C’è una bellissima favola frutto della saggezza e dell’ironia
del nostro popolo che, attraverso questo capolavoro letterario che
nessuno si è mai curato di trascrivere, vuole ribadire la pessimistica
convinzione che l’uomo non cambia mai, che il malvagio rimane malvagio
per tutta la vita, così come il ladro, l’assassino, il parassita,
l’imbroglione e via dicendo. Insomma lo stesso concetto racchiuso nel
proverbio “Chi nasce tondo non muore quadro”, ma nel caso della
nostra favola espresso in forma più ironica, più letteraria, insomma
da leggere assolutamente. Ed eccovi la storia.
C’era
una volta un contadino che aveva tre figlie femmine. “Figlia fimmina e
mala notatta” avrà pensato dopo ogni parto della povera moglie. A
quei tempi, infatti, la donna, che poi era quella che portava il peso
maggiore della casa, quella che aveva più conoscenze, più abilità,
insomma quella che dava il valore aggiunto a ogni cosa, era
incredibilmente considerata un peso per l’uomo che coltivava i
campi, il “faticatore” che sapeva solo zappare e nient’altro. In
più, per "levarsi di torno" una figlia femmina, bisognava
farle il corredo, un altro peso notevole per il genitore. Per questo
quando qualche ragazzo si presentava a casa a chiedere la mano di una
ragazza per poi portarsela via per il padre era davvero un grande
sollievo. Nel caso del nostro contadino, però, nessun pretendente aveva
mai chiesto la mano di una
delle tre per cui la disperazione del nostro cresceva di giorno in
giorno.
Nell’orto c'era una
rigogliosa pianta di ciliegio che, però, anch’essa era fonte di
amarezza e delusione per il pover’uomo perché da anni non dava
frutto, cosa di cui egli si lamentava spesso.
Un giorno che era
particolarmente depresso un amico che lo vide piangere in silenzio in un
cantuccio del podere gli chiese il motivo del suo dolore ed egli
gli confidò che la disperazione nasceva dal fatto che non
riusciva a sposare le tre figlie femmine e che nemmeno il ciliegio ne
voleva sapere di dargli almeno un po’ di frutta.
"Ti
insegno io come risolvere il problema, gli rispose l’amico. Visto che
il ciliegio non ha mai portato frutto e che è sufficientemente robusto,
taglialo e il tronco portalo a uno scultore per ricavarne la statua di
San Pasquale Bylon. Poi sistemala in una nicchia nel giardino e
rivolgigli una preghiera mattina e sera per qualche settimana
e vedrai che le tue figlie troveranno marito.”
Il contadino,
convinto della bontà del consiglio diede amo alla scure, abbatté in un
lampo il ciliegio maledetto, caricò a fatica e con l’aiuto dei vicini
il tronco sul carretto e lo portò a un amico falegname
commissionandogli la scultura.
Dopo circa un mese
l’opera era già bella e finita e il nuovo santo, nel suo splendore,
fu trasferito in processione sul carretto nel giardino della casa dove
prima si ergeva il ciliegio e collocato in una nicchia. Da quel giorno,
mattina e sera, a mezzogiorno, a notte fonda, c’era sempre qualcuno
della famiglia a pregare e supplicare il santo perché facesse il
miracolo agognato. Passò una settimana, la seconda, la terza, passarono
i mesi, un anno, ma di pretendenti nemmeno l’ombra.
Allora una mattina il
povero padre accese nel mezzo del podere un fuoco per bruciare i residui
della potatura e, quando le fiamme erano alte, si rivolse alla statua e
disse: “Mio caro santo, nemmeno tu hai fatto il miracolo. D’altra
parte te canusciu ‘e quann’era cerasu. Non hai fatto mai bene
quando eri cerasu, figuriamoci ora che ti abbiamo promosso santo!”
Quindi, preso dall’ira, afferrò la scultura e la gettò nel fuoco. Da
allora, quando si vuole esprimere sfiducia in qualcuno, gli si ripete la
famosa frase: “Te canuscio ‘e quann’era cerasu!”, ti conosco da
quando eri ancora ciliegio, conosco i tuoi trascorsi, non m’incanti.
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