Giuseppe Lacaria
(studente comunista e antifascista)


                                                  


    Giuseppe Lacaria, giovane antifascista morì in esilio a Liegi all’età di 30 anni, nel 1936. Il Lacaria fu, forse, l’unico vero perseguitato politico caccurese nel ventennio o, perlomeno, l’unico nei confronti del quale i gerarchi locali ebbero la mano davvero pesante. Ciò non perché i Caccuresi in camicia nera fossero meno determinati o fanatici di quelli che popolavano le altre contrade del Paese, ma perché l’attività degli altri oppositori, non acculturati e determinati al pari del giovane comunista, non preoccupava più di tanto i custodi della trista ideologia che, in genere, obbligavano al silenzio questi loro più “innocui” avversari con la classica purga. 
     Nato a Caccuri il 13 febbraio del 1906, Giuseppe, si era accostato al marxismo insieme ad un altro giovane caccurese, quell’Alfonso Chiodo destinato a divenire il primo sindaco del dopoguerra. A far nascere nei due ragazzi il gusto e la voglia di fare politica aveva contribuito moltissimo il reverendo don Giuseppe Pitaro, un battagliero sacerdote dirigente della Sezione dell’Associazione Nazionale Combattenti che nel 1919 aveva guidato le lotte dei contadini combattenti per la conquista delle terre assegnate ai reduci in applicazione dei Decreti Visocchi. Don Pitaro, esponente di spicco del Partito Popolare di don Sturzo, ne avrebbe voluto fare due dirigenti del suo partito, ma Giuseppe ed Alfonso, pur rimanendo sempre legati affettuosamente al prete combattente, si liberarono ben presto della tutela politica del religioso caccurese e finirono per iscriversi all’allora clandestino P.C.d’I. 
   Dotato di intelligenza vivissima, Giuseppe, sin da piccolo, mostrò un grande interesse per lo studio ed una accentuata curiosità che lo spingeva a ricercare, sperimentare, capire l’essenza delle cose e della realtà che lo circondava. Proprio questa curiosità gli provocò un grave incidente che ebbe come conseguenza una mutilazione permanente alla mano destra per lo scoppio di una “bomba” all’acetilene che stava confezionando per gioco da ragazzino. L’esplosione gli portò via tre dita, ma ciò non gli impedì, in seguito, di impugnare la penna e scrivere lettere e biglietti agli amici ed ai compagni zeppi di riferimenti critici più o meno velati alla sciagurata politica del regime. Nelle discussioni con gli amici, ma anche per strada, con una spavalderia ed un coraggio frutto del giovanile ardore, non esitava a criticare la politica di regime. Ma, come ebbe a raccontare più volte il suo fraterno amico Alfonso Chiodo, il torto maggiore fu quello di aver cercato di organizzare, anche a Caccuri, una cellula comunista clandestina. Tutto ciò non poteva essere tollerato da podestà, segretario del fascio e militi agli occhi dei quali il Lacaria aveva anche il grave torto di voler studiare e laurearsi al pari dei loro figli, lui, umile rampollo di una famiglia di contadini. 

                        
             
Giuseppe Lacaria (a sinistra) e Alfonso Chiodo nella villa comunale

I suoi avversari presero perciò a perseguitarlo con purghe, minacce e denunce alle autorità di regime. Sentendo sempre più il fiato dei nemici sul collo e paventando l’arresto ed il confino, il giovane studente che si era, nel frattempo ammalato, riparò precipitosamente in Belgio. A Liegi si iscrisse alla facoltà di ingegneria nella speranza di completare gli studi interrotti in Italia. Ma il suo destino era ormai segnato: aggravatesi le condizioni di salute, anche per gli stenti che dovette sopportare per procurarsi da vivere in una terra lontana ed in un clima non certo ottimale per la sua salute, si spense il 25 aprile del 1936 senza aver più rimesso piede nel paese natio. Esattamente 9 anni dopo, nell’anniversario della sua morte, il regime che lo aveva perseguitato sarebbe stato spazzato via dall’insurrezione popolare.
                                                      
Testo di Giuseppe Marino