La dignità di nonno Saverio

                          
                                                                        
                                                                 

    Nonno Saverio era un  vecchio analfabeta che, inspiegabilmente, aveva una mentalità molto moderna per quei tempi e che coltivava una grande passione per la musica e per il melodramma. Anche quando era in America, nonostante trascorresse tutto il giorno nel fondo di una miniera di carbone di Clarksburg, ogni volta che in paese si esibiva una banda, faceva di tutto per non perdersi il concerto.
    Ricordo ancora quando lui ed il suo amico zu Luigi Covello, un vicino di casa anch’egli analfabeta ed anch’egli appassionato di musica, si recavano a San Giovanni in Fiore a piedi, attraverso Eido, Ombaleone, Parpusa,  Jimmella per la festa del patrono, quando la banda di Acquaviva delle Fonti o di Gioia del Colle si esibiva in un imperdibile concerto con le più belle sinfonie e romanze di Verdi, di Rossini, di Puccini. Ricordo la rabbia e gli epiteti con i quali, di ritorno a casa, gratificavano  i sangiovannesi che avevano rumoreggiato perché la banda si affrettasse a concludere il concerto perché erano impazienti di vedere i “fruguli[1], i fuochi d’artificio che chiudevano la festa.  

Nonno Saverio (a sinistra) e zu Luigi Covello

Mio nonno era rimasto orfano di entrambi in genitori  in tenera età, quando ancora non aveva imparato a camminare per cui visse per qualche anno con i nonni giffonesi poverissimi, che, non potendo sfamare un’altra bocca, non ancora adolescente, lo affidarono ad alcuni pastori dell’Aspromonte con i quali rimase a pascolare le greggi per qualche anno, poi divenne cavatore di “zomme”, la radica di erica usata per fabbricare pipe per i signori e, vagando di qua e là per le montagne calabresi alla ricerca del prezioso legno, capitò a Caccuri agli inizi del Novecento. Da bambino al suo paese aveva assistito ad un efferato omicidio per cui conservò per tutta la vita l’immagine della vittima esanime,  con un’accetta conficcata in mezzo al cranio sulla porta della farmacia del paese. Quell’episodio lo segnò irrimediabilmente  per cui prese in odio la violenza e cercò sempre di tenersi lontano dai criminali e dai prepotenti. Purtroppo nel suo paese la violenza era pane quotidiano ed egli ne soffriva moltissimo e sperava sempre di capitare in un posto dove questo piaga non fosse di casa..

   Nonno Saverio arrivò a Caccuri agli inizi del secolo scorso, di sera, quando oramai il sole era tramontato da qualche ora e le tenebre erano rischiarate solo da qualche tenue fiammella che filtrava dalle finestrelle delle casucce appollaiate sulla “rupa” e sui Mergoli. Entrò in paese a piedi, da Canalaci, assieme a  un gruppo di compaesani. Il buio era fittissimo e i cavatori avanzavano sul sentiero facendosi luce con qualche torcia di “varbaschi[2]. Avevano passato da poco la fontana quando giunse allo loro orecchie un rumore indefinibile, comunque gradevole, e guardando verso l’attuale piazza nella direzione dalla quale proveniva quell’indecifrabile "borbottio",  videro delle scintille che guizzavano in tutte le direzioni. Incuriositi, ma anche leggermente intimoriti, avanzarono con circospezione sul sentiero pensando a qualche stregoneria e, più avanzavano, più quel rumore diventava più percettibile e più gradevole, mentre le scintille ora apparivano luccicanti. 
   Giunti oramai al ponte della Parte si resero conto che quello che di primo acchito era sembrato un rumore strano era, in effetti, un suono di chitarra ed allora, rincuorati, avanzarono con passo più deciso e, arrivati in piazza, scoprirono finalmente l’arcano: un contadino con una battente accompagnava una sfrenata tarantella, mentre gli amici, in cerchio, ballavano vorticosamente sulla
silica[3]  e le tacce ed i trincilli[4] delle loro scarpe chiodate producevano quelle misteriose “stelle filanti “ che li avevano messi in apprensione.
Dopo essersi rifocillati e trovato alloggio precario alla locanda del bisnonno Francesco Marino, si ritirarono nei loro giacigli e il mattino dopo, si trasferirono nel bosco di Casalinuovo dove iniziarono la loro attività di “zommari”.
   Tre sere dopo, nonostante la riluttanza di nonno Saverio che, per dirla tutta, era anche un po’ fifone e temeva che qualche eventuale libagione nelle bettole del paese potesse allentare i freni inibitori dei suoi non troppo pacifici compaesani col risultato di scatenare qualche rissa dagli esiti imprevedibili, i cavatori, e con loro il pavido giovane “zummaru[5], salirono in paese. Giunti in piazza Umberto, furono testimoni di una rissa furibonda con pugni, calci, mozzichi e urla di donne che arrivavano alle stelle. Nonno Saverio, terrorizzato,  pensando alle inevitabili conseguenze di quel parapiglia, si rifugio in un cantuccio nel vicoletto che da piazza Umberto scende alla Iudeca rannicchiandosi più che poteva per rendersi invisibile. Abituato alle risse del suo paese pensava che quella sera a Caccuri ci sarebbero stati almeno tre o quattro morti e una decina di arresti ed in effetti il numero degli individui coinvolti in quella guerriglia urbana e l’intensità degli schiamazzi lasciavano presagire un esito di questo tipo. Nonno se ne stava sempre rintanato poi la l’intensità della lite, una volta giunta al culmine, cominciò lentamente a scemare fin quando si placò del tutto. Allora mise timidamente il capo fuori dal suo nascondiglio, ma non vide morti per strada, né carabinieri trascinare in catene criminali; alcuni contadini coinvolti nella spaventosa rissa, con qualche occhio nero o qualche graffio sul volto rientrarono tranquillamente nella bettola riprendendo a bere e a giocare a carte come se non fosse mai successo niente, mentre le donne, calmatesi, rientravano nelle case per riprendere le loro faccende interrotte.
    Lo sbalordimento di nonno Saverio fu davvero enorme e fu allora che giurò che non avrebbe mai più lasciato Caccuri e che “ ‘u paise  ‘e ra muntagna” per dirla con zu Giovanni Marullo, sarebbe diventato per sempre il suo paese . “ In questo paese si suona e si balla e la gente ama divertirsi e se mai in futuro mi dovessi trovare in qualche guaio, male che vada, disse tra sé, me la caverò al massimo con un occhio pesto e qualche rascune.[6]” 
   Qualche tempo dopo i suoi compaesani, esaurita la campagna di raccolta della radica, se ne tornarono al loro paese, ma, per quanti sforzi fecero, non riuscirono a convincere il loro giovane compaesano a ripartire con loro.    
    Nonno Saverio rimase dunque a Caccuri dove sposò nonna Guglielma e, tranne i sette anni che trascorse nel West Virginia dov'era emigrato da clandestino nascosto come i topi nella stiva di un bastimento, visse sempre nel suo paese di adozione  senza mai più mettere piede a Giffone. 


