Ognuno
ha una storia da raccontare è il titolo del concorso letterario
partorito dalla mente vulcanica del mio amico Maurizio Mesoraca,
presidente dell’Università Popolare Mediterranea, storie vere o
storie verosimili, altre magari inventate. La mia, purtroppo, è vera e
dolorosa, ma, a distanza di 74 anni, anche un po' comica. Ovviamente non
sarà in concorso, sia perché non ho mai partecipato a concorsi oltre
quello magistrale che mi avrebbe dato il pane, sia perché se lo facessi
sarei in palese conflitto di interessi, questa cosa totalmente
sconosciuta a molti politici del passato e a molti altri ancora in Spe
(servizio permanente effettivo) incollati alle poltrone di Montecitorio
e di Palazzo Madama o dei consigli regionali da decenni, ma che
sbraitano contro la casta. Si tratta della storia d’amore “e
d’anarchia” tra mio padre e mia madre.
Quando mio padre,
tornato qualche anno prima dal militare, si fidanzò con mia madre, i
nonni paterni, e di conseguenza anche i fratelli e le sorelle, erano
ferocemente contrari a questa relazione. Nonno Peppino cercò
ripetutamente di convincere mio padre a rompere il fidanzamento
arrivando a minacciarlo più volte. Quando seppe che il figlio stava
preparando le nozze con mia madre, lo prese per il bavero e gli disse
che aveva sempre due palle pronte nel suo fucile da caccia e che non
avrebbe esitato a cacciarle in petto a lui e a mia madre se si fossero
sposati. In realtà mio nonno era un tipo pacifico che, come tutti i
Marino, si faceva influenzare parecchio da nonna Maria, ma papà prese
sul serio la minaccia. Come per la politica, però, così anche per
l’amore, non tradì i suoi ideali.
Mio padre fu sempre
comunista e non nascose mai le sue idee. Quando nel 1946 ci furono le
prime elezioni amministrative, impugnava tutti i giorni la bandiera
rossa e faceva il giro del paese soffermandosi sotto il balcone dei
maggiorenti del paese, ignorando le suppliche di mio nonno che non
voleva dispiacere i suoi influenti compari candidati nella lista
avversaria. La cosa lo faceva arrabbiare tantissimo ma finì poi per
rassegnarsi allo spirito rivoluzionario del figlio. Per il matrimonio
no, quello non glielo avrebbe mai perdonato.
Nell’autunno del
1947 papà decise di rompere gli indugi e di sposare mia madre, così,
di nascosto di tutti, soprattutto della sua famiglia, preparò le nozze.
Poco prima delle 4 di una fredda mattinata autunnale si alzò con la
massima cautela, con passo felpato raggiunse la porta i cui cardini
aveva accuratamente lubrificati il giorno prima e, senza portarsi via
nemmeno un cambio di biancheria, abbandonò furtivamente e per sempre la
casa paterna del Vincolato e raggiunse la vicina chiesa dove lo
aspettava mia madre, il parroco don Francesco Fusi, un cugino e
l’amico Giovanni Lacaria, il padre della nostra amica Filomena che gli
fecero da testimoni. Un matrimonio originale, altro che quello descritto
dal grande Fabrizio De Andrè. Finita la “cerimonia”, i miei
tornarono nella casa di nonno Saverio ai Croci. Mia madre festeggiò le
nozze preparando una “fatta” di pane e papà andando a giornata come
manovale,
Quando nonno
Peppino e nonna Maria non videro tornare a casa mio padre, né per il
pranzo, né per la cena, si preoccuparono, ma dopo qualche ora vennero a
saper che il loro secondo figlio maschio si era sposato. Allora vennero
presi dall’ira, soprattutto mia nonna che il giorno dopo, seguita
dalle figlie, si recò in processione ai Croci, dietro la porta di nonno
Saverio inveendo contro il figlio e la nuora, soprattutto contro mio
padre:
“Hai finito di mangiare capretti, urlava nonna rivolta al figlio,
d’ora in poi hai voglia di mangiare fagioli, patate e cicorie!” Sbollita
la rabbia, se ne tornarono a casa.
Dopo qualche giorno
fu la vota di uno dei miei zii che si presentò davanti casa mia. Stette
un po’ sopra pensiero, poi si allontanò mentre nonno Saverio, uscendo
di casa, lo vide e gli chiese cosa volesse.
“Niente, rispose, mio zio,
ero venuto per dare quattro schiaffi a tua figlia, ma penso non ne valga
la pena.” Poi le “ostilità” cessarono.
L’anno dopo
nacque mia sorella, o meglio sarebbe dovuta nascere. In realtà i suoi
occhi non videro mai la luce perché nacque morta soffocata dal cordone
ombelicale che la vecchia ostetrica non riuscì a sbrogliare. Per mia
madre, che avrebbe voluto chiamarla Anna per non darle il nome della
suocera che non l’aveva accettata, fu un colpo terribile. Poi, dopo più
di un anno, nacqui io. Questa volta mio padre, contro la volontà di mia
madre, mi diede il nome il nome del padre, ma mamma non accettò mai
questa sua decisione e per lei fui sempre Nino, come mi chiamarono da
allora nella mia famiglia materna e gli amici più intimi e come mi
chiamano ancora oggi.
Trascorsero quattro
anni e una mattina del 1954 mia madre, con me per mano, si stava recando
a Caccuri. Presso la Santa Croce incrociò le mie zie Gigina ed Eugenia
Marino, sorelle maggiori di mio padre. Zia Gigina, vedendomi, non
resistette al desiderio di conoscere il primo nipote maschio che portava
il nome ed il cognome del padre, si avvicinò e chiese timidamente
a mia madre il permesso di accarezzarmi
e di prendermi in braccio. Mamma, impacciata e presa alla sprovvista
acconsentì, così ricevetti le prime carezze del parentato dei Marino.
“Questa storia deve
finire, disse zia Gigina, mentre zia Eugenia approvava con un cenno
della testa, oggi stesso i miei genitori devono far pace con voi”, così
tornarono indietro con me in braccio, seguite da mia madre a prudente
distanza e mi portarono per la prima volta a casa dei nonni, mentre
mamma aspettava nei paraggi.
Quando nonno Peppino
mi ebbe in braccio si commosse, e ordinò alle figlie di fare entrare
mia madre, che nonno abbracciò e strinse teneramente assieme a
“Peppino Marino iunior”.
Da allora i miei genitori,
assieme a ne, fecero vista tutte le sere ai nonni e mamma divenne la
pupilla di nonno Peppino che, tutte le volte che andava a caccia o
tornava dal suo fondo di Ruttusa a Caccuri, passava da casa nostra per
un caffè, ma soprattutto per abbracciare il nipotino al quale
raccontava le storie di caccia e col quale faceva progetti. Purtroppo
cinque anni dopo fu colpito da un ictus che lo paralizzò e il 18
gennaio del 1960 si spense.
Questa è la
storia di Genuzzu Marino e Maria ‘e Guglielma, due “tizzuni astutati”,
come amavano definirsi, due coniugi partiti da zero, con mio padre senza
nemmeno un cambio di biancheria, ma che lavorando e risparmiando come le
formiche, riuscirono, pian piano, a costruirsi un avvenire dignitoso
senza mai cedere a ricatti o lusinghe, ma restando sempre se stessi.
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