo stesso zelo con il quale curava i suoi pazienti. Nei primi giorni di dicembre, nonostante avesse avuto diversi segnali che lasciavano presagire un imminente attacco di cuore, Ciccio Macrì rifiutò di farsi ricoverare in ospedale e continuò a fare la spola tra i suoi pazienti. Era il periodo della crisi petrolifera, delle domeniche a piedi e la Bianchina di don Ciccio era la sola macchina in circolazione nelle strade del paese, tra tricicli, e automobiline di bambini che approfittavano del blocco della circolazione per giocare liberamente in strada. “Il medico del sorriso” si fermava spesso ad osservare, divertito, ridendo fino alle lacrime, quei bambini, quei “diavoletti di Cartesio”, come affettuosamente li definiva, che giocavano in strada e sulla cui salute vigilava. L’andirivieni della piccola utilitaria si interruppe tragicamente in una fredda mattina di dicembre, quando un maledetto infarto spense quel sorriso, ma il ricordo di quell’uomo dolce, buono e schivo è rimasto indelebile fra i suoi assistiti.

 

 

                      

 

 

 

 

 

 

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