   
Nonno Saverio con il nipote Peppino Marino

   Nell’estate del 1954 si recò a Merano a  far visita ai figli che si erano stabiliti nella cittadina altoatesina da qualche tempo. Il giorno, quando erano al lavoro ed i nipotini a scuola, passeggiava per la città che doveva sembrargli un paradiso. Per arrivare in centro, lasciata Maia Bassa, prendeva per via Maia, una strada alberata  con decine di platani il cui numero esatto lo conosceva solo lui e che lambiva Maia Alta, il quartiere residenziale per poi  sbucare nei pressi del Ponte della Posta, il ponte sul Passirio.  Qui nonno svoltava a sinistra ed imboccava le fantastiche passeggiate d’estate tra il ponte della Posta ed il ponte Teatro, si sedeva in una panchina di fronte il Casino ed ammirava le fantastiche “sculture floreali”, capolavori inimitabili della giardineria comunale meranese.

  Un giorno, come al solito, partì da Maia Bassa lungo via Roma. Arrivato all’altezza della chiesa di Santa Maria del Conforto svoltò a destra ed imboccò la via Maia, quindi oltrepassò il Passirio e svoltò sulle passeggiate d’estate come faceva sempre. Non fece caso ad una transenna che era stata posta nei pressi del Casino, anche perché vedeva che la gente passava tranquillamente sotto lo sguardo distratto di due vigili urbani fermi nei pressi di un varco. Continuò la sua passeggiata in direzione di piazza Teatro e.  giunto al varco fu bloccato dai due vigili. “Ehi, signore, dove sta andando?”, gli chiesero gli uomini in divisa. “Faccio una passeggiata,  rispose nonno,  arrivo fino a piazza Teatro e poi risalgo lungo Corso Libertà.”  “Non si può risposero i vigili, non sa che oggi c’è il concerto e per ascoltare l’orchestra bisogna avere il biglietto?.”  Nonno si sentì mortificato e cercò di scusarsi. “Non lo sapevo, vi chiedo scusa, non sapevo che  c’era il concerto e che per entrare nelle passeggiate bisogna pagare il biglietto. Io non sono di Merano, sono qui solo perché sono venuto a trovare mio figlio.” I vigili, incuriositi, cercarono di intavolare un po’ di conversazione per farsi perdonare il tono un po’ brusco usato poco prima e chiesero al vecchio di dove fosse . Nonno rispose loro che era calabrese e i vigili gli chiesero  ancora chi fosse il figlio che era venuto a trovare.  Nonno rispose che era il tenente Chindamo. I due vigili ebbero un soprassalto nel sentire nominare il loro diretto superiore e, impallidendo, cercarono di improvvisare qualche scusa per blandire il vecchio padre del loro comandante. “Beh, fece uno di loro, se è il padre del tenente Chindamo vada pure, non ci sono problemi.”  “Ci scusi, aggiunse l’altro, non sapevamo che lei fosse il padre del nostro comandante, vada pure a gustarsi il concerto.”  “No, rispose, nonno Saverio, vi ringrazio per la vostra gentilezza, ma non posso; non ho pagato il biglietto, quindi non è giusto che vada a seguire il concerto senza biglietto. Buona giornata”, aggiunse girando i tacchi e lasciando i due vigili sbalorditi. Quindi tornò al ponte della posta, imboccò Corso Libertà, si infilò in via Leonardo da Vinci e si infilò nel negozio di uno dei due figli.

  Quando i due malcapitati vigili scusandosi cento volte,  raccontarono mortificati,  l’episodio a zio Giovanni, “il burbero comandante” fu assalito da sentimenti contrastanti di commozione e di orgoglio per essere il figlio di un uomo così dignitoso e ringraziò i due agenti per il tatto e  la sensibilità di cui avevano saputo dar prova.

              
                
Nonno Saverio                                                   Il tenente Giovanni Chindamo alla testa dei suoi vigili



[1] Fuochi d’artificio nel dialetto sangiovannese

[2] Infiorescenze di un arbusto imbevute di morga, il residuo inutilizzabile dell’olio

[3] Selciato

[4] Chiodi e lunette di ferro

[5] Cavatore di zomme, di radica

[6] Graffio