Il
colpo d’occhio era eccezionale;
la Serra Grande
, completamente innevata, fin giù, nel vallone del Cucinaro,
rifletteva la pallida luce del sole. Dove ora c’è
la Parte decine di grotte, in parte ostruite dalla neve, sembravano
tanti piccoli nei che costellavano i fianchi imbiancati della
collina. Dalla rupe pendevano tanti ghiaccioli che, come enormi
stalattiti, puntavano verso il basso; altri ghiaccioli pendevano
luccicanti dai fianchi del castello a disegnare uno scenario da
favola. Affacciandosi dal Murorotto si poteva ammirare la coltre
bianca che da Furnia scendeva verso Gallea, Lupia, Pantane e, a
sinistra, verso i Vignali, Mularea, fino a Troncone. Un freddo
pungente penetrava nelle ossa e la gente se ne stava rintanata nelle
povere casucce badando ad attizzare il fuoco aggiungendo spesso
nuovi “curmi” (1) di legna secca. Era
il 31 dicembre del 1854 e tutti aspettavano con ansia la mezzanotte,
quando l’anno vecchio avrebbe ceduto il passo a quello nuovo.
Nonostante il freddo tremendo, anche questa volta, gli “Rrinari”
avrebbero cantato, come sempre, “ ‘A rrina” (2) per le strade
del paese. Per nessuna ragione al mondo il gruppo dei vecchi
musicanti avrebbe rinunciato a questa antichissima tradizione di una
serenata augurale che si concludeva in una delle tante case del
paese con una mangiata di ruselle,(3) pitte ’mpigliate,
pizzulioni, fritti(4) e con un buon bicchiere di vino. Quest’anno,
poi, l’attesa era particolarmente spasmodica perché uno degli “rrinari”,
Severiu “’u scritture”, con fare misterioso, aveva annunciato
una grande novità e anche gli altri amici, zu Domenico, zu
Salvatore, Ciccantone, ammiccavano, senza sbilanciarsi,
lasciando che la curiosità dei Caccuresi aumentasse febbrilmente.
Alle
quattro di sera nei “catoi” (5) era già buio da un pezzo e i
“cirogiuli” (6), i lumi a petrolio e le scheggie di “rera”
(7) in quelli più poveri, tentavano, con scarso successo, di
rischiarare l’ambiente con le loro deboli fiammelle. Nell’aria
gelida l’odore dei fritti si spandeva per
la Portapicola
, il Trabucco,
la Jureca
, fin nel Pizzetto. Verso
le undici di sera il gruppo degli “rrinari” uscì da un “catoio”
della Portapicola, sali per
la Misericordia
, varcò il “Sumportu” (8) ‘e Francu e raggiunse il sagrato
della chiesa. Era lì che, per tradizione, veniva eseguita la prima
“Rrina” dedicata al Bambino Gesù che era nato da qualche
giorno.
Gli
“rrinari” accordarono gli strumenti, si schiarirono la gola e,
all’improvviso, le note di un ritornello bellissimo, avvolgente,
fin ora sconosciuto, uscirono da uno strumento nuovo di zecca che
nessuno aveva mai visto e che Saverio disse, in seguito, chiamarsi
fisarmonica. Fino ad allora i Caccuresi avevano sempre cantato “
‘a rrina cosentina” sulle note di un valzer lento un po’
malinconico che si ripeteva noioso come una nenia , ma ora,
ascoltavano estasiati, per la prima volta, un ritmo nuovo
avvolgente, che invitava mandolino e violino a sbizzarrirsi e il
basso a contrappuntare la bellissima melodia. Anche il testo era
completamente nuovo, almeno nelle parti ripetute e, quando i
cantatori attaccarono la strofa “Guardatila, guardatila, mo vena,
vena cumu ‘na nobile regina; a una manu porta la jacchera (9) e a
l’atra manu la galante rrina “ gli occhi degli astanti si
riempirono di lacrime. Ancora qualche verso, poi gli “rrinari “intonarono:“
E ne scusati si lu cantu e pocu, c’avimu ‘e jire a cantare ad
autru locu” e chiusero la serenata. Allora scoppiò un
applauso fragoroso e gli “rrinari” furono sommersi da abbracci e
baci che riscaldarono la gelida notte caccurese.
Quella
notte si suonò fino al mattino incuranti del freddo e del gelo e i
Caccuresi diedero fondo alle pitte, ai fritti, ai pizzulioni e alla
provvista di castagne e le “rusellare” divennero roventi. Era
nata “ ‘A rrina caccurise”.