‘ A focera

                                              

                                                                                 Peppino Nesci - 'A focera

 

 “Ligne, ligne allu santu Bomminiu!”  Il grido gioioso riecheggiava nel paese ripetuto, porta a porta,  dai monelli, ma anche dai giovani ciucciari, (1) mentre altri, più grandi, si avviavano verso la Portanova con gli asini carichi di legna per scaricarla sul sagrato della chiesa. La gente si affacciava sull’uscio e indicava ‘u zippune (2) o la zomma (3) che intendeva donare al Bambino Gesù perché,  appena nato, potesse trovare un bel focherello per scaldarsi e vincere i rigori del freddo ai quali lo sottoponevano la stagione e la condizione di povertà che lo costringevano a nascere in una stalla.  Ricevuto l’assenso, i ragazzi caricavano il ciocco sulla carriola e l’accatastavano in un cantuccio per essere caricato sul dorso del somaro e riprendevano il giro.  Anche  zu ‘Ntone aggiogava i buoi per trascinare, girando dalla piazza e per via Buonasera, il tronco di quercia che don Vincenzo donava alla chiesa ogni anno  o quello di gelso, dono di don Antonio. Dopo un paio di giorni di alacre lavoro, il piazzale della chiesa era invaso da cataste di legna tanto che, salendo da via Buonasera la rampa di scale che sbuca sul sagrato, ci si trovava davanti un vero e proprio muro e, per andare verso la Portauova , si doveva girare per la Salita castello.  Ora era il momento di don Ciccio.  


   
Don Ciccio De Franco

L’esperto vecchio veniva invocato a gran voce, come un sacerdote acheo,  a celebrare il consueto rito: la preparazione della “pira.” Nessuno come l'anziano perito agrario sapeva accatastare con maestria l’enorme “percia”(4) di legna che occupava il sagrato, circondato dai suoi accoliti pronti a eseguire i suoi ordini secchi e ad assecondare i suoi gesti sacerdotali. Egli, dapprima con quattro grossi ceppi sui quali adagiava delle traverse più lunghe preparava il fornello, il cuore della fociara, poi, piano, piano, sistemava il resto della legna a cerchi concentrici sempre più ampi alla base e sempre più stretti al vertice. Alla fine della giornata la fociara si ergeva maestosa nel centro del sagrato, pronta per essere accesa. Non rimaneva altro che riempire il fornello di frasche secche e “pampuglie” (5) e aspettare le 8 di sera, quando era prevista l’accensione. Allora cominciava la trepidante attesa dei monelli che avrebbero voluto dar fuoco alla catasta già alle cinque del pomeriggio. Però, nonostante l’impazienza fosse tanta,  nessuno osava, compiere l’atteso gesto per la paura e la soggezione che il vecchio don Ciccio incuteva e tutti aspettavano il suo arrivo.   

 

Alle sette, finalmente, il vecchio arrivava insieme a zu ‘Ntone e a un gruppo di ciucciari, ma non era ancora il momento. I fedeli cominciavano ad affollare la chiesa, mentre il prete, preso dalle sue faccende, si faceva, come sempre, attendere.  Quando mancava un quarto alle otto, arrivavano zu Vincenzo con le ciaramelle, zu Salvatore con il piffero e zu Francesco con le zampogne. Qualche attimo dopo le dolci note di una pastorale, seguite da quelle di “Tu scendi dalle stelle”, spandevano l’armonia e la gioia per via Chiesa e salita Catello,  via Buonasera, fino alla Destra. Ora era giunto il fatidico momento. Don Ciccio inzuppava uno straccio nel secchio di petrolio che aveva nascosto nell’”orticello” ai piedi del campanile, lo infilava nel fornello della fociara e, con uno zolfanello, dava fuoco, mentre dalle bocche dei monelli, che fino a qualche attimo prima disegnavano una curiosa “o”, usciva un “ohhhh!” di stupore e di gioia. Pochi attimi e migliaia di gioiose “faille” (6) si libravano in cielo, mentre gli scoppiettii della legna rallegravano l’ambiente e un tepore dapprima gradevole, si trasformava in calore infernale e costringeva gli entusiasti monelli ad allontanarsi di qualche passo. Poco più in là, seduti sui sedili del sagrato, don Ciccio e gli altri vecchi, antichi patriarchi, si godevano lo spettacolo come valorosi guerrieri a riposo, aspirando voluttuose boccate dalle pipe di creta, lanciando nell’aria nuvole di fumo che si mischiavano a quello della fociara. Intanto era già iniziata la messa di Natale. Poco prima della mezzanotte nasceva il bambinello e zu Vincenzo, intonando con la sua ciaramella “Tu scendi dalle stelle”, partiva dalla porta della chiesa e attraversava, camminando sulle ginocchia, l’intero tempio per andare a baciare il pargoletto che il prete, commosso, mostrava ai fedeli. Poi il sacerdote faceva tre volte il giro della chiesa passando tra i fedeli che baciavano con devozione il Figlio di Dio.

La fociara oramai ardeva a tutto spiano e le lingue di fuoco, dapprima altissime, ora cominciavano a scemare. La mezzanotte era passata da un pezzo e, attorno a quel “frajerinu” (76) cominciavano a celebrarsi i riti pagani delle patate e delle salsicce arrostite, arrivavano i soliti fiaschi di vino mentre qualcuno si divertiva a gettarvi di nascosto qualche castagna che esplodeva fragorosa come un petardo. E mentre si banchettava, qualche teppistello riusciva perfino ad infilare di nascosto una brace nella tasca del pastrano di uno dei tanti vecchi che circondavano la fociara. Attimi di panico, maledizioni all’ignoto mascalzone, imprecazioni, poi tutto finiva annacquato in un buon bicchiere, fino alle quattro del mattino quando il sonno e il vino avevano la meglio e il sagrato, lentamente si spopolava.

All’alba, un grande mucchio di cenere e alcune braci fumanti, erano tutto quanto rimaneva del grande falò. Zia Giulia schiudeva l’uscio, con la paletta riempiva il braciere con quella grazia di Dio e, per quel giorno almeno, il riscaldamento del suo povero tugurio era assicurato.

                                                                            

Note

1)     Proprietari di asini, vaticali, uomini che si dedicavano al commercio della legna

2)     ciocco, parte bassa dell’albero

3)     radice dell’albero

4)     catasta di legna

5)     foglie secche usate come esca per il fuoco

6)     faville

7)     insieme di braci ancora vive, ardenti