Vincenzino il coraggioso

   
  
Vincenzino era un ragazzo molto coraggioso; almeno di questo si era spesso vantato con gli amici quando il sabato sera, lasciata la casella di Battinderi dove viveva con i genitori e le sorelle, si recava a piedi a Caccuri per trascorrere qualche ora con i suoi coetanei all’osteria a giocare a carte e a padrone e sotto. Poi, dopo aver mangiato per cena un piatto di spezzatino di coratella o quattro stigliule[1] accompagnando il tutto con qualche bicchiere di vino, verso le 9 si avviava per il sentiero che, attraverso  San Nicola, Rittusa e Zifarelli portava a Battinderi.
   In una calma e serena sera del mese di novembre, una di quelle sere tiepide e serene che ci regala San Martino, conclusa la solita gozzoviglia con gli amici, prese la via di casa. La notte era senza luna e il buio lo si poteva tagliare con l’accetta, ma Vincenzino, che conosceva la strada a menadito, non se ne curava. Nella tasca del pastrano portava sempre un pezzo di rera[2] che, appena arrivato alla periferia del paese, laddove finivano i lampioni a olio dell’illuminazione pubblica che rischiaravano fiocamente le viuzze strette del borgo, era solito accendersi per farsi un po’ di luce lungo il cammino, una luce che, comunque, non andava oltre un metro dalla punta delle scarpe.  
   Quella volta aveva appena oltrepassato San Nicola ed era giunto a una sessantina di passi dalla Conicella quando gli si pararono innanzi due orribili teschi distanti un quattro – cinque metri l’uno dall’altro che si libravano nell’aria buttando fiamme e fuoco dalle orbite incavate e dalla bocca.

                         

 Le orribili apparizioni si protendevano minacciosamente verso di lui e, contemporaneamente un urlo bestiale e una risata demoniaca gli fecero gelare il sangue nelle vene. Nonostante le gambe gli fossero improvvisamente diventate di ricotta, si voltò di scatto per fuggire lontano da quelle macabri apparizioni tornando in paese. Il brusco movimento e il panico incontrollabile gli fecero cadere di mano la torcia che si spese immediatamente al contatto con l’erba umida lasciandolo completamente al buio. Fece molti tentativi, ma  non riuscì a smuoversi da quel maledetto posto perché una mano invisibile lo teneva saldamente per il pastrano impedendogli qualsiasi movimento. Intanto la terribile risata che l’eco moltiplicava più volte, rimbombava nella piccola valle accentuando il suo terrore.
   Il povero giovane non ebbe il coraggio di voltarsi temendo di avere alle spalle il diavolo in persona e, col viso sempre rivolto verso il paese, implorava l’essere misterioso che lo teneva prigioniero di non fargli del male e di lasciarlo andare, ma per quanto tentasse di svincolarsi da quella terribile morsa, non riuscì a smuoversi di un millimetro, anzi gli sembrò che il diavolo giocasse con lui a rimpiattino, consentendogli di avanzare per qualche centimetro per poi tirarlo nuovamente verso di sé con uno strattone, mentre urlo e risata gli sembravano sempre più vicini. Quando il terrore raggiunse il culmine il poveretto cadde in deliquio e quella proverbiale perdita di coscienza venne a toglierlo pietosamente da quell’orribile situazione.  
   Lo svenimento dovette durare a lungo perché lo svegliò un tenue raggio di sole che lo colpì proprio sugli occhi. Ancora intontito Vincenzino non riuscì a stabilire subito se aveva avuto un terribile incubo o se aveva vissuto realmente quella brutta avventura. Per qualche attimo non capì nemmeno dove si trovava, poi tutto gli riaffiorò spaventosamente alla mente. Poi pensò che oramai era giorno fatto e che la luce del sole aveva certamente scacciato gli spiriti delle tenebre per cui si sentì un po’ rincuorato, anche perché in lontananza si udivano alcune pecore belare.  Allora si guardò intorno e si avvide del lembo del pastrano impigliato nel ramo di un pruno e, guardando verso Conicella, a una trentina di metri di distanza, vide due grosse zucche rosse che pendevano  dai rami di un mandorlo oscillando lievemente a ogni alito di brezza.
   Colto da un indicibile furore, disincagliò il pastrano dal pruno, poi prese a sassate le zucche, quindi si avviò nella direzione dalla quale gli era sembrato provenissero l’urlo e la risata. Fu allora che dietro alcuni di mucchi[3] rinvenne alcune bucce d’arancia e molte cicche, segni inequivocabili di un bivacco notturno. Il povero giovane inveì in cuor suo contro gli autori di quella mascalzonata mandando loro tutte le maledizioni possibili e immaginabili, quindi si avviò mestamente verso Battinderi dove trovò la famiglia in ansia per il ritardo e dovette inventarsi una scusa per aver passato la notte fuori di casa.
   Da quella volta Vincenzino non mise più piede in paese e non si fece mai più vedere all’osteria, non tanto perché avesse paura di imbattersi ancora negli spiriti della notte, ma per quella di dover sostenere lo sguardo beffardo e sornione degli autori di quell’ odiosa burla che non potevano non essere i suoi compagni di gozzoviglia.



[1] Interiora di capretto arrosto

[2] Torcia di resina di pino

[3] Cespugli di cisto