Il santo ciliegio
Soggetto popolare – Trascrizione di Peppino Marino

 

     C’è una bellissima favola frutto della saggezza e dell’ironia  del nostro popolo che, attraverso questo capolavoro letterario che nessuno si è mai curato di trascrivere, vuole ribadire la pessimistica convinzione che l’uomo non cambia mai, che il malvagio rimane malvagio per tutta la vita, così come il ladro, l’assassino, il parassita, l’imbroglione e via dicendo. Insomma lo stesso concetto racchiuso nel proverbio “Chi nasce tondo non muore quadro”, ma nel caso della nostra favola espresso in forma più ironica, più letteraria, insomma da leggere assolutamente. Ed eccovi la storia.


     C’era una volta un contadino che aveva tre figlie femmine. “Figlia fimmina e mala notatta” avrà pensato dopo ogni parto della povera moglie. A quei tempi, infatti, la donna, che poi era quella che portava il peso maggiore della casa, quella che aveva più conoscenze, più abilità, insomma quella che dava il valore aggiunto a ogni cosa, era incredibilmente  considerata un peso per l’uomo che coltivava i campi, il “faticatore” che sapeva solo zappare e nient’altro. In più, per "levarsi di torno" una figlia femmina, bisognava farle il corredo, un altro peso notevole per il genitore. Per questo quando qualche ragazzo si presentava a casa a chiedere la mano di una ragazza per poi portarsela via per il padre era davvero un grande sollievo. Nel caso del nostro contadino, però, nessun pretendente aveva mai chiesto  la mano di una delle tre per cui la disperazione del nostro cresceva di giorno in giorno.
   Nell’orto c'era una rigogliosa pianta di ciliegio che, però, anch’essa era fonte di amarezza e delusione per il pover’uomo perché da anni non dava frutto, cosa di cui egli si lamentava spesso.
  Un giorno che era particolarmente depresso un amico che lo vide piangere in silenzio in un cantuccio del  podere gli chiese il motivo del suo dolore ed egli gli confidò che la  disperazione nasceva dal fatto che non riusciva a sposare le tre figlie femmine e che nemmeno il ciliegio ne voleva sapere di dargli almeno un po’ di frutta.
   "Ti insegno io come risolvere il problema, gli rispose l’amico. Visto che il ciliegio non ha mai portato frutto e che è sufficientemente robusto, taglialo e il tronco portalo a uno scultore per ricavarne la statua di San Pasquale Bylon. Poi sistemala in una nicchia nel giardino  e rivolgigli una preghiera mattina e sera per qualche settimana  e vedrai che le tue figlie troveranno marito.”
   Il contadino, convinto della bontà del consiglio diede amo alla scure, abbatté in un lampo il ciliegio maledetto, caricò a fatica e con l’aiuto dei vicini il tronco sul carretto e lo portò a un amico falegname commissionandogli la scultura.
  Dopo circa un mese l’opera era già bella e finita e il nuovo santo, nel suo splendore, fu trasferito in processione sul carretto nel giardino della casa dove prima si ergeva il ciliegio e collocato in una nicchia. Da quel giorno, mattina e sera, a mezzogiorno, a notte fonda, c’era sempre qualcuno della famiglia a pregare e supplicare il santo perché facesse il miracolo agognato. Passò una settimana, la seconda, la terza, passarono i mesi, un anno, ma di pretendenti nemmeno l’ombra.
   Allora una mattina il povero padre accese nel mezzo del podere un fuoco per bruciare i residui della potatura e, quando le fiamme erano alte, si rivolse alla statua e disse: “Mio caro santo, nemmeno tu hai fatto il miracolo. D’altra parte te canusciu ‘e quann’era cerasu. Non hai fatto mai bene  quando eri cerasu, figuriamoci ora che ti abbiamo promosso santo!” Quindi, preso dall’ira, afferrò la scultura e la gettò nel fuoco. Da allora, quando si vuole esprimere sfiducia in qualcuno, gli si ripete la famosa frase: “Te canuscio ‘e quann’era cerasu!”, ti conosco da quando eri ancora ciliegio, conosco i tuoi trascorsi, non m’incanti.